di Emiliano Brancaccio
Come temuto, la minaccia dell’austerity riaffiora all’orizzonte della politica economica comunitaria. Il cartellino giallo della Commissione europea è infatti giunto: assieme ad altri sei paesi, l’Italia sarà sottoposta a una procedura d’infrazione per deficit pubblico eccessivo.
L’ammonizione di Bruxelles è in parte mitigata da un giudizio sostanzialmente positivo sul quadro macroeconomico italiano. In particolare, la Commissione nota con soddisfazione che «le condizioni del mercato del lavoro sono migliorate negli ultimi anni e non si sono tradotte in pressioni salariali». Gentiloni e colleghi, in altre parole, si rallegrano che la crescita dell’occupazione non abbia favorito lo sviluppo delle lotte sindacali. Anche per questo motivo, quando a settembre si faranno tutti i conti la Commissione sarà un po’ più indulgente col governo. Meloni e Giorgetti ringraziano, e poco importa che nell’ultimo decennio il potere d’acquisto di lavoratrici e lavoratori sia caduto di oltre 3 punti percentuali e che l’inflazione abbia pure vanificato i bonus fiscali e le minori aliquote. Il minuetto tra autorità nazionali ed europee va dunque avanti sereno, sulle spalle della classe subalterna.
Ma c’è di più. Le prime stime indicano che l’avvio della procedura d’infrazione dovrebbe implicare una stretta di altri dieci miliardi sul bilancio pubblico. In realtà, se anche l’ammonizione non fosse giunta, le nuove regole europee avrebbero comunque imposto una manovra restrittiva per rispettare il sentiero di abbattimento del debito. Sia come sia, nel complesso bisognerà pescare una trentina di miliardi entro fine anno tra minori spese e maggiori entrate. In teoria, il boom dei profitti causato dall’inflazione aprirebbe sconfinate praterie per un cospicuo prelievo sui redditi da capitale. Ma la realtà è che il governo Meloni preferisce radere altri campi. Corre voce che alla fine deciderà di tagliare su investimenti al sud, sanità pubblica e contratti dei dipendenti statali. Sempre la stessa musica di classe.
È alquanto ironico che questi primi cenni di ritorno all’austerity europea avvengano nel silenzio delle sedicenti forze «sovraniste» oggi al governo, che fino a ieri facevano dell’uscita dall’euro la panacea di ogni male nazionale. Gli agitatori che all’epoca denunciavano ogni stortura della politica economica europea appaiono oggi appagati, come pasciuti dormienti sulle cadreghe conquistate.
La disattenzione è tale che alla maggioranza di governo sembrano sfuggire alcune crepe nella nuova camicia di forza europea che, se sfruttate, potrebbero almeno allentare le future strette di bilancio.
La crepa più interessante riguarda il fatto che l’attuale regolamento Ue apre finalmente a un «dibattito sul metodo scientifico» per il calcolo del cosiddetto «Pil potenziale», vale a dire il livello di «equilibrio» dell’economia. Ancora oggi la Commissione europea utilizza un metodo a dir poco folle, che in alcuni casi ha portato a giudicare livelli di disoccupazione elevatissimi – anche superiori al 10 percento – come situazioni di «equilibrio naturale» dell’economia. Il risultato di questa metodologia anti-scientifica è stata una continua sottostima del Pil potenziale, e quindi una continua esagerazione del rapporto tra deficit pubblico e Pil potenziale. Insomma, il metodo della Commissione ha reso ancor più gravosa la politica di austerity.
Un’onda di critiche proveniente da vari premi Nobel per l’economia, e persino dal Fondo Monetario Internazionale, ha costretto il legislatore europeo a contemplare l’apertura di una discussione sulla metodologia di calcolo del Pil potenziale.
Fino a questo momento, tuttavia, nel governo italiano nessuno ha aperto bocca. Per quel che sappiamo, alle trattative di settembre sui tagli di bilancio i tecnici del ministero dell’economia si presenteranno a Bruxelles più realisti del re: ossia, con un metodo di calcolo pressoché identico a quello della Commissione.
Anziché correggere misure del Pil insensate e foriere di ulteriore austerity, Giorgetti e soci preferiscono forse tosare ancora un po’ sanità e stipendi? Anche su questa mistificazione «di classe» della scienza macroeconomica europea sarebbe ora di battere un colpo.
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