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28/06/2024

Il collasso del sionismo (atomica permettendo)

Nel suo articolo sul collasso del sionismo, Pappé si porta indubbiamente avanti col lavoro di analisi individuando sei indicatori cruciali per comprendere – nei limiti del possibile – come potrebbe risolversi la crisi di Israele. Crisi che indubbiamente c’è (e da tempo), ma che per evolvere verso quel crollo auspicato da Pappé, dovrebbe registrare come irrisolvibili almeno la maggior parte delle contraddizioni elencate nell’articolo, con l’aggiunta di una opzione finale che l’autore non ha preso in considerazione.

Su un aspetto Pappé si dimostra, da par suo, estremamente lungimirante: quello per cui il “destino” della Palestina e di molti degli ebrei che vorranno ancora abitarla una volta sconfitto il sionismo, risiede nelle capacità delle giovani generazioni palestinesi di essere all’altezza di un evento storico senza precedenti che li vedrebbe, nello stesso tempo, liberati e liberatori.

Ma perché questo si concretizzi occorrerebbe che il popolo ebraico – sicuramente quello che si è insediato in Palestina – vada incontro ad una vera e propria catarsi, da non intendersi però come mera questione filosofica (il purificarsi da una contaminazione) o psicologica, ma che rimetta in discussione la sua storia recente, ovvero quel processo materiale che dal 1948 ad oggi ha consentito agli ebrei insediatisi in Palestina sia di guadagnare prestigio sulla scena internazionale, sia di raggiungere uno status sociale per molti versi invidiabile, a cui dovrebbero rinunciare in cambio di una pace e di una convivenza che non è mai stata presa in seria considerazione da nessuna delle due parti politiche in conflitto schematizzate da Pappé: lo Stato di Israele e lo Stato di Giudea.

Quanto al fatto che lo Stato di Giudea, se vincente sull’altro, non sarebbe tollerato – secondo Pappé – dal mondo arabo e forse anche dal mondo in generale, parrebbe più che altro un desiderio, ché proprio questo era il segno politico degli accordi di Abramo, sponsorizzati dagli Stati Uniti con il silenzio/assenso dell’Europa, ma con la partecipazione convinta di una significativa parte del mondo arabo.

Se questo processo si è interrotto non lo si deve a contraddizioni interne alla società israeliana, né a pressioni internazionali, ma solo ed esclusivamente all’azione della resistenza palestinese il cui apice è rappresentato dal 7 ottobre.

I punti-crisi citati da Pappé, per quanto separatamente possano incidere sull’aggravamento della crisi di Israele, nel loro complesso riconducono ad un unico ragionamento di tipo circolare: Israele è uno stato con una economia avanzata, potenzialmente ricco, i cui cittadini di religione ebraica hanno raggiunto in pochi decenni un buon tenore di vita (ma con forti disuguaglianze sociali), ciononostante presenta un enorme deficit pubblico e una inflazione elevata, a causa di un impegno nelle spese militari fuori dal comune, testimoniato dal fatto che è il primo paese al mondo per spesa pro capite negli armamenti e il terzo paese al mondo come percentuale del PIL destinata agli armamenti (dati SIPRI 2023).

Un paese che paga un prezzo altissimo all’industria delle armi (tra 25 e i 30 miliardi di dollari/anno, il 5,3% del PIL), ma che è proprio grazie alle armi e al sostegno internazionale che occupa il posto che ha, avendo imposto a tratti di sangue e di fuoco (come scriveva Marx) quell’accumulazione primitiva (occupazione delle terre, esproprio delle risorse naturali, cacciata dei palestinesi) senza la quale la proclamazione dello stato di Israele sarebbe rimasto un elenco di rivendicazioni e buoni propositi.

Posto quindi che l’analisi di Pappé risulti congruente con tutti gli elementi al contorno che afferiscono alla situazione di Israele (economici, culturali, geopolitici ed anche militari) c’è un aspetto che egli trascura unitamente a quasi tutti i commentatori: quello dell’opzione atomica che Israele è in grado di esercitare.

Se come lui stesso scrive “quando Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla”, ciò non può prescindere dal mettere in conto che Israele usi l’arma atomica, non in funzione deterrente, ma come impiego effettivo e risolutivo della sua crisi, sganciandola (non su Gaza evidentemente) ma su uno dei paesi costituenti “l’asse del male”. Sarebbe una chiamata di correità per tutto l’Occidente dalle conseguenze inimmaginabili che però è meno impensabile di quanto si creda, se si pone attenzione a certi precedenti.

Israele, che non ha mai ammesso di possedere armi nucleari, non ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare e nemmeno i protocolli aggiuntivi della Convenzione di Vienna che vietano il bombardamento di installazioni nucleari, mentre si è sempre opposta a qualsiasi ispezione dell’AIEA sul sito nucleare di Dimona.

Nello stesso tempo si è prodigata con tutti i mezzi per impedire che altri paesi arabi intraprendessero la strada del nucleare, foss’anche quello civile: distruzione del reattore iraqeno di Osirak da parte dell’aviazione israeliana avvenuta il 7 giugno 1981 e di quello siriano di Al-Kibar, distrutto da Israele nel 2007, senza che in entrambi i casi ci siano state sanzioni o censure di alcun tipo da parte della comunità internazionale.

Anzi, nelle riunioni del Consiglio di sicurezza del giugno 1981, convocate a seguito dell’incursione israeliana in Iraq, il rappresentante di Israele si è permesso di dire che “il raid contro il reattore atomico iracheno Osirak era stato un atto di autoconservazione col quale Israele aveva esercitato il suo diritto di autodifesa come inteso nel diritto internazionale e come richiamato nell’Art. 51 della Carta dell’ONU”.

D’altra parte sarebbe un errore credere che la parte meno “feroce” di Israele – quella degli ebrei europei più laici e liberali che furono determinanti nella creazione dello stato nel 1948, cioè lo Stato di Israele come lo definisce Pappé – si opporrebbe all’uso della atomica, per il semplice fatto che fu proprio quella classe dirigente (negli anni ‘50-’60 del secolo scorso) a perseguire e realizzare il progetto della bomba, prima con l’appoggio della Francia e poi degli Usa.

Oggi Israele è accreditata di almeno ottanta testate nucleari, presumibilmente anche termonucleari, sicuramente del tipo “tattico” e dei relativi sistemi di lancio; armi di cui negli ultimi tempi si è parlato con scellerata disinvoltura circa un loro impiego, tutto sommato, accettabile nell’attuale situazione internazionale, che suona come un invito alle orecchie di Israele nel mentre che esso si rivela del tutto sordo alle sentenze, sia della corte internazionale di giustizia che di quella penale.

L’opzione atomica nelle mani di Israele è il peggior frutto che l’Occidente abbia partorito dall’ultimo dopoguerra perché, non solo non è ascrivibile al risiko globale della guerra nucleare ancora governato (si fa per dire) da consumati apparati di reciproco controllo e sicurezza Est-Ovest, ma perché nel suo autonomizzarsi dai suoi padrini originari, Israele ne fa un uso che nelle migliore delle ipotesi funge da ricatto per ottenere armi e consenso alla sua politica di aggressione verso alcuni paesi arabi e di sterminio dei palestinesi ma, nel caso peggiore, è una seria minaccia per tutta l’umanità e come tale va denunciata, contrastata e rimossa.

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