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18/06/2024

Dai bassi tassi di interesse all’alta spesa militare: crisi di egemonia e pulsioni belliche degli USA

I. Domanda effettiva e crescita dei consumi delle famiglie

La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati ​​è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.

II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito

Una prima relazione causale tra tassi di interesse e consumi che vale la pena considerare è quella stabilita dall’influenza diretta che il tasso di interesse esercita sulla distribuzione del reddito. Il tasso di interesse sulle attività finanziarie prive di rischio a lungo termine costituisce un determinante autonomo dei costi normali di produzione; a parità di condizioni, un abbassamento persistente del tasso di interesse a lungo termine come quello avvenuto negli ultimi quaranta anni provoca un abbassamento del livello dei prezzi in relazione al livello dei salari monetari, generando così una riduzione del tasso normale di profitto e un aumento del salario reale. Questa relazione tra tasso di interesse e salari reali è tuttavia offuscata dal fatto che il tasso di interesse a lungo termine non è che uno dei determinanti dei margini di profitto normali lordi. Gli altri sono, oltre ai profitti normali di impresa, gli ammortamenti e le remunerazioni degli alti dirigenti. Per ogni dato andamento del tasso di interesse a lungo termine, ciascuna di queste altre componenti del profitto normale lordo può subire nel tempo qualche cambiamento, tale da risultare in un movimento non inverso dei tassi di interesse e dei salari reali. È ampiamente riconosciuto che l’accorciamento della vita media delle attrezzature ha causato negli ultimi decenni un aumento delle quote di ammortamento per unità di prodotto. Ancora più importante, un indebolimento generale dell’incentivo a investire ha probabilmente comportato profitti aziendali significativamente più elevati in tutta l’economia. L’epocale allontanamento dall’obiettivo politico della piena occupazione avvenuto alla fine degli anni ’70 ha ridotto l’incentivo a investire in tutto il capitalismo avanzato, abbassando il tasso di crescita della formazione di capitale fisso a meno della metà di quello registrato nell’età d’oro del capitalismo avanzato, ovvero il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale. Il punto è che una riduzione dell’incentivo a investire equivale a un aumento del rischio di impiegare produttivamente il capitale, che deve dunque tradursi in un aumento della componente normale del profitto necessaria a remunerarlo. A causa di tutti questi cambiamenti, i margini di profitto sono aumentati nonostante la marcata tendenza al ribasso dei tassi di interesse a lungo termine. Ma senza la riduzione dei tassi di interesse, i margini di profitto lordi e il rapporto tra prezzi e salari monetari sarebbero stati ancora più elevati. In effetti, soprattutto nella seconda metà degli anni ’90, la diminuzione dei tassi di interesse sembra aver in una certa misura frenato l’impatto negativo sui salari reali dell’aumento delle altre tre componenti dei profitti normali.

III. Bassi tassi di interesse e prestiti al consumo

A prescindere dal loro impatto attraverso la distribuzione del reddito, i bassi tassi di interesse hanno sostenuto i consumi, soprattutto negli Stati Uniti, attraverso i loro effetti sul debito delle famiglie, sui prezzi dei titoli obbligazionari e azionari, nonché sul valore delle case. A partire dalla metà degli anni Novanta, la capacità di ampi settori della popolazione di acquistare beni e servizi è stata significativamente influenzata in modo positivo sia da un minore onere del debito che da un aumento dei prezzi dei titoli e delle case. Consideriamo questi fenomeni più nel dettaglio, partendo dall’indebitamento delle famiglie.

Come abbiamo sostenuto altrove (Barba e Pivetti, 2009), il calo dei tassi di interesse è riuscito a contenere per diversi anni la quota di reddito personale disponibile delle famiglie necessaria ad onorare il loro crescente indebitamento, prolungando così in modo significativo la sostenibilità macroeconomica di un massiccio processo di sostituzione dei salari con i prestiti. Dal 1982 in poi il credito al consumo ebbe una forte espansione, con una crescita media dell’8% nel periodo dal 1992 fino alla crisi finanziaria. Oltre ai debiti dovuti alle carte di credito e alle vendite rateali (per le automobili in particolar modo), anche una cospicua parte dell’aumento dei mutui ipotecari del periodo fu il riflesso della crescente tendenza delle famiglie a indebitarsi per finanziare i consumi, utilizzando il valore delle case come collaterale. Dal momento che, in proporzione al reddito, il credito al consumo a vario titolo erogato era fortemente concentrato nell’80% più basso della distribuzione del reddito, l’indebitamento delle famiglie di quegli anni può essere visto come la contropartita del cambiamento distributivo avvenuto negli USA a partire dall’inizio degli anni ‘80. In un contesto di deregolamentazione finanziaria e di allentamento dei vincoli di liquidità per le famiglie a basso e medio reddito, l’aumento del credito al consumo è stato la risposta alla stagnazione dei salari reali (anche ad aumenti dei salari che, tuttavia, persistentemente non tenevano il passo con la produttività), nonché alle crescenti divergenze tra le retribuzioni più alte e quelle più basse.

Attraverso l’indebitamento delle famiglie si assicurò in sostanza la coesistenza tra salari relativamente bassi e livelli elevati di domanda aggregata, senza che fosse per questo necessario ricorrere all’intervento statale e a maggiori spese pubbliche. Inoltre, con la sostituzione dei prestiti ai salari, la quota di reddito effettivo spettante ai capitalisti ed hoc genus omne (soprattutto a quest’ultimo, secondo Piketty e Saez 2006) venne alimentata anche dal fatto che l’onere del servizio del debito alla fine spinse i salariati a lavorare di più e per orari più lunghi, accrescendo la loro disponibilità ad “andare ovunque e fare qualsiasi cosa” e contribuendo così alla persistenza dei bassi salari.

Ma il processo di sostituzione dei prestiti ai salari non poteva andare avanti all’infinito. Oltre certi livelli, il servizio del debito da parte delle famiglie indebitate diventava insostenibile. Di fatto, la sostenibilità macroeconomica del processo venne significativamente prolungata in due modi: in primo luogo, coinvolgendo un numero crescente di lavoratori dipendenti nel processo di indebitamento (un’espansione considerevole nel corso di diversi anni dei cosiddetti mutui subprime fu l’aspetto principale di questo primo mezzo di protrazione del processo); in secondo luogo, proprio dalla politica di progressiva riduzione dei tassi di interesse perseguita dalla Federal Reserve a partire dal 1995. Infatti, a fronte di tassi di interesse che continuavano a scendere, l’onere del servizio del debito, misurato in percentuale del reddito personale disponibile, non aumentava nonostante il continuo aumento del debito delle famiglie in rapporto al PIL. Non c’è dubbio, insomma, che il ricorso ad una politica monetaria di denaro sempre più a buon mercato ritardò significativamente negli Stati Uniti il redde rationem del rapido aumento del debito delle famiglie, così come non c’è dubbio che la posizione del dollaro come indiscussa valuta di riserva internazionale fu ciò che permise agli Stati Uniti di mantenere il controllo dei tassi di interesse interni, nonostante la liberalizzazione finanziaria.

Resta tuttavia il fatto che anche una politica di bassi tassi di interesse non poteva consentire al processo di continuare, come divenne chiaro non solo con la crisi finanziaria ma anche dopo, quando l’espansione del credito al consumo non riavviò il trend di crescita pre-crisi, nonostante i bassi tassi di interesse e la ripresa dei prezzi delle case.

IV. Bassi tassi di interesse e effetti ricchezza

Oltre a consentire un lungo processo di sostituzione dei salari con prestiti, c’è un altro canale attraverso il quale il denaro a basso costo potrebbe aver reso i consumi delle famiglie negli Stati Uniti la componente più dinamica della domanda effettiva. Ci riferiamo alla crescita del loro patrimonio netto. I dati sembrano suggerire una stabile relazione inversa tra il tasso di risparmio personale e il patrimonio netto delle famiglie. Durante l’età dell’oro del capitalismo avanzato, il tasso di risparmio personale aumentò leggermente, mentre il rapporto tra patrimonio netto e PIL diminuì leggermente. Questo rapporto cominciò a crescere costantemente all’inizio degli anni ‘80, quando il tasso di risparmio personale iniziò a ridursi, per poi acquistare slancio nei decenni successivi, in particolare durante la bolla delle dot-com 1995-2000, la bolla immobiliare e creditizia del 2003-2007 e l’emergenza sanitaria pubblica del COVID-19.

A partire dal 2007, tuttavia, il legame tra ricchezza e risparmio è venuto meno, e nonostante una crescita sostanziale del rapporto patrimonio netto/PIL, il tasso di risparmio personale è rimasto pressoché invariato dopo il 2010. Lo sganciamento del rapporto patrimonio netto/PIL dal tasso di risparmio personale suggerisce con forza che in realtà gli effetti della ricchezza sui consumi sono molto più tenui di quanto si creda. Il motivo è legato al modo in cui la crescita del patrimonio netto ha interessato i diversi percentili della distribuzione del reddito. Alla fine del 1989 il patrimonio netto delle famiglie americane era pari a circa 21 trilioni; nel terzo trimestre del 2023 ha raggiunto i 142,4 trilioni. Questa crescita è andata per 80 trilioni al 10% più ricco della popolazione; solo per 40 trilioni all’80% più povero. Mentre nel 1989 la quota di ricchezza netta detenuta dall’80% delle famiglie più povere era pari al 39,3% rispetto al 60,7% detenuta dal 20% più ricco, nel 2023 la quota delle prime è scesa al 29,6% mentre quella delle seconde è cresciuta al 70,4%. La riduzione ha interessato tutti i gruppi percentili più bassi della scala del reddito, ad eccezione del gruppo 0-20% la cui quota è rimasta pressoché invariata. La quota del gruppo 20-40% è scesa dal 7,5% al 4,6%; quello del gruppo 40-60% dal 12,4% all’8,4% e quello del gruppo 60-80% dal 16,5% al 13,5%. A beneficiarne è stata la fascia 80-99% con un aumento dal 43,9% al 47,2% e, soprattutto, l’1% più ricco della popolazione con la sua quota in aumento dal 16,8% al 23,3%.

È quindi possibile concludere che il fenomeno rilevante verificatosi nel 2010 fu la fine della crescita incontrollata dei consumi delle famiglie finanziati dal debito – non la perdita di forza dell’effetto ricchezza, dal momento che anche prima della crisi finanziaria il suo ruolo era stato di fatto limitato alla sola ricchezza immobiliare come strumento di finanziamento dei consumi a debito.

Proprio perché è difficile negare che gli effetti ricchezza, eccezion fatta per il canale mutui ipotecari-credito al consumo, riguardino soprattutto i ricchi, secondo alcuni autori (vedi ad esempio Maki e Palumbo, 2001) la caduta del tasso di risparmio statunitense sarebbe stata determinata dal comportamento di consumo del quintile più alto della distribuzione: gli effetti ricchezza avrebbero aumentato la propensione al consumo dei percettori dei redditi più alti a tal punto da rendere negativo il loro tasso di risparmio. In realtà, l’idea che gli effetti ricchezza possano aver portato i ricchi a ridurre il tasso di risparmio complessivo è piuttosto difficile da digerire, considerando che la coda finale del quintile più alto è composto da persone che sono semplicemente troppo ricche per poter spendere in consumi l’intero reddito. Quindi, anche se il calo dei tassi di interesse e i relativi effetti ricchezza possono aver stimolato per diversi anni dei consumi opulenti, può difficilmente stupire che l’idea che la concentrazione della ricchezza possa trasformarsi da “da vizio privato a pubblica virtù” abbia recentemente perso terreno. Da un lato, gli studi quantitativi dell’effetto ricchezza sui consumi personali stanno sempre di più evidenziando un ruolo molto limitato per il mercato azionario, mentre un’influenza molto più forte risulta essere esercitata dalla ricchezza non finanziaria. Questo esito dipende proprio dall’elevata concentrazione della ricchezza azionaria, rispetto a quella immobiliare, che è invece molto più equamente distribuita, e che, come sottolineato in precedenza, ha sostenuto i consumi fungendo da garanzia per il debito delle famiglie, funzione che soprattutto negli anni precedenti la crisi finanziaria ha interessato i livelli più bassi della distribuzione del reddito, composti in gran parte da famiglie con basso merito creditizio. Del resto, il riconoscimento che i ricchi risparmino di più e che il maggiore risparmio del 10%-20% più ricco della popolazione sia da mettere in relazione al minor risparmio del restante 90%-80% sta guadagnando terreno anche nella letteratura ortodossa, anche se con un ritardo significativo e in connessione con la tesi tradizionale secondo cui sarebbe stato proprio l’eccesso di risparmio dei ricchi ad aver spinto i tassi di interesse verso il basso (cfr. Mian et al., 2021).

V. Bassi tassi di interesse ed eutanasia del rentier

Nel 2021, la politica statunitense di lungo periodo di tassi di interesse bassi e calanti è giunta al termine, un cambiamento di indirizzo ufficialmente giustificato dalla necessità di combattere l’inflazione. Ma come strumento antinflazionistico, una politica monetaria più restrittiva è a dir poco problematica. Questo perché i tassi di interesse sono considerati dalle imprese come un costo, con il corollario che una politica di denaro a caro prezzo è inflazionistica, come confermato da tempo dagli studi empirici sulle politiche di prezzo delle imprese. Si potrebbe dire, usando le parole di un vecchio presidente del Joint Economic Committee americano, che “alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione è come buttare benzina sul fuoco”. Dati i salari monetari e la produttività del lavoro, l’aumento dei prezzi causato da un aumento duraturo dei tassi di interesse riflette semplicemente l’adattamento dei prezzi ai costi normali produzione causato dalla concorrenza. Tassi di interesse più elevati potrebbero riuscire a ridurre l’inflazione solo se il rapporto più elevato tra prezzi e salari monetari che essi determinano fosse più che controbilanciato da una riduzione o da un aumento più lento dei salari monetari, causato dall’impatto negativo sull’occupazione della contrazione della spesa per consumi provocata da tassi di interesse più elevati. Rispetto all’abbandono della politica di bassi tassi di interesse, più importante dei suoi effetti sull’inflazione è il semplice fatto che il capitalismo non può funzionare indefinitamente con tassi di interesse nulli o negativi – uno stato di “eutanasia del rentier” non può essere raggiunto semplicemente attraverso la politica monetaria, senza alcuna rivoluzione sociale. Nel sistema capitalistico la proprietà privata della ricchezza, distinta dalla proprietà del capitale produttivo, non può cessare permanentemente di produrre reddito, indipendentemente dalle forme del suo impiego; né la maggior parte di quel reddito può essere garantita in modo permanente dalla speculazione e dalle plusvalenze. Nel contesto di una politica permanente di tassi di interesse nulli, la mera proprietà privata della ricchezza cesserebbe di essere una sinecura, il sistema creditizio collasserebbe e i redditi da capitale potrebbero continuare ad esistere solo come profitti d’impresa.

VI. Domanda effettiva e spesa militare

Negli ultimi tre anni la politica statunitense di rincaro della moneta e rafforzamento del dollaro si è accompagnata a politiche di bilancio espansive, integrate da politiche industriali volte a ridurre la propensione all’importazione del Paese, soprattutto in alcuni settori chiave: il “Buy American Rules”, l’“Inflation Reduction Act” (in realtà una misura protezionistica intesa a stimolare la produzione manifatturiera nazionale) e il “CHIPS & Science Act” sono le più importanti tra esse. La fine nel 2021 di un lungo periodo durante il quale negli USA la crescita era stata sostenuta principalmente dalla spesa per consumi delle famiglie sembra aver trovato sbocco nel ritorno ad una politica di “grande governo”, non solo con l’obiettivo di sostenere la crescita nel nuovo contesto, ma anche di riconquistare egemonia internazionale. Su entrambi i fronti – crescita economica e ripristino dell’egemonia – un nuovo rafforzamento militare americano sembra essere l’esito più probabile.

Nella tradizione keynesiana, con il termine “grande governo” si è sempre fatto riferimento a tassi elevati e crescenti di spesa statale, locale e federale – in particolare di quest’ultima, poiché è principalmente il governo federale che può influenzare la domanda aggregata attraverso la politica fiscale per garantire il buon andamento dell’economia. Ma dall’inizio della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica nel 1947, fatta eccezione per la breve esperienza del presidente Johnson con i suoi programmi sociali della Great Society, un’ingente spesa federale non ha mai significato negli Stati Uniti creazione e sviluppo di un generoso sistema di Welfare State di tipo socialdemocratico europeo. Dall’enunciazione della Dottrina Truman nel marzo 1947 fino alla fine degli anni ’60 gli acquisti federali legati ai programmi militari e spaziali (DoD più NASA) furono la componente più dinamica della domanda effettiva, mentre la disoccupazione statunitense rimase su livelli ben al di sotto della media dell’intero dopoguerra. Dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 il tasso di disoccupazione mostrò un trend crescente, in coincidenza con la stagnazione della spesa militare e la sua tendenza al ribasso in percentuale del PIL; infine, dal suo picco assoluto nel 1982 (quasi l’11% alla fine di quell’anno), il tasso di disoccupazione statunitense continuò a scendere per il resto degli anni ’80, con il potenziamento militare di Reagan cui corrispose il più intenso processo di riarmo in tempo di pace della storia degli Stati Uniti (vedi Pivetti, 1992 e 1994). L’implosione dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda diedero inizio all’“era del dividendo della pace”. Un buon andamento a lungo termine del capitalismo americano difficilmente poteva continuare a essere ottenuto attraverso l’espansione della spesa militare e al suo posto, come abbiamo rilevato, subentrò un’espansione di lungo periodo dei consumi privati attraverso una politica di tassi di interesse bassi e decrescenti, che non poteva però durare indefinitamente senza causare il collasso del sistema creditizio.

VII. Trasferimenti pubblici e Keynesismo anticongiunturale

Con la Grande Recessione del 2008 e la recessione da Covid-19 si è verificato un massiccio ricorso ad un’ampia gamma di trasferimenti alle famiglie (indennità di disoccupazione, assistenza abitativa, assistenza alimentare, ecc.), principalmente in funzione anticiclica, che ha portato il disavanzo pubblico totale a livelli senza precedenti: -13,1% nel 2009, -11,8% nel 2010 e -11% nel 2011, poi -15,7% nel 2020 e -12% nel 2021. Le ragioni di questo uso diffuso dei trasferimenti pubblici derivavano non solo dal loro loro essere un potente veicolo di stabilità sociale – sia direttamente che indirettamente attraverso il moltiplicatore dell’occupazione – ma anche dalla loro facile reversibilità, cioè dal non implicare investimenti pubblici e un’espansione del ruolo dello Stato nell’economia (così già nel 2014 il deficit venne ridotto al 4,8% e nel 2022 al 6%). La sostituzione dei salari con prestiti, quindi, è stata in parte rimpiazzata dalla sostituzione di prestiti inesigibili con aumenti transitori dei trasferimenti pubblici – a buona conferma dell’idea secondo cui “ci si può aspettare che i leader aziendali e i loro esperti siano più favorevoli al sussidio del consumo di massa che agli investimenti pubblici, poiché sovvenzionando il consumo il governo non si imbarca in alcun tipo di impresa” (Kalecki, 1943, pp. 325-6). Si tratta tuttavia di un favore che non può che essere limitato poiché “i fondamenti dell’etica capitalista richiedono che ‘ci si guadagni il pane con il sudore’ – a meno che non si disponga di mezzi privati” (ibid.). Qui ovviamente la questione non è di carattere etico ma riguarda piuttosto la sottomissione del lavoro al capitale, che nel caso di un crescente debito privato è assicurata da una forza lavoro sempre più sottomessa, mentre nel caso di crescenti trasferimenti pubblici tende ad evolvere nella direzione opposta, con ovvie conseguenze sul potere contrattuale dei lavoratori dipendenti.

VIII. Cause interne ed esterne del militarismo USA

Queste considerazioni portano alla conclusione che nell’attuale confronto geopolitico ed economico tra gli USA e i loro satelliti europei, da un lato, la Russia e la Cina dall’altro, appare molto probabile che le spese militari e il riarmo riprenderanno il loro vecchio ruolo. Come abbiamo argomentato, importanti esigenze economiche interne si affiancano alla prospettiva di una vera e propria guerra fredda tra l’Occidente e la Cina, attualmente la nazione più insidiosa per l’egemonia internazionale americana. C’è poi l’obiettivo, difficilmente perseguibile senza un complesso militare-industriale sempre più potente e una forza militare travolgente, di frantumare la Federazione Russa allo scopo di saccheggiare le sue ingenti risorse naturali ed impedire una sempre più stretta integrazione tra la sua economia e quella europea, frustrando l’aspirazione di quest’ultima al ruolo di forza ‘neutrale’ nello scontro in atto.

L’intreccio tra circostanze interne ed esterne che alimentano la pulsione bellica del paese egemone non va sottovalutato. La necessità di garantire il sostegno alla domanda effettiva con spese militari è determinato dalle inevitabili conseguenze distributive che avrebbe un rilancio della domanda interna basato su programmi di spesa del tipo Great Society. Allo stesso modo, un serio piano di reindustrializzazione, non motivato soltanto dalla necessità di impedire lo sviluppo dei concorrenti internazionali in campi suscettibili di compromettere il primato tecnologico e militare degli USA, implicherebbe una svolta protezionistica di natura non meramente ‘strategica’, con ancor più marcate conseguenze sul piano distributivo. L’opzione bellica soddisfa dunque esigenze tanto interne che esterne, entrambe funzionali a preservare l’assetto distributivo che il capitalismo avanzato si è dato nell’ultimo quarantennio. La crisi a cui la globalizzazione è andata incontro negli ultimi anni non è motivata da una presa di consapevolezza dell’insostenibilità sociale degli effetti occupazionali e distributivi che essa ha generato nel capitalismo avanzato. Se la Cina non costituisse una minaccia reale, gli USA non avrebbero nessun problema a continuare ad approvvigionarsi dei beni prodotti dalla “grande fabbrica del mondo”. Di fatto è ciò che essi stanno ancora facendo, ostacolando determinate produzioni e non altre, determinati paesi e non altri, tutto in funzione di non compromettere ulteriormente la propria egemonia.

Per quanto riguarda l’Europa, il sabotaggio del Nord Stream 2 ha chiarito quanto velleitaria fosse l’idea di poter conquistare spazi di maggior autonomia in nome dei principi della concorrenza e del libero commercio internazionale. D’altro canto, vi è ancor meno consapevolezza che negli USA degli effetti socialmente deleteri della globalizzazione. L’Europa non riesce ad esprimere null’altro che grossolana subalternità delle sue élite politiche agli Stati Uniti. Settant’anni di intrighi internazionali, interventi militari e cambi di regime hanno portato la maggior parte della popolazione mondiale, compresa una parte sostanziale di quella europea, a diffidare profondamente dell’America e dei suoi valletti sparsi per il mondo. L’egemonia culturale degli Stati Uniti si è notevolmente attenuata dalla “fine della storia” nel dicembre 1991 e un numero crescente di cittadini europei percepisce oggi l’America come un faro di inciviltà. Ma per quanto forte sia il loro sentimento di ripulsa, resta vero che, come il rigetto nei confronti di un assetto di politica economica sempre più incapace di garantire ai lavoratori condizioni di esistenza dignitose, esso resta del tutto privo di un qualsivoglia sbocco politico socialmente progressivo.

Bibliografia

Barba, A. and Pivetti, M. (2009), “Rising household debt: its causes and macroeconomic implications – a long period analysis”. Cambridge Journal of Economics, 33, 113-37.

Kalecki, M. 1943. “Political Aspects of Full Employment”. Political Quarterly, 14 (4), 322–331.

Maki, D.M. and Palumbo, M.G. (2001), “Disentangling the wealth effect: a cohort analysis of household saving in the 1990s”. Board of Governors of the Federal Reserve System, Finance and Economics Discussion Series n. 2001-21.

Mian, A., Straub, L. and Sufi, A. (2021), “The Saving Glut of the Rich”. NBER Working Paper N.26942.

Piketty, T. and Saez, E. (2003), “Income inequality in the United States, 1913-1998”. Quarterly Journal of Economics, CVIII (1), 1-39.

Pivetti, M. (1992), “Military spending as a burden on growth: an ‘underconsumptionist critique’”. Cambridge Journal of Economics, 16 (4), 373-84. Pivetti, M. (1994), “Effective demand, ‘Marxo-marginalism’ and the economics of military spending: a rejoinder”. Cambridge Journal of Economics, 18 (5), 523-27.

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