A sleep trance, a dream dance
A shared romance
Synchronicity
Toccare il vertice per poi dissolversi poco dopo. Un copione non raro nella storia del rock e riproposto, con sincronismo perfetto, anche nel caso dei Police.
Una band che non ha mai voluto ripetersi, pur avendo tutte le carte in
regola per farlo con successo, e che ha preferito abbandonare la scena
al top della popolarità. Senza mai più neanche riprendere in esame
l’idea di tornare. O forse fu proprio la tensione ormai allo spasmo tra i
membri del trio londinese a produrre lo scatto finale, quello che
consentì a Sting,
Stewart Copeland e Andy Summers di completare la loro parabola, di
coronare tutte le intuizioni precedenti nel loro lavoro più maturo e
futuristico, quello di maggior successo e quello che probabilmente regge
anche meglio la prova del tempo. Il disco perfetto, privo anche di quei
piccoli filler o punti deboli che avevano minato i pur
ragguardevoli predecessori. Perché non c’è una sola nota inutile, in
“Synchronicity”: dall’assalto travolgente dell’ouverture alla
dissolvenza finale di “Tea In The Sahara”. Poco di più di 44 minuti di
musica dinamica, tecnologica, abbagliante. Oggi, come quel 17 giugno
1983 in cui quel caleidoscopio di suoni e di colori (vedasi copertina)
invase i negozi di tutto il mondo. Esattamente 41 anni fa.
Separati in casa (e in copertina)
Riascoltato
a distanza di quattro decenni, “Synchronicity” mantiene tutta la sua
scorza luccicante, associata a suoni tutt’altro che convenzionali o
facili, anche nelle declinazioni più melodiche. È al tempo stesso il
lavoro più commerciale e più “art rock” dei Police, ormai allontanatisi
quasi definitivamente dalla formula-base reggae-rock che ne aveva fatto
le fortune agli esordi. Niente più sfide con i Clash, niente più Police on my back. Mettendo a frutto l’intelligente evoluzione già portata a termine nel precedente – e ottimo – “Ghost In The Machine”,
i Police smussano ulteriormente gli spigoli, con sonorità più morbide e
tondeggianti ma anche più stratificate e complesse, nelle quali
guadagnano terreno sempre più i sintetizzatori, a partire dal Synclavier
e dall’Oberheim, programmato personalmente da Sting, mentre Summers processa le sue chitarre tramite un guitar synth GR300 della Roland e Copeland lavora sulla ritmica dei sequencer. Alla fine nei credits
l’alternanza risulterà sintetizzata in “all noises by The Police” ma di
collettivo, ormai, era rimasto ben poco. Più che le differenze di background
sonoro – l’ex-prof Sting con le sue quattro corde forgiate dal jazz,
l’americano Copeland ex-Curved Air più affine a quel prog bazzicato
anche dal chitarrista Summers – a dividere i tre era la lotta per il
predominio nel gruppo, con il leader sempre più insofferente alle
obiezioni del batterista e il buon Summers ormai stanco di mediare. “In
quell’epoca Sting e Stewart si odiavano a vicenda e Andy, pur non
mostrando altrettanto veleno, poteva essere piuttosto scontroso, c’erano
scontri sia verbali che fisici”, ricorderà il produttore Hugh Padgham.
Così, al culmine di quella Policemania che li aveva accompagnati in
quattro estenuanti anni di tour in cui avevano conquistato gli stadi e
anche l’America, i tre erano giunti al punto di rottura.
Registrato
nell’eden caraibico dell’isola di Montserrat, all’interno degli Air
Studios di George Martin, “Synchronicity” è dunque l’opera di tre
separati in casa. Anche materialmente: Sting incide le sue parti nella
sala di controllo alla presenza di Padgham, Summers nell’area ricreativa
e Copeland in sala da pranzo al piano superiore. Non solo: persino la
copertina riflette la tripartizione con le sue tre strisce orizzontali
di foto in bianco e nero dedicate ognuna a uno dei musicisti,
evidenziate da colori diversi tra fronte e retro: Sting in giallo – e in
blu sulla back cover – sotto di lui Copeland in blu e infine
Summers in rosso (ma le combinazioni cambiano nelle varie versioni, sia
per i colori che per la posizione dei tre: ne sono state stampate ben 36
differenti, addirittura 93 secondo Goldmine Record Album Price Guide!).
Di univoco c’è invece lo spunto di base, dettato da Sting:
il concetto di “sincronicità” teorizzato da Carl Gustav Jung, secondo
il quale alcuni eventi contemporanei che appaiono come mere coincidenze
sono in realtà collegati attraverso il loro significato. L’ex-professore
di Wallsend lo aveva filtrato attraverso la lettura di un libro di
parapsicologia di Arthur Koestler (“Le radici del caso”), ovvero colui
che aveva già ispirato il titolo di “Ghost In The Machine” (dalla sua
opera tradotta in italiano come “Il fantasma dentro la macchina”). Quasi
un concept per un disco che però spazia tra tematiche diverse, unite forse solo da un senso di inquietudine e di ansia per il futuro.
I brani
Se
il Fantasma nella Macchina aveva già asciugato e reso più astratto il
caldo reggae-rock degli esordi, “Synchronicity” lo raffredda
ulteriormente, all’interno di una gelida confezione sintetica e
tecnologica, in cui il taglia e cuci in studio assume un ruolo mai così
rilevante, ma in cui resta intatta tutta la potenza primordiale del sound dei Police. È così un’esplosione deflagrante ad accogliere l’ascoltatore in "Synchronicity I": un’autentica frustata fin dall'intro di synth scandita dai poliritmi martellanti e nevrotici di Copeland e poi impreziosita dai barrage e dagli arpeggi di un Summers in formato Fripp, mentre Sting si addentra nei meandri delle teorie psicologiche junghiane:
“A connecting principle/ Linked to the invisible/ Almost imperceptible/
Something inexpressible/ Science insusceptible”. È lo splendido incipit
di un lato A ad alto tasso di sperimentazione che sovverte i soliti
dogmi commerciali, basati su un'apertura più immediata e qualche
concessione alla ricerca in coda.
La successiva "Walking In Your
Footsteps" ci trascina su ritmi di elettronica tribale, tra le
percussioni synth di Copeland e le svisate sottili di chitarra di
Summers, in una giungla densa di vapori africani ed echi animaleschi,
compiendo un beffardo parallelo tra uomini e dinosauri (“Hey Mr.
Dinosaur, you really couldn't ask for more/ you were God's favourite
creature, but you dind't have a future”), con lo spettro di una
incombente catastrofe nucleare – l'ossessione numero uno della new wave tutta – a prefigurare una nuova estinzione (“if we explode the atom bomb”).
La
funkeggiante "O My God" riprende il tema della solitudine nella folla
tanto caro al primo Sting, in una dimensione ormai da perfetto songwriter pop. Con un basso che a tratti richiama quello di Paul McCartney in "Daytripper", Gordon Sumner descrive progressioni armoniche ottimamente sostenute dal solito grande drumming
sferragliante e dalle ondate di marea di una chitarra iper-flangerata,
permettendosi anche di disegnare col sax un finale dissonante di sapore
jazzistico.
Decisamente insolita e sicuramente impressionante è
la paranoica "Mother", composta e cantata da Summers: un soliloquio
isterico, prossimo a territori no wave (o persino a Captain Beefheart) caratterizzato da un frenetico, pazzesco tempo dispari, da uno sfibrante chitarrismo alla Fripp
e da un clarino mediorientale, con un canto allucinato e straziante,
segnato da una follia disperata degna di Norman Bates. Una sorta di inno
semiserio sulle madri oppressive e soffocanti, come – a quanto pare –
quella di Andy: “Tutte le ragazze con cui esco alla fine diventano mia
madre. Ma non ho bisogno di lei come amica. Bene, io sento mia madre che
telefona. Oh mamma cara, per favore ascolta e non divorarmi”. È
l'episodio più estremo del disco, quello in cui i Police, con il loro fulminante humor nero, si divertono a sconvolgere chi li ha sempre etichettati come una band da classifica.
La
divertente marcia caraibica di "Miss Gradenko", frutto dell'ormai
limitato spazio compositivo assegnato a Copeland, è marchiata da un
perfetto assolo pentatonico di chitarra e ha un'atmosfera allegra che
riporta vagamente al primo Lp, con un testo anti-totalitario, che
mescola spy-story e paranoie sovietiche, ispirato da “1984” di
Orwell. Un antipasto leggero, prima delle nuove tempestose bordate
elettroniche di "Synchronicity II", che chiude la prima facciata
psicanalizzando spietatamente la famiglia media. Batteria secca e
incessante in levare, basso pulsante, muri di chitarre quasi noise-rock e
un canto rabbioso squarciano il velo delle tragedie nascoste nella
banalità e nelle desolazioni della vita quotidiana, raccontando il
collasso nevrotico di un uomo frustrato da famiglia, lavoro e pressione
sociale, mentre un mostro affiora da un lago: sì, proprio quello di Loch
Ness (“Many miles away something crawls from the slime/ at the bottom
of a dark Scottish lake”).
Il lato B invece, come si diceva, è il vero greatest hits
racchiuso nell'album, anche se i temi dei brani restano tutt'altro che
leggeri, spesso anzi molto oscuri ed enigmatici. Ad alimentare equivoci
sarà anche il più celebre di tutti, il classico dei classici di Sting:
"Every Breath You Take" è una non-canzone d’amore morbosa, anzi, stando
alle parole del suo autore, “il vero inno degli anni reaganiani”, poiché
narra di uno stalker a tal punto ossessionato dalla donna amata da
toglierle il respiro, quasi la metafora di una società orwelliana in cui
la politica controlla ogni attività e impedisce lo sviluppo di un
pensiero libero. È LA canzone pop per eccellenza, quella che si ripete
sempre pur incarnandosi in vesti e con autori differenti. Come "Stand By
Me" (di cui riprende il giro nella strofa, uno standard incredibilmente
trasformato in qualcos'altro irriconoscibile), come "Yesterday", come
poche altre canzoni, è capace di essere già nella mente dell'ascoltatore
nel momento in cui viene ascoltata per la prima volta, come un
archetipo, come un deja vu. E pensare che anche la massima hit
dei Police nacque in piena battaglia: con Sting e Copeland addirittura a
un passo dallo scontro fisico e il produttore costretto a rielaborarla
sovraincidendo alcune parti. Ancora una volta fu però Summers a salvare
la baracca: quando Sting
portò il brano in studio in versione scarna, solo organo e voce,
l’affidò ad Andy dicendogli: “Fanne ciò che vuoi”. E Summers inventò
l’immortale riff di chitarra accarezzando le corde con una gomma da cancellare per ottenere quel favoloso stoppato soft.
Come raccontò Copeland in un’intervista del 1997: “Senza Andy quella
canzone non sarebbe niente”. “Every Breath You Take” sarà anche oggetto
di innumerevoli cover, a partire da quella del 1997 (“I'll Be Missing
You”) interpretata dal rapper Puff Daddy e dalla cantante Faith Evans in
ricordo del marito Notorious B.I.G., ucciso poco tempo prima.
È
invece in gran parte farina del sacco del leader la splendida "King Of
Pain": introdotta da una monotona nota di tastiera in controtempo, si
sviluppa come una rock song su tonalità minori, con un ritornello aperto, i soliti, perfetti, break
carichi di tensione, e un ficcante assolo di Summers alla sei corde. È
una sorta di elegia della solitudine e dell’impossibilità di affrancarsi
dal dolore, nata – si narra – dalla crisi personale vissuta da Sting
dopo la fine del suo primo matrimonio. Uno stato psicologico
simboleggiato da una macchia nera sul sole (“There's a little black spot
on the sun today”) e sublimato in versi di nero pessimismo: “I have
stood here inside before the pouring rain/ with the world turning
circles runinng round my brain/ I guess I'm always hoping that you'll
end this reign/ but it's my destiny to be the king of pain”.
L’elettro-reggae
avvolgente di "Wrapped Around Your Finger" è l'ennesimo singolo di
successo, ma dietro le tinte solari cela un altro testo criptico, denso
di riferimenti letterari e mitologici, che culmina in una sorta di
rivalsa e ribaltamento dei ruoli: “Mi consideri il giovane apprendista/
(…) Sono venuto qui solo in cerca di conoscenza/ (…) Ascolterò con
attenzione le tue lezioni/ (…) Trasformerò il tuo volto in alabastro/
Quando scoprirai che il tuo servo è il tuo padrone”.
A chiudere
in gloria il disco è la storia delle sorelle in eterna attesa di un
principe arabo per un "Tea In The Sahara". Quella che secondo Copeland è
la “canzone più bella dei Police” si ispira al romanzo “Il tè nel
deserto” di Paul Bowles (dal quale Bertolucci trasse l’omonimo film) e
si regge su una incredibile chitarra minimale che sembra perdersi in
orizzonti sconfinati e ci inonda di sole e sabbia del deserto (è il
"wobbing cloud", un effetto inventato da Summers), vaporizzando
letteralmente il brano, ancora una volta in combinazione con un charleston sghembo e dal ritmo spezzato.
Nella
versione cd dell'album, compare in chiusura anche la ironica "Murder By
Numbers", dal testo ancora una volta sinistro sulle dinamiche assassine
della politica: un divertente assaggio jazz-rock che vede in combutta
Summers e Sting, i due jazzisti del gruppo, nel mettere un piede nel
passato e uno nel futuro di entrambi.
“Synchroncity” venderà 16 milioni di copie, spodestando dal n.1 della classifica di Billboard nientedimeno che “Thriller” di Michael Jackson,
fino a quel momento l’album più venduto di tutti i tempi. Si
aggiudicherà anche 3 Grammy Award nel 1984 (Best Rock Performance, Song
of the Year e Best Pop Performance). Il tour mondiale a supporto del
disco partirà nell’estate del 1983 e si concluderà il 4 marzo 1984 con
un ultimo concerto a Melbourne. Dopo che Sting
aveva già debuttato da solista con “The Dream Of The Blue Turtles”
(1985) e dopo tre concerti a sostegno del tour di Amnesty International
“A Conspiracy of Hope” a giugno del 1986, nel luglio dello stesso anno i
Police
ci riproveranno in studio. Ma non funzionerà. Impossibile mediare ancora
tra contrasti ormai insanabili: “Ero arrivato al punto che se portavo
in studio 12 canzoni, volevo che tutte e 12 fossero nel disco, non avevo
più voglia di combattere per ogni pezzo”, ammetterà Sting. E così i tre
poliziotti prenderanno ognuno la sua strada. Dimostrando però – se si
eccettua il primo, ottimo Lp di Sting e qualche esperimento di Copeland –
che solo insieme la loro creatività poteva esprimersi al massimo.
Peccato.
La riedizione
A quattro decenni dalla sua uscita, "Synchronicity" dei Police sarà ripubblicato il 26 luglio 2024 in numerosi formati, incluso un cofanetto deluxe
da 6cd con 55 brani inediti, incluse rare demo di Sting, nuove note di
copertina, interviste, memorabilia e fotografie mai viste prima. Un vero
tesoro per i fan di Sting,
Stewart Copeland e Andy Summers. La ristampa, realizzata con il
coinvolgimento diretto della band, ha richiesto tre anni di lavoro. Il
libro di 62 pagine incluso nel box contiene nuove e approfondite note di
copertina scritte dal noto giornalista musicale Jason Draper, che
racconta nei dettagli la nascita del capolavoro dei Police.
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