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17/06/2024

L’accordo USA-Arabia Saudita sui petrodollari non è stato rinnovato

Lo scorso 8 giugno è scaduto l’accordo cinquantennale che nel 1974 determinò la vendita esclusiva del petrolio saudita in dollari statunitensi. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods e la crisi petrolifera del 1973, con quella intesa si era stabilita una cornice insieme politica ed economica durata fino a oggi.

Gli Stati Uniti hanno fondato il loro predominio mondiale nell’ultimo mezzo secolo su due pilastri: le 800 basi militari in giro per il mondo, che nutrono un modello produttivo fondato sul keynesismo militare; il dollaro quale valuta cardine degli scambi internazionali e riserva monetaria sicura perchè strumento di pagamento obbligatorio nelle transazioni petrolifere.

Anche se l’Arabia non era l’unico produttore di petrolio al mondo, ne era certamente uno dei fondamentali. In cambio dell’uso esclusivo del dollaro, Washington si impegnò a garantire la sicurezza del regno saudita.

L’elemento economico e quello militare si sono nutriti a vicenda. Ma il peso del dollaro si deve largamente anche al fatto che “l’oro nero”, abbandonato l’oro vero e proprio come punto di riferimento, è divenuto il principale bene su cui si fondano tuttora le principali economie del mondo.

Poter contare sulla sua commercializzazione solo attraverso il “biglietto verde” significava poter decidere sull’opportunità di sviluppo di interi paesi. Alcuni studi hanno mostrato come le due guerre del Golfo furono legate in maniera sostanziale alle politiche petrolifere di Saddam Hussein.

Sono passati però vent’anni dall’ultima invasione dell’Iraq, e la situazione internazionale è nettamente cambiata. I BRICS rappresentano un’intesa tra potenze emergenti che ormai conta più dell’Occidente sotto tanti aspetti, e la fuga dall’Afghanistan ha sancito la crisi anche della proiezione militare euroatlantica.

L’accordo firmato poco più di un anno fa tra Ryad e Teheran ha segnato un primo punto di svolta nelle relazioni mediorientali, soprattutto perché sotto il patrocinio di Pechino. Il ripristino delle relazioni diplomatiche si era allora accompagnato al perseguimento di interessi comuni all’interno dell’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio.

Sia l’Iran sia l’Arabia Saudita sono poi entrati nei BRICS stessi, a inizio di quest’anno. Ma nel frattempo si è rinfocolato il genocidio dei palestinesi da parte di Israele, dopo l’operazione di Hamas del 7 ottobre, e la situazione è tornata a farsi più ingarbugliata.

In questo quadro si inserisce la scelta saudita di non rinnovare l’accordo sui petrodollari. Già sul finire del 2022 il dialogo tra i regnanti di Ryad e Xi Jinping aveva fatto parlare dell’ipotesi di “petroyuan”, e poco prima dell’8 giugno è avvenuto un importante passo in questa direzione.

L’Arabia ha deciso di aderire al Progetto mBridge, in cui la Cina ha un ruolo centrale. Si tratta di una piattaforma per lo sviluppo di una multi-Central Bank Digital Currency (CBDC), ovvero una forma elettronica di moneta per accumulare valore ed effettuare pagamenti.

Insomma, un tassello non di poco conto nel processo di de-dollarizzazione dell’economia mondiale. Ma come alla nascita dell’accordo sui petrodollari, c’è una controparte militare che va considerata per ragionare sui possibili scenari futuri.

Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno provato a riprendere il percorso di normalizzazione delle relazioni tra i paesi arabi e Israele. L’escalation tra Tel Aviv e Teheran ha riaperto uno spazio importante di intervento per la Casa Bianca, che sta tentando di definire un accordo di difesa con i sauditi.

L’impegno di tutela che gli USA assumerebbero nei confronti di Ryad è assimilabile a quello preso con altri paesi esterni alla NATO (il Giappone, ad esempio). Ad esso si accompagnerebbe anche il sostegno statunitense allo sviluppo nucleare per scopi civili.

Come sappiamo, questo è il primo passo per divenire una potenza nucleare a tutti gli effetti, strada su cui l’Iran sta accelerando e che ha provocato una crescente preoccupazione tra i regnanti sauditi. Dall’altra parte, dunque, gli USA ne otterrebbero il rinsaldarsi di una cortina anti-iraniana in Medio Oriente.

Tuttavia, perché si arrivi a un esito positivo di queste mosse diplomatiche, serve che Israele ponga fine al massacro in Palestina, che è largamente condannato tra la popolazione araba. È un punto imprescindibile affinché si possa far passare l’idea di una normalizzazione dei rapporti, ma Washington ha perso la presa sui vertici sionisti.

La scelta dell’Arabia Saudita di porre fine all’accordo sui petrodollari (che non esclude l’ipotesi di una futura ridefinizione) potrebbe essere un ulteriore strumento di pressione di Ryad in questa riorganizzazione degli equilibri mediorientali.

Ma se per i sauditi può essere un’opzione tattica, essa dà una spinta significativa alla de-dollarizzazione, con o senza di loro. E soprattutto, sul piano strategico dello scontro tra blocchi, significa la progressione dell’erosione del predominio occidentale e un passo ulteriore verso il mondo multipolare.

Se in esso il dollaro non sarà più al centro del mondo, non è detto che la capacità militare statunitense, che ha mostrato tutti i suoi limiti in Afghanistan, sia in grado di garantire alla Casa Bianca le redini del mondo. E inoltre, che sia considerata un’assicurazione sufficiente da Ryad nei confronti dell’Iran.

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