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16/06/2024

Guerra alla guerra. Da Remarque a Echenoz

di Marco Sommariva

Un paio d’anni fa, durante un’inchiesta sulle forniture di armi all’Ucraina da parte dei paesi occidentali, condotta dall’emittente statunitense CBS ed esposta nel documentario Arming Ukrain (8 agosto 2022) emergeva che solo il 30% delle forniture d’armi arrivava effettivamente in Donbass, lungo la linea del fronte, mentre il restante 70% era fermo – nella migliore delle ipotesi – nei centri di smistamento allestiti in Europa o – nella peggiore – addirittura sparito, con la possibilità di ricomparire sul mercato nero ucraino che già prosperava “grazie all’intensificarsi della corruzione”, come riportato su L’Indipendente (9 agosto 2022). In termini di onestà, pare che da quelle parti la situazione non sia un granché cambiata, visto che nei giorni scorsi mi è capitato di leggere che “soldi destinati alla costruzione delle trincee ucraine sarebbero stati rubati tramite schemi di società fittizie” e che questa truffa “avrebbe impedito la creazione di fortificazioni nella regione di Kharkiv, nel nord-est dell’Ucraina, proprio lì dove l’esercito russo sta avanzando con maggiore determinazione”. Questa denuncia è stata pubblicata sulla testata Ukrainska Pravda (13 marzo 2024), all’interno di un articolo dove si spiega come i contratti per la costruzione di fortificazioni – per cui sono stati spesi il corrispettivo di 163 milioni di euro – sarebbero stati trasferiti dall’amministrazione militare regionale di Kharkiv, appunto, a società che non avrebbero poi eseguito i lavori. Leggo anche che l’indagine è stata svolta da un’esperta di anti-corruzione, la quale specifica che i proprietari di queste aziende non sarebbe neppure esperti imprenditori e che sarebbero coinvolti in “dozzine di casi giudiziari, dal furto di whisky alla violenza domestica e hanno procedimenti esecutivi per prestiti bancari”.

Tranquilli, non sono qui a maledire l’inesperienza di questi imprenditori perché “ci stanno” impedendo di frenare l’avanzata russa o, magari perché filorusso, di esultare per questo: la penso esattamente come il compianto Valerio Evangelisti, sono personalmente antimilitarista – anche se per nulla pacifista – e mi fanno sicuramente schifo le guerre di potere, non le guerre civili che a volte sono sacrosante, e questo perché il nemico non è di fianco a noi, ma sopra di noi, e tutto quello che va a colpire le classi subalterne è un atto di guerra contro il proletariato mondiale; dove, al giorno d’oggi, per classi subalterne intendo, sì, quella operaia ma anche disoccupati, precari, lavoratori in nero, operatori di call center, piccoli imprenditori (falliti e non), dipendenti di multinazionali e mi fermo qui, anche se l’elenco di certo non è completo, facendo però una doverosa precisazione: nessuna importanza ha quale sia la scelta sessuale di ognuno di questi nuovi proletari, se sono uomini o donne, se hanno diverso colore della pelle, se credono in un qualche dio o no – sono caratteristiche che nulla c’entrano con l’appartenenza di classe.

Quando si leggono articoli come quello pubblicato dalla Ukrainska Pravda, sono molti coloro che provano a consolarsi raccontandosi che, la nostra, è un’epoca del magna-magna dove non si ha più rispetto neppure per i soldati mandati a difendere la patria – la “p” resti pure minuscola. All’eventuale domanda perché minuscola, rispondo con un passaggio estratto da La via del ritorno del tedesco Erich Maria Remarque, opera pubblicata nel 1931, messa al bando dai nazisti e simbolo di un’intera generazione che ha creduto di tornare a casa e dimenticare l’inferno delle trincee mentre, invece, ne è rimasta sopraffatta:

“ci hanno ingannati, ingannati come forse non sospettiamo nemmeno. Perché si è orribilmente abusato di noi! Ci dissero patria e intendevano i progetti di occupazione di un’industria famelica; ci dissero onore e intendevano i litigi e i desideri di potenza di un pugno di diplomatici ambiziosi e di principi; ci dissero nazione e intendevano il bisogno di attività di alcuni generali disoccupati! […] Nella parola patriottismo hanno pigiato tutte le loro frasi, la loro ambizione, la loro avidità di potenza, il loro romanticismo bugiardo, la loro stupidità, il loro affarismo, e ce l’hanno presentato poi come un ideale radioso.
O ancora, sempre dallo stesso titolo:
[...] laggiù abbiamo perso tutte le misure e nessuno ci è venuto in aiuto! Patriottismo, dovere, patria: tutto ciò ce lo siamo ripetuto anche noi continuamente per resistere e giustificarci. Ma erano soltanto concetti, c’era troppo sangue laggiù e questo li spazzò via!”

In realtà, il rispetto per i soldati mandati a difendere la patria non è mai esistito perché le ragioni del capitalismo non necessitano di un declino della violenza ma di uno sviluppo di questa, hanno bisogno di più conflitti sanguinosi, di armi sempre più distruttive, di un numero sempre maggiore di vittime, e in uno scenario del genere la parola “rispetto”, va da sé, non può essere contemplata. E sul fatto che il rispetto per il soldato non sia mai esistito lo scrive ancora il buon Remarque, questa volta in Niente di nuovo sul fronte occidentale, pubblicato nel 1929:

“siamo magri e spossati dalla fame. Il nostro vitto è tanto cattivo e in tanta parte composto di surrogati, che ne siamo malati. I fabbricanti in Germania si sono fatti ricchi signori; ma a noi la dissenteria brucia le budella. Le latrine da campo sono sempre piene zeppe: bisognerebbe mostrare a quelli di casa queste facce grigie, gialle, miserabili, rassegnate, queste figure curve a cui la colica spreme il sangue dal corpo, e che si contentano di ghignarsi l’un l’altro in faccia, con le labbra ancora tremanti dal dolore: «Non vale neppure la pena di tirar su le brache...»”.

Ricordo che Remarque – nel 1916, in piena Grande Guerra – fu spinto ad arruolarsi volontariamente, che nel 1917 fu spedito sul fronte occidentale dove rimase gravemente ferito e che, nel 1933, i nazisti bruciarono e misero al bando le sue opere. Insomma, nessuno è immune alla propaganda militaresca che si nutre, in primis, della disinformazione generalizzata: anche lo scrittore finì col farsi convincere che era giusto rischiare la pelle per andare a uccidere uomini che avevano il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore. Ma, a guerra terminata, aveva cambiato idea e, nel 1936, scriverà ne I tre camerati che lui e i suoi compagni d’armi, erano tornati dalla guerra “senza fede, quasi dei minatori usciti da una galleria crollata perché avevano voluto marciare contro la menzogna, l’egoismo” tutte giustificazioni a ciò che si erano lasciati alle spalle, domandandosi “cosa ne era sortito visto che tutto era andato in pezzi, falsato e dimenticato e che a chi non riusciva a dimenticare non rimaneva altro che lo stordimento, l’incredulità, l’indifferenza e l’alcol perché il tempo dei grandi sogni umani e virili era finito per sempre”.

Che la guerra faccia bene agli affari lo dicono gli stessi addetti ai lavori: “La guerra fa bene agli affari. [...] faccio un esempio: la Russia fa saltare i depositi di grano ucraini. Il prezzo del grano aumenterà. L’economia ucraina è legata in gran parte al mercato globale del grano. Il prezzo del pane e tutto il resto va su e giù. Questo è fantastico se fai trading. La volatilità crea opportunità per fare profitti. La guerra fa fottutamente bene agli affari. Noi non vogliamo che la guerra finisca”. Dove il “noi”, in questo caso, sta per la grande società d’investimento con sede a New York, BlackRock – le parole sono del responsabile delle risorse umane di questa Azienda.

Non saprei cosa suggerire per invertire la rotta sempre più guerrafondaia intrapresa in quest’ultimi anni, ma ho un consiglio su come non partecipare a questo lercio teatrino: evolversi, ergo, disertare. Su questo, sempre Remarque s’è espresso molto chiaramente in Niente di nuovo sul fronte occidentale: “La vita qui sui confini della morte ha una linea straordinariamente semplice, si limita all’indispensabile: tutto il resto è addormentato e sordo: in ciò sta la nostra primitività, e in pari tempo la nostra salvezza. Se fossimo più evoluti, da un pezzo saremmo pazzi, o disertori, o morti”. Diserzione che mise in pratica il mio conterraneo don Andrea Gallo: “la mia classe di nascita, 1928, mi faceva rientrare fra i richiamati dal famoso manifesto del 1944, che era appeso un po’ dappertutto, a Genova. Mi ricordo come fosse oggi quando mi ci imbattei, un pomeriggio. Era appiccicato sul muro di un palazzo del centro e diceva: TUTTI I MILITARI DEVONO PRESENTARSI. CHI NON SI PRESENTERÀ ENTRO LA TAL DATA SARÀ PASSATO PER LE ARMI. Quella stessa notte disertai”. Così scrive in Angelicamente anarchico.

Io stesso fui processato per diserzione nel 1984 quando – durante il servizio di leva che non ero riuscito a evitare perché, all’epoca, non venivano accettate richieste da obiettori di coscienza che avessero un parente di primo grado col porto d’armi, e io avevo mio padre – dicevo... fui processato per diserzione perché non rientrai da una licenza in quanto preferii andarmene al mare con gli amici essendo, proprio quel giorno, ferragosto; non voglio mancare di rispetto a nessuno, quindi preciso che l’unica guerra che combattei all’epoca, si sa, fu contro il tempo che non passava mai e l’ignoranza e la prepotenza del nonnismo, ma è quest’idea della diserzione che spero accompagni e animi tutti i ragazzi del mondo nel momento in cui verrà sventolata loro in faccia una qualsiasi bandiera da difendere o un pezzo di terra da conquistare: un disertore è senza dubbio più utile di un cadavere.

E che la diserzione sia un’ottima arma che abbiamo in pugno, lo dimostra il fatto che ultimamente si siano allertati gli Stati: Lettonia e Polonia si sono dette disponibili a individuare le condizioni di rientro dei disertori ucraini fuggiti entro i loro confini, come forma di sostegno a Kiev; lo dimostra anche l’opera capillare che sta svolgendo il TCC, acronimo sulla bocca di tutti gli ucraini che sta per “Centro di reclutamento territoriale”, con agenti in mimetica – né poliziotti né militari, spesso ex soldati – che girano chiedendo i documenti ai giovani e arrivano anche a trascinarli a forza fuori da un autobus se il ragazzo è “buono” per il fronte. Chissà per quanto andranno avanti così, molto probabilmente sino a raggiungere quella situazione raccontataci da Jean Echenoz in ’14, romanzo che decide di scrivere dopo aver trovato il diario di un suo lontano parente che aveva partecipato a tutta la Prima guerra mondiale, annotando giorno per giorno quello che stava vivendo:

“Dopo quasi due anni di conflitto, con il reclutamento che salassava senza tregua il Paese, nelle strade c’era ancora meno gente, fosse o non fosse domenica. Anche donne e bambini ormai erano pochi, perché la vita era cara e si stentava a fare la spesa: le donne, che al massimo percepivano il sussidio di guerra, in assenza di mariti e fratelli si erano dovute trovare un lavoro: manifesti da affiggere, posta da distribuire, biglietti da obliterare o locomotive da guidare sempre che non finissero in fabbrica, in particolare in quelle di armi. E i bambini, che non andavano più a scuola, avevano a loro volta un bel daffare: ricercatissimi sin dagli undici anni, sostituivano i fratelli maggiori nelle aziende e, tutt’intorno alla città, nei campi – condurre i cavalli, battere i cereali o sorvegliare il bestiame”.

Chiudo con un altro estratto dell’interessantissimo libro di Echenoz citato prima che, oltre a riprendere il discorso iniziale, ritengo spieghi a meraviglia a chi giova questa enorme quantità di soldati che da sempre viene “consumata” sui campi di battaglia; ossia, a tutti coloro che guadagnano su qualsiasi genere di fornitura agli eserciti, senza mai dimenticare che non si sta parlando solo di armi e munizioni:

“Nel corso del quarto anno di guerra, le offensive di primavera hanno consumato in due mesi una enorme quantità di soldati. Poiché la dottrina dell’esercito di massa imponeva che venissero continuamente ricostituiti grossi battaglioni e che il reclutamento garantisse un rendimento sempre più elevato, le chiamate delle classi di leva si sono susseguite senza tregua, il che implicava non solo un cospicuo rinnovamento del materiale e delle uniformi – dunque anche moltissime scarpe – ma anche importanti ordinazioni alle fabbriche che assicuravano l’approvvigionamento […]. Il ritmo e l’urgenza di queste ordinazioni, associati agli scarsi scrupoli dei responsabili della produzione, hanno rapidamente condotto alla fabbricazione di scarponi mediocri. Le aziende hanno cominciato a chiudere un occhio su un cuoio andante, optando spesso per un montone a concia rapida, meno caro ma anche meno spesso e duraturo – quasi del cartone, per dirla tutta. Hanno sistematizzato la produzione di stringhe a sezione quadrata, più facili da fabbricare ma più fragili di quelle a sezione circolare, tirando via sulla rifinitura dei puntali. Allo stesso modo hanno lesinato sul filo per cucire e hanno rimpiazzato il rame degli occhielli con un ferro più ossidabile e il più possibile economico, e lo stesso hanno fatto con i rivetti, le brocche, i chiodi. Insomma, hanno ridotto all’osso il costo dei materiali, a detrimento della robustezza e dell’impermeabilità. Ben presto l’intendenza militare ha deprecato il troppo frequente rinnovo di questi scarponi che, lasciando passare l’acqua e sformandosi rapidamente, non reggevano due settimane nel fango del fronte: troppo spesso le cuciture della suola cedevano nel giro di tre giorni. E siccome alla fine lo Stato maggiore aveva protestato, è stata promossa una scrupolosa inchiesta: esaminando i conti dei fornitori dell’esercito [...] hanno subito rivelato uno scarto abissale fra l’importo delle ordinazioni e il prezzo di costo di quelle ciabatte.”

E se letta quest’ultima frase, con tutti i richiami a quello che oggi i manager chiamano “saving”, vi fosse venuto in mente il crollo del ponte Morandi di Genova o l’incidente ferroviario di Viareggio o i due/tre morti al giorno sul lavoro in Italia o... sappiate che non siete i soli.

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