di Vincenzo Morvillo
A proposito dell’analisi della composizione di classe del voto europeo, di cui scrivevo pochi giorni fa sui social.
Un sondaggio Swg rileva – dandomi ampiamente ragione: ma era una ragione facile, dopotutto – che il 39% della classe operaia che ancora vota, vota Fratelli d’Italia.
Molti, da tempo, Lega. Solo il 16% invece si rivolge a “sinistra”. Ovvero, al PD. Ridicolo solo a pensarci...
Se a questo si aggiunge poi che i giovani europei dai 16 ai 25 anni votano forze dichiaratamente neonaziste e neofasciste, così come da qualche lustro fanno d’altronde anche il sottoproletariato e le periferie – Germania, Francia, Austria stanno lì a dimostrarlo – il quadro che ne esce del Vecchio Continente e dell’Italia risulta sempre più fosco e sempre meno tranquillizzante.
La sinistra istituzionale o sedicente anticapitalista ormai non perviene, né nelle fabbriche né nei quartieri degradati e sospinti ai margini dei confini metropolitani. E ancora poco raccoglie tra le giovani generazioni.
Tuttavia – al netto del diffuso astensionismo fatto registrare almeno nel nostro paese – come ben sanno i compagni più avveduti non si tratta né di stupido masochismo operaio né di un’improvvisa quanto improvvida psicosi che ha pervertito periferie e gioventù europea.
Ci troviamo di fronte piuttosto al punto di rottura di una ristrutturazione capitalistica che parte dalla fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 per giungere fino alla contemporaneità dell’industria 4.0.
Il risultato di una controffensiva padronale violenta tra robotizzazione, licenziamenti, deindustrializzazione, delocalizzazioni, impoverimento salariale e polverizzazione sistematica del pensiero antagonista, con annessa e fisiologica – per le stesse dinamiche del Modo di Produzione Capitalistico – crisi democratica.
Cui è corrisposto, soprattutto nell’Occidente a trazione neoliberista e per ragioni storico-politiche finanche ovvie dopo la caduta dell’URSS, un deciso arretramento delle sinistre e del movimento operaio, avallato da partiti comunisti già da decenni istituzionalizzati, compatibilizzati e in totale dismissione ideologico-culturale.
Partiti trasformatisi a tal punto che l’unico patrimonio lasciato in eredità appare oggi quell’orizzonte di senso costituito dalla superficiale rivendicazione di diritti civili e individuali di matrice liberal.
Diritti necessari, certo, ma che in assenza di diritti sociali, di welfare e della dignità di un lavoro trasformato invece in schiavismo ottocentesco – quando non in vera e propria chimera – vanno a configurarsi come sterili traguardi personali.
Avulsi dalla complessità di un sistema sociale in cui la scaltra gestione dall’alto da parte dei ceti dominanti tende a separare e atomizzare le relazioni, producendo la marginalizzazione delle classi popolari.
Sappiamo pertanto da tempo che la classe operaia non è – politicamente e immediatamente – il soggetto rivoluzionario spontaneo presente in tanta narrativa.
Gli operai, nel nuovo panorama sociale venuto fuori dopo gli anni Ottanta tatcheriani e reganiani, votano una destra classista, xenofoba e moderatamente protezionista sul piano economico, si sono decisamente “imborghesiti” per necessità – a dispetto dei salari in costante calo – e sognano il Suv nel garage e gli immigrati fuori dai coglioni.
Altre sono le categorie del lavoro proletarizzate in questi quarant’anni. Che però guardano anch’esse a movimenti populisti e non certo a sinistra.
Nuove forme di contratto atipico, precarizzato e quasi certamente immigrato, partite Iva e lavoro intellettuale e artistico ormai ridotto in condizioni di semi povertà.
S’intuisce pertanto che andrebbero rivisti principi e parametri del soggetto di classe.
Pur tuttavia nel ritorno a quell’eresia marxista che non può essere la ripresa di modelli e categorie novecentesche, sebbene nel rigoroso rispetto dei suoi snodi teorici.
Insomma, la linea è sempre quella che fu del Grande Timoniere. Nessun dogmatismo, nessun revisionismo.
E ricordandosi sempre che quando vengono meno la coscienza di classe e il pensiero critico sono il conformismo, il corporativismo, la repressione, la confusione, l’autoritarismo, l’ordine e la gerarchizzazione dei rapporti di produzione ad imporsi.
Che la si voglia chiamare tecnocrazia, governance liberista o in ultima analisi fascismo.
Con l’aggravante, tutta inscritta nella fluida contemporaneità, della confusione tra bisogni materiali e desideri astratti.
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