Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

06/07/2024

Gran Bretagna - Le ombre sulla vittoria dei Laburisti

Le elezioni svoltesi giovedì 4 luglio hanno registrato la vittoria dei laburisti. Dopo 14 anni i conservatori saranno di nuovo all’opposizione, rimanendo comunque la seconda forza politica del paese sia in termini di seggi ottenuti che di voti conquistati.

Il sistema elettorale britannico prevede l’uninominale secco in cui vince chi prende più voti in un unico turno nelle 650 circoscrizioni di cui è composto il Regno.

Il Labour di Keir Stamer che è stato nominato Primo Ministro da Re Carlo con il compito di formare il governo, potrà contare su una larghissima maggioranza, con oltre 400 deputati rispetto ai 326 necessari per governare.

I laburisti raddoppiano il risultato delle politiche del 2019 in cui avevano ottenuto 214 seggi.

La debacle dei Tories c’è stata ma non nello scenario peggiore che era stato preannunciato dai sondaggi cioè circa 250 deputati in meno rispetto alle elezioni del 2019.

L’altra vera novità per i numeri di seggi conquistati sono i Liberal Democratici che ne ottengono una settantina, cioè una sessantina in più di quelli precedenti.

In grosso calo anche la formazione nazionalista scozzese che conquista solo 9 deputati, cioè 37 in meno delle elezioni precedenti, un dato che insieme al successo dei Lib Dem non era stato previsto dai sondaggi.

Rientra nel parlamento britannico Neil Farage, con la sua formazione di estrema-destra Reform UK, che conquista solo 4 seggi ma ha fatto incetta di voti risultando la terza formazione più votata nel Regno con oltre 4 milioni di preferenze rispetto ai 3 milioni e mezzo circa dei Lib Dem.

Se passiamo in rassegna i voti totali effettivi, infatti, abbiamo una percezione differente rispetto ai seggi conquistati.

I laburisti prendono in percentuale solo l’1,7% in più rispetto al 2019, mentre i conservatori circa il 20% in meno.

L’emorragia di voti dei Tories è molto più grande rispetto all’incremento dei voti del Labour: segno che è più una sconfitta dei conservatori che una vittoria dei laburisti che si mantengono stabili.

Reform UK è il terzo partito con il 14,3% dei voti, seguito dai Lib Dem con il 12,2%.

I Verdi fanno un notevole balzo in avanti con il 6,8% (+4,1%) sfiorando i due milioni di voti e vincono le quattro circoscrizioni che avevano fissato come obiettivo, ed alcuni candidati indipendenti vengono eletti.

Quella di giovedì 4 luglio è, comunque, la vittoria più ampia dei laburisti dal 1997, quando conquistarono il 63,4% dei seggi, il risultato più positivo dal dopo-guerra.

Importante segnalare anche la prima vittoria elettorale da indipendente per l’ex leader del Labour Jeremy Corbin, il quale ha preso intorno ai 24 mila voti, circa 7 mila in più proprio del candidato laburista Praful Nargund, arrivato al secondo posto nel collegio di Islington North. In percentuale, Corbyn ha preso il 49 per cento dei voti della sua circoscrizione. L’ex segretario del Labour Party era stato marginalizzato e allontanato dal partito proprio dall’attuale leader del Starmer per le sue posizioni filopalestinesi e per le fortissime pressioni della lobby sionista britannica. Quella di Corbyn è una sonora rivincita contro il suo avversario Starmer.

Tranne l’East ed il South East, non vi è regione in cui i Conservatori abbiano superato i voti dei laburisti, ma in tutte il calo si attesta attorno al 20%.

Una buona parte del voto dei Tories è andato all’estrema destra di Reform UK, mentre la crescita del Labour in Scozia è dovuta allo spostamento dei voti dal SNP.

La formazione di Farage è giunta seconda in un centinaio di circoscrizioni (circa 1/6 delle totali) ed ha perso di appena 5000 voti in una dozzina di queste.

Un risultato per certi versi simili all'Ukip – la precedente creatura politica dell’ex eurodeputato britannico fautore della Brexit – nel 2015.

Quello che è certo è che la “spaccatura” del voto conservatore tra Tory e Reform UK è costato ai Tories la sconfitta in 180 casi.

I laburisti riconquistano di misura quello che era il red wall, ma ormai la “volatilità del voto” è un dato certo.

Un dato interessante è che i Conservatori perdono più voti nelle circoscrizioni che hanno votato per il “Leave” nel 2016. Si è quindi  recisa quella correlazione tra voto pro-brexit e preferenza conservatrice che aveva premiato i tories nel 2017 e nel 2019, che – tra l’altro – perdono alcuni collegi (7) che avevano visto un loro successo.

Lo SNP torna, più o meno, all’ordina di grandezza per seggi conquistati nel 2010, quando il Labour ne conquistava il 70% per voi virtualmente “scomparire”.

Bisogna tenere conto del dato della partecipazione elettorale calata al 60% rispetto al 67% precedente, che ha visto in 59 circoscrizioni (Tra un 1/6 ed 1/7 del totale) andare a votare meno del 50% degli aventi diritto, segno di una disaffezione evidente.

I votanti sono scesi ai livelli del 2001, il punto più basso della partecipazione del dopoguerra contro l’83,9% del 1950 che segna il record assoluto.

Insomma “stravincono” i laburisti, aumenta l’astensione e la somma del voto di conservatori ed estrema destra supera quello dei laburisti di alcuni punti percentuali.

Fonte

Il governo Meloni aumenta le tasse, lo certifica l’Istat

In una nota rilasciata sul proprio sito, l’Istat afferma che nel primo trimestre del 2024 la pressione fiscale è aumentata dello 0,8% rispetto allo stesso periodo del 2023.

“La pressione fiscale è stata pari al 37,1%, in aumento di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”, si legge nella nota dello scorso 2 luglio.

“Nel primo trimestre del 2024 il quadro di finanza pubblica mostra una pressione fiscale in crescita rispetto al corrispondente trimestre dell’anno precedente”.

Dunque, il governo Meloni fa il contrario di quanto va affermando da mesi a questa parte, ossia aumenta le tasse. E lo fa, con poche sorprese, soprattutto per chi vive del proprio lavoro.

Il meccanismo è semplice: il tanto decantato sgravio sul cuneo fiscale, così come la flat tax per gli autonomi, da una parte aumenta il netto in busta paga dei lavoratori e diminuisce il flusso di denaro verso le casse dello Stato.
Dall’altra, visto che lo Stato ha un certo ammontare di spesa da finanziare, o diminuisce la sua spesa, ossia riduce i servizi per i cittadini, soprattutto per coloro a più basso reddito che hanno più difficoltà ad accedere ad alcuni diritti ai prezzi del mercato privato (sanità, istruzione, casa); oppure aumenta le tasse su altre voci, per bilanciare il minor incasso ricevuto dalla contribuzione del lavoro.

Fin qui dunque, a parità di spesa dello Stato, se il taglio del cuneo o la flat tax sono bilanciati dall’aumento delle tasse per esempio su beni di prima necessità, sempre paga chi campa del proprio lavoro, anche se in forma diversa.

Differente sarebbe se la diminuzione del carico fiscale sul mondo del lavoro fosse bilanciata dall’aumento della tassazione sui capitali o sui profitti. Di questo ovviamente neanche l’ombra.

Se lo Stato, invece, diminuisce la spesa e taglia i servizi essenziali, allora minore è la fascia di reddito del cittadino, maggiore è la difficoltà di accesso ai servizi tagliati a causa della minor contribuzione.

Inoltre, e siamo al punto della nota Istat, l’aumento del reddito causato dalla decontribuzione (circa 100€ al mese) fa scavallare uno scaglione Irpef a chi prima della contribuzione dichiarava un reddito vicino ai 15mila e ai 28 mila, i due scaglioni interessati dalla decontribuzione.

Il passaggio di scaglione aumenta la percentuale di tasse sul reddito da versare allo Stato.

Così, tutto questo andirivieni non fa altro che versare nelle tasche dei cittadini con una mano e prelevare con l’altra, con un risultato netto peggiorativo come certifica la nota Istat, soprattutto per le tasche delle fasce più deboli aggiungiamo noi.

Fonte

Guerra in Ucraina - Orban spiazza tutti

In un post pubblicato su X prima della partenza, il premier ungherese ha spiegato che “non è possibile arrivare alla pace in Ucraina stando comodamente seduti in poltrona a Bruxelles”. “Anche se la presidenza di turno dell’Ue non ha mandato di negoziare per conto dell’Ue, non possiamo sederci e aspettare che la guerra finisca miracolosamente”.

Non solo. “L’Ungheria sarà presto il solo Paese in Europa in grado di mantenere il dialogo sia con Mosca che con Kiev”, aveva affermato Orban, all’inizio del suo incontro con Putin.

La scorsa settimana, a sorpresa, Orban era stato ricevuto a Kiev dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky con il quale, come noto, le relazioni non sono idilliache. Ma in quella occasione non era ancora presidente di turno dell’Unione Europea. È infatti entrato in carica il 1 Luglio.

“Per l’Europa la pace è la cosa più importante. Riteniamo che l’obiettivo principale dei prossimi sei mesi della nostra presidenza sia la lotta per la pace” ha affermato Orban a Mosca dopo l’incontro con Putin.

“Bisogna fare molti passi per avvicinare la fine della guerra”, ha detto Orban durante la conferenza stampa congiunta, definendo comunque “un passo importante” il contatto che ha avuto con Putin.

“Continuerò a lavorare in questa direzione, per l’Europa la pace è la cosa più importante – ha affermato il premier ungherese, che dal primo luglio scorso è presidente di turno della Ue – Volevo sentire l’opinione del presidente sulle iniziative di pace possibili, cosa pensa del cessate il fuoco e dei negoziati di pace e di come potrebbero essere portati avanti”.

Alla fine dell’incontro bilaterale, Putin ha affermato che la Russia considera la visita del primo ministro Orban come un tentativo di ripristinare il dialogo con l’Unione Europea e dargli ulteriore slancio.

Inutile dire che l’iniziativa di Orban, sicuramente non concordata con i vertici della Ue, ha suscitato un vespaio proprio tra questi ultimi. “La presidenza di turno dell’Ue non ha il mandato di interagire con la Russia per conto dell’Ue” e “nessuna discussione sull’Ucraina può aver luogo senza l’Ucraina”, ha scritto ieri via social il presidente uscente del Consiglio Europeo Charles Michel.

A ruota è arrivata anche la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen: “Il primo ministro ungherese Viktor Orban è in visita a Mosca. L’appeasement non fermerà Vladimir Putin. Solo l’unità e la determinazione apriranno la strada ad una pace complessiva, giusta e duratura in Ucraina”, dice via social.

Infine è intervenuto anche l’Alto Rappresentante della politica estera europea, l’uscente Josep Borrell, il quale ha precisato in una nota, che la visita di Orban a Mosca “si svolge esclusivamente nel quadro delle relazioni bilaterali tra Ungheria e Russia”. L’Ungheria, ricorda, “è ora lo Stato membro dell’Ue che esercita la presidenza di turno del Consiglio fino al 31 dicembre 2024. Ciò non comporta alcuna rappresentanza esterna dell’Unione, che spetta al presidente del Consiglio Europeo a livello di capi di Stato e di governo e all’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza a livello ministeriale”.

Il premier ungherese è sicuramente un personaggio indigeribile da molti punti di vista, ma se ha deciso di “forzare” l’empasse dei negoziati per mettere fine alla guerra alla periferia dell’Europa – anche mandando il boccone di traverso alla conventicola dei guerrafondai di Bruxelles – nulla esclude che la strada aperta possa rivelarsi migliore da quella oltranzista e inefficace seguita fino ad oggi dall’Unione Europea.

Che popolari, socialisti, liberali, verdi al governo nella Ue come in molti paesi europei si siano fatti soffiare una iniziativa diplomatica come questa da uno come Orban, è emblematico della pochezza e dell’avventurismo che domina nelle scelte degli attuali vertici politici in Europa. Il problema, semmai, è che l’alternativa rappresentata dai neofascisti e dalla destra – una volta al governo – potrebbe rivelarsi peggiore anche di questi. Messa così è decisamente una alternativa del diavolo.

Fonte

L’Iran ha scelto il suo nuovo presidente, Pezeshkian

Dall’Iran. Già al sesto comunicato ufficiale di Mohsen Eslami, portavoce del quartier generale elettorale del paese, la vittoria di Massoud Pezeshkian per diventare presidente al posto di Raisi, morto in un incidente aereo poco più di un mese fa, si profilava molto chiara.

Oltre un milione e mezzo di voti in più rispetto a Saeed Jalili, l’ex capo negoziatore nelle trattative con l’Occidente sul nucleare iraniano e certamente il candidato prediletto dell’ayatollah Khamenei.

Il settimo aggiornamento – alle 5:35, le 4 in Italia – il vantaggio si allargava ancora, ad oltre due milioni di voti, e lasciava capire che non c’erano possibilità di recupero da parte dei “conservatori”.

Fino al risultato finale, comunicato alle 6:50 locali: su 30 milioni e 530mila votanti (il 49,8% degli aventi diritto), Pezeskhian ottiene 16 milioni 384mila 403 preferenze e Saeed Jalili 13 milioni 538mila.

Pezeskhian diventa così il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran.

Non è invece sicuramente semplice spiegare cosa significhi questo voto per il popolo iraniano e, in generale, per le dinamiche internazionali, ovviamente nello scenario mediorientale. Tanto più se si usa la chiave interpretativa abituale nell’Occidente neoliberista, fin qui inchiodata sulla più piatta propaganda di guerra, con una articolazione minima tra la versione che descrive Pezeshkian come il “finto riformista” o, al meglio, come “la foglia di fico” del regime.

Viste dall’Iran, invece, queste elezioni dicono decisamente altro.

Intanto l’affluenza al secondo turno, risultata in netto aumento rispetto al 40% del primo, che già aveva fatto registrare più preferenze per il settantenne cardiochirurgo di Urmia. Segno che sia il “fronte conservatore”, sia quello “riformatore”, hanno spinto al massimo per la partecipazione al voto, con qualche penosa forzatura regolamentare, tipo il prolungamento dell’orario di chiusura delle urne (alle 22).

Affluenza comunque bassa, avevano già scritto in molti, che “delegittima il regime” di Tehran. Come se invece il 49% dell’affluenza italiana alle recenti elezioni europee – identica a quella persiana del secondo turno – fosse invece la prova di un eccellente stato di salute della “democrazia” in casa nostra...

Girando per le città iraniane e parlando con le persone, come qui da noi, era facile capire che la distanza tra “la politica” e “il popolo” è molto simile. Poca fiducia nelle possibilità di “cambiamento” e nei meccanismi istituzionali. Un forte desiderio di pace, disinnescando le dinamiche guerrafondaie che qui sono a avvertite in misura decisamente più concreta (Israele ha bombardato di recente nei dintorni di Esfahan, oltre ad uccidere diversi scienziati nucleari con attentati mirati). Una chiara voglia di regole di vita meno dipendenti dalle paturnie del clero, anche se “dio” è una parola di frequente pronunciata anche dai più espliciti critici degli ayatollah.

Fin qui, insomma, sembrerebbe che che le narrazioni occidentali sull’Iran siano in qualche modo corrispondenti al vero. Ma le cose stanno molto diversamente. Quelle narrazioni, infatti, sono incentrate sull’ossessione – tipicamente colonialista – di descrivere una società e un popolo come una “brutta copia” delle società occidentali, misurando la distanza e cercando “il nostro uomo” nella classe politica locale.

Non trovandolo, ci si accontenta di tifare per il “boicottaggio delle elezioni”, interpretando l’astensionismo come un vuoto riempibile a piacimento.

Lo stesso Pezeshkian, dicevamo all’inizio, è stato descritto spesso come un “finto riformatore” perché le sue dichiarazioni – ad esempio – sulla necessità di garantire maggiormente la libertà delle donne e le aspirazioni dei giovani non fanno il paio con la genuflessione ai comandi occidentali a proposito della Palestina o di altri punti focali della politica internazionale.

E qui diventa possibile chiarire quel che traspare anche agli occhi del più disattento viaggiatore: voglia di cambiamento e orgoglio nazionale da queste parti vanno a braccetto.

Il popolo iraniano, 45 anni fa, si è liberato di botto dalle presenza invasiva del potere imperialista occidentale, con una “rivoluzione” certamente diversa (e spesso opposta, nei princìpi fondanti) rispetto a quelle del Novecento. E nessuno vuole tornare indietro...

Da allora il processo di ammodernamento del paese è stato intenso, perché i proventi delle risorse energetiche sono stati impiegati – bene o male, ci sono molte critiche in proposito – per assicurare una produzione industriale autonoma, lo sviluppo dell’agricoltura e dell’urbanistica, un esercito e milizie che hanno un ruolo importante nella regione, ecc.

Girando per Tabriz, Esfahan, Tehran, ma anche in tante città minori, è visibile ad occhio nudo che questo è oggi un paese moderno, non del “terzo mondo”, con molte malattie tipiche della modernità (il traffico è allucinante, per esempio), ma dove è forte la consapevolezza di avere un ruolo autonomo nel mondo. E nessun senso di inferiorità rispetto all’Occidente.

Questa consapevolezza può ovviamente essere declinata in molti modi (“dio guida le nostre scelte” oppure “siamo stati capaci di fare da soli”), ma appare irreversibile. E non sembra lasciare spazio a improbabili “Guaidò” teleguidati da Washington…

Del resto l’Iran è diventato membro dei Brics e le pluridecennali sanzioni occidentali, se pure hanno limitato alcune possibilità di sviluppo, hanno paradossalmente favorito la ricerca di soluzioni alternative che oggi rendono questo paese un pilastro robusto nella costruzione di un ordine multipolare senza più un “gendarme”.

Un pilastro che può permettersi di provare ad ammodernare anche le proprie regole sociali senza per questo diventare un vassallo di qualche improbabile “maestro” liberal-liberista...

Un paese e un popolo di grande complessità, con una storia millenaria e capacità create solo di recente. Tra cui quella di scegliersi un presidente che, in qualche misura, gli corrisponda.

Fonte

05/07/2024

Dante's Peak - La furia della montagna (1997) di Roger Donaldson - Minirece

Iran, un voto conflittuale

Alla fine avranno ragione quei giovani che, interrogati sul ballottaggio presidenziale fra Pezeshkian e Jalili, ribadiscono l’astensione, proprio come al primo turno, perché la vera alternativa manca. Un’alternativa che non riguarda la prossimità o lontananza dal clero dei due candidati, fra i quali il gradimento dell’unico turbante in corsa, Mostafa Pourmohammadi, è rivolto al riformista. Un sostegno che nei conteggi del preliminare vale poco, duecentomila voti se pure questi si riversassero su Pezeshkian. Di maggior peso, nel distacco che il 28 giugno è risultato di circa un milione di schede a favore del candidato d’origine azera (come Khamenei), risulterebbero le preferenze raccolte da Ghalibaf e che lui stesso ha invitato a rilanciare su Jalili. Orientamenti di elettori attivi.

Eppure nella consultazione di domani la partecipazione, scesa al 40%, la più bassa nella storia elettorale della Repubblica Islamica, potrà diminuire ulteriormente se appunto il ‘fascino’ che qualche commentatore ha riservato a Pezeshkian per la sua apertura alle donne senza velo e alla ripresa delle trattative sul nucleare, non convoglierà verso i seggi gli incerti.

Sicuramente mancherà la partecipazione del movimento “Donna, vita, libertà”, certamente andrà alle urne lo zoccolo duro del conservatorismo clericale e laico, ciascuno arroccato nei propri santuari di potere che sono le bonyad, gli enti di beneficenza che controllano un terzo dell’economia del Paese. Una nota dolentissima l’economia, che i contendenti cercano di rivitalizzare con formule opposte: riaprendo il dialogo con l’Occidente, soprattutto sul nucleare interno, Pezeshkian, per limitare il nodo scorsoio delle sanzioni. Cercando vie nuove Jalili, che, contrario a qualsiasi compromesso sul programma di arricchimento dell’uranio, rilancia la così definita “economia della resistenza”, avviata da tempo con gli scambi con la Cina, ribaditi ultimamente dalla mediazione saudita. Proprio così.

I tempi cambiano, già durante la presidenza di Raisi l’adesione iraniana alla Shangai Cooperation Organization ha tamponato i vuoti di mercanzia e di capitali che il boicottaggio del blocco euro-americano produce da decenni. Però diversi studiosi fanno notare come le aperture asiatiche non abbiano prodotto effetti concreti sull’economia. Magari i banchi dei bazari non risultano sprovvisti di mercanzia, non tanto quella interna ma quella derivante dai commerci internazionali, come pure non lo sono del tutto i magazzini di certe industrie. Quel che si vede poco sono gli investimenti. E nei duetti televisivi delle ultime ore che cercano di far presa sull’elettorato comunque deciso a non disertare, giungono le punzecchiate provocatorie: “Il nostro Paese vende il greggio alla Cina, ma con enormi sconti e soprattutto in cambio di beni, non di valuta estera”.

È Pezeshkian che fa le pulci all’avversario, sapendo bene di non poter proporre molte alternative. Quei contratti parzialmente capestro, evitano alla gestione domestica di tracollare. Lui, qualora venisse eletto, ha fatto sapere di investire Ali Tayebnia del ruolo di ministro dell’Economia. Si tratta d’un elemento prestigioso, accademico, che ha ricoperto quel ruolo dal 2013 al 2017 sotto Rohani, avviando un contenimento dell’inflazione. Altro momento. Le aperture occidentali dell’epoca finirono azzerate da Trump che, da presidente, volle il disimpegno dalla trattativa sul nucleare e più tardi fece aprire il fuoco su un uomo simbolo per la nazione: il generale Soleimani, centrato da un drone.

Così conteranno ben poco le promesse di sgravi fiscali con cui Pezeshkian ha costellato il primo e secondo turno della campagna elettorale. L’aria che si respira, anche per espressa volontà dello storico nemico israeliano, offre a Jalili, ai principialisti, agli stessi possibili alleati del partito dei Pasdaran argomenti che raccolgono l’attenzione di chi vota e inesorabilmente anche di chi ha deciso d’astenersi.

Fonte

Walking on the Moon

Cina-Stati Uniti, la gara è sempre più aspra

Alla vigilia del Terzo Plenum del Comitato centrale del Pcc e mentre gli Stati Uniti si addentrano nella sfida presidenziale tra Biden e Trump, il punto della sfida tecnologica ed economica tra i due Paesi che dominano il mondo.

Premessa

Le riforme avviate da Deng Tsiao Ping nel 1978-79 in Cina hanno cambiato drasticamente e in pochi decenni non solo la situazione economica del paese asiatico, ma, per molti aspetti, anche quella del resto del mondo, contribuendo a rovesciare gli equilibri politici preesistenti su scala globale. Per quasi quarant’anni il Pil cinese è cresciuto ad un tasso medio del 9,5% all’anno, risultato mai verificatosi altrove.

Già pochi anni dopo l’avvio delle riforme cinesi stuoli di studiosi, giornalisti ed esperti vari in Occidente hanno cominciato a predicare che la cosa non poteva andare avanti così e che l’economia cinese sarebbe crollata presto sotto il peso dei suoi immani problemi. La crescita cinese però non ha seguito fino in fondo i precetti ortodossi indicati dalla scienza economica occidentale e ha trascurato di occuparsi di quello che dicevano i profeti di sventura.

Queste previsioni catastrofiste non sono mai cessate del tutto e anzi hanno ripreso vigore in relazione al rallentamento recente dei tassi di crescita economica della Cina. Va sottolineato dunque in prima battuta che la Cina continua a crescere ogni anno più di qualsiasi paese economicamente importante, a parte il caso dell’India (sull’attendibilità delle statistiche ufficiali indiane ci sono dei dubbi, anche se la prevalenza del tasso di sviluppo dell’economia del paese su quella della Cina dovrebbe essere confermata). Nel 2023 il Pil cinese è salito del 5,2% e per il 2024 le stime più recenti valutano un aumento plausibilmente e sostanzialmente analogo; mente per l’India si pensa ad una crescita del Pil per il 2024 di circa il 6,5%.

Studi recenti arrivano alla conclusione che sul fronte del Pil, come su quello delle tecnologie avanzate, la situazione del paese asiatico sia più favorevole di quanto si pensasse sino a poco tempo fa. E l’esplorazione di tale ipotesi è il tema principale di questo articolo.

Il Prodotto interno lordo

A che punto è la gara per il Pil tra Cina e Stati Uniti? Sappiamo che esistono due criteri di misura di base di tale grandezza, quello dei prezzi di mercato, il più tradizionale, e quello della parità dei poteri di acquisto. Secondo il primo criterio gli Stati Uniti sarebbero ancora abbastanza avanti e il Pil cinese sarebbe pari ad un valore intorno al 75% rispetto al rivale. La Banca Mondiale ha di recente aggiornato le sue valutazioni rispetto al secondo criterio e ha trovato che nel 2022 quello cinese era superiore a quello Usa del 25%; seguivano nella classifica l’India e poi, sorprendentemente, superando lo stesso Giappone, la Russia, che qualcuno aveva dato per spacciata, il cui Pil la Banca Mondiale è stato rivalutato del 13% sempre per lo stesso anno. 

Nel 2023 e nel 2024 il distacco tra i due contendenti principali dovrebbe essere aumentato. E questo senza considerare le cifre relative a Hong Kong e a Macao – entità formalmente autonome –, che, se inserite nel conto, aggiungerebbero quasi mille miliardi di dollari al Pil cinese. 

C’è poi un’altra questione aperta. La Cina, dopo la vittoria di Mao, avendo avviato i suoi dipartimenti di statistica nazionale, ha seguito, nel compilare i numeri del Pil, le metodologie sovietiche che non prendevano in considerazione nei calcoli il settore dei servizi, ma si limitavano a considerare soltanto le attività “materiali”. Successivamente la Cina ha corretto in parte i suoi criteri, inserendo nella stima del Pil anche alcuni dei servizi, soltanto alcuni però. Ora, se invece si considerassero tutti i servizi, il paese crescerebbe ancora, sino a collocarsi, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, intorno al 145-150% rispetto a quello statunitense. 

Si pensa che la Cina tardi a completare l’esercizio di correzione della sua metodologia anche per evitare di perdere lo status di paese in via di sviluppo, status che presenta diversi vantaggi. Infatti la Banca Mondiale nei suoi calcoli sottovaluta fortemente i consumi del paese asiatico (Feizi, 2024). 

C’è chi fa notare come solo le ultime valutazioni sopra citate appaiano vicine alla realtà, anche in vista del fatto che ormai, come fa notare qualcuno (Feizi, 2024), nel 2023 la Cina ha prodotto il doppio della quantità di elettricità Usa, ben 12,6 volte dell’acciaio, 22 volte del cemento, mentre sono usciti dalle linee nello stesso anno 30,2 milioni di veicoli, quasi tre volte quelli Usa; e mentre i consumatori cinesi hanno comprato – nel 2023 – 434 milioni di smartphone, tre volte di più degli Stati Uniti. I cinesi, sempre seguendo questi calcoli, consumano il doppio della carne degli Stati Uniti e comprano il doppio dei beni di lusso (Feizi, 2024). E ancora: il mercato cinese della chimica e quello della robotica si stanno collocando intorno al 50% di quello mondiale.

C’è da pensare che per quanto riguarda il Pil degli Stati Uniti il valore di alcuni servizi sia invece sopravvalutato (Feizi, 2024; Todd, 2024), fattore che, se venisse considerato nei calcoli, aumenterebbe ancora il distacco. 

Il confronto sulla tecnologie

Anche sul fronte della competizione relativa ai settori della scienza e della tecnologia, le più recenti valutazioni pongono la Cina ad un livello abbastanza più avanzato di quanto si potesse pensare anche sino a poco tempo fa. Colpisce in particolare la velocità dei progressi del paese asiatico su tutti i fronti.

Consideriamo in proposito due studi distinti. Una ricerca australiana (Hurst, 2023), sponsorizzata del Dipartimento di Stato Usa, indica che, su 44 settori tecnologici esaminati, la Cina abbia il primato in ben 37 di essi e gli Stati Uniti soltanto nei restanti 7; tutto il resto del mondo, compresi i paesi europei, arranca. Anche considerando che lo studio possa avere esagerato il ruolo della Cina e con esso quello del Dipartimento di Stato indica come “pericolo cinese”, perché potrebbe aver mirato ad ottenere più fondi dal Congresso, comunque non si può dubitare che il paese asiatico stia facendo passi in avanti prodigiosi nel settore delle nuove tecnologie.

Una ricerca pubblicata di recente dall’Economist (The Economist, 2024) esplora un campo in parte almeno diverso da quello della ricerca australiana, concentrando l’attenzione sulle materie scientifiche. In questa ricerca si considera che gli Stati Uniti siano ancora avanti in diverse discipline, anche se il paese asiatico sta rapidamente colmando le sue arretratezze.

Così, secondo il settimanale britannico, la Cina appare già in testa in settori quali la scienza dei materiali, la chimica, la meccanica, la computer science, l’ambiente e l’ecologia, le scienze agricole, la fisica e la matematica, la biologia e la chimica biologica, mentre gli Stati Uniti mantengono il primato nella biologia molecolare, nelle scienze dello spazio, nelle neuroscienze, nella medicina clinica, nell’immunologia. Va segnalato che in tale ricerca il ruolo dei paesi europei in molti dei settori elencati appare per molti aspetti più dignitoso che in quella australiana sopra citata, anche se in nessuno di essi il nostro continente riesce ad acquisire una posizione di leadership.

Possiamo ricordare ancora il fatto che in Cina ottengano ormai la laurea ogni anno quasi 12 milioni di ragazzi, di cui circa 5 milioni in discipline STEM e in particolare 1.600.000 in ingegneria (contro i 200.000 statunitensi), mentre la Cina è anche in testa a livello mondiale per le domande di brevetti e per il numero di articoli scientifici pubblicati su riviste primarie, nonché per quello dei ricercatori in attività.

Ricordiamo infine che secondo l’indice di Nature nella classifica delle prime dieci università scientifiche del mondo sette posti vanno a istituzioni cinesi (sei su dieci nella classifica della Leyden University). La Tsingua University di Pechino è considerata la prima al mondo in ambedue le liste.

Alla fine, come commenta il settimanale britannico, il vecchio ordine scientifico mondiale dominato dagli Stati Uniti, dall’Europa e dal Giappone sta arrivando alla fine.

Un quadro complessivo certamente sorprendente. Naturalmente non mancano i punti deboli del paese asiatico. È noto, ad esempio, come la Cina sia indietro nel fondamentale settore dei chip, anche se sta moltiplicando gli sforzi per recuperare terreno, mentre appare anche in ritardo nel campo dell’aeronautica civile. L’innovazione cinese si basa ancora molto su nuove applicazioni di tecnologie esistenti, mentre ha più difficoltà nelle invenzioni che aprono nuove strade (Keyu Jin, 2023), anche se di nuovo il paese sta recuperando velocemente terreno.

Testi citati nell’articolo

-Feizi H., What’s the real size of China’s economy?, www.asiatimes.com, 17 giugno 2024

-Keyu Jin, The new China playbook, Swift Press, Londra, 2023

-Hurst D., China leading US in technology race in all but a few fields, thinktank  finds, www.guardian.com, 2 marzo 2023

The Economist, The soaring dragons, 15 giugno 2024  

-Todd E., La défaite de l’Occident, Gallimard, Parigi, 2024

Fonte

Iran - Oggi il ballottaggio per il nuovo presidente. Sullo sfondo c’è la crisi economica

Si riaprono oggi le urne in Iran per il ballottaggio delle elezioni presidenziali in un clima di apatia tra gli elettori e di crescenti tensioni regionali causate dalla guerra tra Israele e gli alleati iraniani Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano.

Il voto segue quello del 28 giugno, segnato da un calo record dell’affluenza: il 60% degli elettori iraniani si è astenuto dalle votazioni volte a nominare il successore di Ebrahim Raisi morto in un incidente aereo. I seggi chiuderanno alle 18 locali, ma è probabile che saranno tenuti aperti ancora per alcune ore. Il risultato finale sarà annunciato domani.

Gli iraniani sono chiamati a scegliere tra il parlamentare riformista Masoud Pezeshkian e l’ex negoziatore nucleare Saeed Jalili, un ultraconservatore. Sebbene le elezioni avranno un impatto limitato sulle politiche della Repubblica islamica, il nuovo presidente sarà coinvolto nella scelta del successore dell’ayatollah Ali Khamenei, 85 anni, la Guida suprema dell’Iran che ha diritto di ultima parola sulle questioni più importanti della politica interna ed estera del Paese. Due giorni fa Khamenei ha riconosciuto “un’affluenza alle urne inferiore alle aspettative”, tuttavia, ha aggiunto, “è sbagliato supporre che coloro che si sono astenuti al primo turno siano contrari al governo islamico”.

Il 48% degli elettori aveva partecipato alle elezioni del 2021 che portarono Raisi al potere, mentre l’affluenza alle urne è stata del 41% alle elezioni parlamentari di marzo.

Il dato evidenzia che gli iraniani sono sempre più disillusi rispetto alle possibilità di cambiamento, soprattutto in economia. Soggetto a un pesante regime di sanzioni internazionali guidate dagli Stati uniti, l’Iran non riesce a venir fuori dalla stagnazione economica che ha portato disoccupazione e inflazione. I più scontenti sono i giovani, colpiti dalla mancanza di lavoro e insofferenti, almeno una parte di essi, alle limitazioni delle libertà politiche e sociali.

Non ci si aspetta che il prossimo presidente apporti grandi cambiamenti alla politica del programma nucleare iraniano o abbia un impatto significativo sulla linea di Teheran all’estero. Allo stesso tempo il capo dello stato può influenzare il tono della politica estera e interna dell’Iran.

Pezeshkian e Jalili sono entrambi fedeli alla Repubblica islamica, tuttavia una vittoria di Jalili darebbe più forza a chi sostiene una estera ancora più antagonista nella regione. Il trionfo di Pezeshkian invece potrebbe promuovere più pragmatismo e, in teoria, allentare le tensioni sui negoziati, ora in stallo, con gli Usa e alcuni Paesi occidentali per rilanciare il patto nucleare. Sempre in teoria potrebbe portare anche a un allentamento della rigidità sociale delle autorità in un Paese che circa due anni fa è stato attraversato per settimane da ampie proteste per la morte in detenzione della giovane Mahsa Amini arrestata dalla polizia morale.

Le preoccupazioni maggiori della popolazione sono comunque legate all’economia. Milioni di iraniani lottano per arrivare alla fine del mese e le prospettive di un miglioramento economico saranno ancora più incerte con il possibile ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Trump che nel 2018 è uscito unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano, una volta alla Casa Bianca potrebbe chiedere, anche su pressione di Israele suo stretto alleato, un’applicazione più severa delle sanzioni sulle esportazioni petrolifere di Teheran.

Il ripristino delle sanzioni statunitensi nel 2018 ha ridotto le entrate del governo costringendolo a adottare misure impopolari come l’aumento delle tasse. Il Paese ha evitato conseguenze ancora più gravi grazie alle esportazioni del greggio verso Pechino che però, in totale, restano al di sotto dei livelli precedenti al 2018. Durante i tre anni al potere del presidente Raisi, l’economia iraniana è comunque riemersa dalla crisi del 2018-19 causata dall’imposizione delle sanzioni e il Pil ha raggiunto il picco del 5,7% nell’anno conclusosi a marzo, secondo il Centro statistico iraniano. Tuttavia, gran parte di questa espansione è stata trainata dal settore energetico. Senza gli idrocarburi, la crescita dell’Iran lo scorso anno sarebbe stata solo del 3,4% e la sua bilancia commerciale avrebbe raggiunto un deficit di 16,8 miliardi di dollari. La disoccupazione ufficiale è al 7,6% rispetto al 9,6% quando Raisi fu eletto. Ma le retribuzioni sono estremamente basse e un iraniano è costretto a fare, quando può, più di un lavoro per sopravvivere.

I prezzi per beni di prima necessità come latticini, riso e carne sono saliti alle stelle. Il pane Lavash, il più consumato dalle famiglie iraniane, costa il 230% in più rispetto a tre anni fa. Lo stipendio mensile di un insegnante è di circa 180 dollari e gli operai edili guadagnano poco più di 10 dollari al giorno. Per un cittadino iraniano pesano sulle difficoltà del Paese anche gli squilibri fiscali, la cattiva gestione delle risorse e la corruzione, “malattie” radicate e resistenti alle riforme.

I due candidati alla presidenza dicono di voler attuare il settimo piano di sviluppo approvato dal Parlamento nei mesi scorsi che mira a raggiungere l’8% di crescita annuale, anche con le sanzioni internazionali. La Banca Mondiale invece prevede per l’Iran tassi di crescita annui molto più bassi, intorno al 3% nei prossimi tre anni.

Pezeshkian è l’unico candidato, tra i sei inizialmente ammessi, ad esprimersi apertamente a favore di un rilancio delle relazioni anche con l’Occidente per aiutare l’economia nazionale.

Fonte

“Basta commercializzare i prodotti israeliani”

Sono già un migliaio i soci Coop che in Emilia Romagna hanno firmato una lettera alla direzione dell’azienda. Altrettante firme sono state raccolte tra i soci Coop in Toscana e a Vicenza. E la protesta tra le socie e i soci sta dilagando ponendo seri problemi alla Coop, nonostante i tentativi del giornale filo-israeliano Il Foglio di minimizzare la cosa.

Sui banchi di Coop Alleanza 3.0 sono infatti presenti diversi prodotti (avocado, arachidi e altri) di aziende israeliane che migliaia di soci chiedono di non vendere più.

“Non vogliamo essere complici del genocidio in Palestina e del sistema di occupazione, pulizia etnica e apartheid nei confronti del popolo palestinese che dura da più di 70 anni. Aderiamo perciò all’iniziativa di un gruppo di socie e soci di COOP Alleanza 3.0 che partecipano al Coordinamento Bologna per la Palestina, formato da oltre 40 associazioni solidali con i diritti dei palestinesi. Chiediamo a Coop Alleanza 3.0 di interrompere immediatamente, per coerenza con i principi di solidarietà e di rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale e del suo codice etico, ogni relazione commerciale con ditte che producono e/o commercializzano prodotti israeliani” scrivono in un comunicato stampa le socie e i soci della Coop, i quali precisano poi che si impegnano a non acquistare prodotti provenienti da aziende israeliane ed a informare altre/i socie e soci e incoraggiare consumatori e consumatrici a non acquistare prodotti israeliani.

La lettera con le firme raccolte sarà consegnata alla direzione di Coop Alleanza 3.

Nel frattempo davanti alcuni supermercati della Coop sono stati distribuiti volantini firmati da “Socio Coop per la Palestina” esercitando il proprio diritto/dovere di partecipare alle scelte della Cooperativa, soprattutto su temi di grande rilevanza etica come il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale.

Alla lettera sono seguiti gli interventi di socie e soci in molte assemblee separate della COOP e la consegna di un’ulteriore lettera ai 130 Delegati Nazionali all’Assemblea Generale che si è tenuta il 22 giugno a Bologna.

Il coordinamento bolognese, che riunisce 40 associazioni cittadine e nazionali impegnate a chiedere la fine della guerra genocida in corso a Gaza, a denunciare le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale da parte di Israele e a sostenere il popolo palestinese nella sua lotta per l’autodeterminazione, ha così avviato un dialogo con la COOP inviando, a marzo 2024, una lettera alla Presidenza che chiedeva di interrompere con urgenza la commercializzazione di prodotti israeliani finché Israele non rispetterà i diritti umani e il diritto internazionale.

Per sostenere la loro richiesta, stanno invitando soci e socie in tutta Italia a firmare questa lettera online.

Nel volantino distribuito viene precisato che non si tratta di una richiesta di boicottaggio, che pure è uno strumento legittimo di lotta non violenta, come insegna l’esperienza del Sud Africa durante la lotta all’apartheid, e prima ancora, quella di Gandhi nell’India colonizzata dagli inglesi. La legittima richiesta dei soci è stata quella di chiedere l’applicazione del Codice Etico, secondo il quale COOP “esige dai propri fornitori di prodotti e servizi, il pieno rispetto delle normative sul lavoro, dei diritti umani, della salvaguardia dell’ambiente e privilegia le aziende che si dimostrano particolarmente sensibili a questi temi (art. 5.3)”.

Non basta infatti la libera scelta del consumatore: è necessaria anche una assunzione di responsabilità civile da parte della COOP, che peraltro è sempre stata un tratto costitutivo e distintivo della cooperazione rispetto ad altre forme di impresa.

Traspare però anche rabbia e delusione per l’atteggiamento della direzione della Coop che, purtroppo, a queste richieste e a queste preoccupazioni, non ha finora fornito alcuna risposta soddisfacente: il tanto vantato dialogo con i soci sembra lontano dall’essere una realtà. La sensibilità e la responsabilità sociale e civile della Coop, che pure in altri momenti (per esempio nel caso dell’apartheid in Sudafrica) sono state presenti, sembrano essere ormai di facciata.

Fonte

Vertice della Shangai Cooperation Organization, un passo nel mondo multipolare

Si è conclusa ieri la 24esima riunione del Consiglio dei Capi di Stato della Shangai Cooperation Organization. La riunione si è svolta ad Astana, capitale del Kazakhistan, che ha passato la presidenza di turno dell’organizzazione alla Cina.

Il summit si è svolto su due giorni, il 3 e 4 luglio, ma già il primo del mese l’intervista rilasciata sulla testata cinese Xinhua dal presidente kazako, Tokayev, aveva dato il sentore dell’importanza di questo appuntamento annuale. I temi da lui evidenziati come all’ordine del giorno sono quelli di un mondo multipolare.

Innanzitutto, un nuovo paradigma di sicurezza, rivendicato apertamente dalla Russia e rilanciato anche dalla Cina, in tutte le sue proposte di mediazione delle crisi più calde di questa fase storica. E ovviamente, anche transizione ecologica e miglioramento economico.

Nell’intervista, Tokayev si è concentrato sulla relazione con Pechino, e su cinque aree di collaborazione. Investimenti, in particolare in agricoltura, nuove energie, industria dell’automobile e industrializzazione in generale, e infine la produzione di prodotti ad alto valore aggiunto.

Insomma, un piano di crescita globale, orientato verso lo sviluppo di tratti da economia matura e non solo da fornitore di materie prime per l’Occidente. Chiaramente, in questa prospettiva, gioca un ruolo fondamentale la Belt and Road Iniziative cinese.

Giunto al suo decimo anno, questo enorme programma economico, tra alti e bassi così come tra varie ridefinizioni, è riuscito tuttavia a trasformare l’Asia centrale da area senza sbocchi al mare ad area con una funzione di hub logistico di carattere internazionale. E ulteriori progetti sono ora in discussione.

Il 3 luglio si sono svolti anche bilaterali importanti tra Cina, Russia e Iran, da un anno nella SCO. A dimostrazione di come tale Organizzazione, seppur priva dei caratteri di una vera e propria alleanza geostrategica, sia sicuramente un luogo di incontro degli interessi per una governance globale alternativa a quella euroatlantica.

Tra Putin e Xi Jinping si tratta del secondo incontro nell’arco di tre mesi, durante il quale il presidente cinese è tornato a definire l’omologo russo “un caro amico“.

Anche se la partnership è tutto fuorché “senza limiti“, possiamo dire che anche negli ultimi giorni è stata confermata la convergenza degli interessi dei due paesi.

Interessante poi l’incontro di Putin con Erdogan. Sul tavolo i dossier della guerra in Ucraina, per cui è stata augurato l’arrivo di un cessate il fuoco al più presto e poi una pace giusta. Anche se il portavoce del Cremlino Peskov ha ribadito che la Turchia non può fare da mediatrice con Kiev.

Sono stati trattati anche altri conflitti, come quello a Gaza o quello in Siria, ma soprattutto è stato discusso un possibile passo avanti nella costruzione della seconda centrale nucleare turca, a Sinop. Rosatom avrebbe un ruolo centrale in questo progetto.

Il 2024 è stato proclamato come Anno dell’Ecologia da parte della SCO, con l’adozione di vari documenti su ecologia, conservazione delle risorse naturali, ecoturismo e mitigazione del cambiamento climatico.

Nel febbraio di quest’anno si è tenuto anche un evento SCO-ONU intitolato “Un pianeta, un futuro: unire gli sforzi per la sostenibilità ambientale“.

Per questo alla due giorni appena conclusa è intervenuto anche il segretario generale dell’ONU Guterres, come impegno per una maggiore collaborazione tra le due organizzazioni deciso da una risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite lo scorso settembre.

Tokayev ha sottolineato che parlare di un destino comune per l’umanità ha attirato molte attenzioni riguardo all’opportunità di costruire un nuovo modello di relazioni internazionali. Non tutti hanno però interpretato questo passaggio in maniera positiva.

Il Guardian ha scritto che la SCO mira ad essere una sorta di “anti-NATO“. Prima del vertice, la CNN aveva indicato l’attesa ammissione della Bielorussia nel gruppo di Shangai come un’altra mossa di Pechino e Mosca per renderla un vero e proprio contrappeso geopolitico rispetto a USA e alleati.

La Bielorussia è infatti divenuto ufficialmente il decimo membro della SCO, che è così arrivata a rappresentare quasi metà della popolazione mondiale e quasi un terzo della sua economia.

Il presidente bielorusso Lukashenko ha affermato: “i paesi della maggioranza globale dovrebbero prendere l’iniziativa dal momento che l’Occidente autoreferenziale ed egoista non ci è riuscito“.

Queste parole fanno eco a quelle già pronunciate da Putin durante l’incontro con Xi Jinping, nelle quali la SCO è identificata come “uno dei pilastri chiave di un ordine mondiale equo e multipolare“.

Lo stesso presidente del Dragone, circa una settimana fa, aveva dichiarato che il suo paese vuole costruire “ponti di comunicazione” con gli altri paesi, in particolare con l’Asia centrale e il Sud Globale.

Ma come lo stesso Putin ha confermato, la SCO è uno dei pilastri, non l’unico, nello sviluppo di un mondo multipolare. Nigel Gould-Davies, ricercatore presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra ed ex ambasciatore britannico in Bielorussia, ha sottolineato come ci siano “significative differenze di sicurezza tra i suoi membri“.

Quello che unisce i membri di questa organizzazione è comunque una visione autonoma da quella che vorrebbero imporre le centrali imperialiste occidentali. E certamente la Cina ne è il principale motore, seppur è evidente che esistano ancora molte distanze in politica estera.

Non si può dunque parlare ancora di una “anti-NATO“, ma si può certamente parlare di un incontro che ha dato un’importante spinta allo sviluppo di un mondo multipolare.

Un mondo in cui anche le potenze emergenti dovranno destreggiarsi tra interessi non sempre convergenti, ma sicuramente alternativi a quelli euroatlantici.

Fonte

04/07/2024

La morte ha sorriso all'assassino (1973) di Aristide Massaccesi - Minirece

L’Italia vuole ordinare più di 550 carri armati dalla tedesca Rheinmetall

Come fanno le azioni delle industrie degli armamenti a guadagnare il 3-4% in un solo giorno. Semplice! I governi acquistano consistenti armamenti dai privati, la notizia viene messa in circolazione et voilà il gioco è fatto.

Il quotidiano economico tedesco Handesblatt, ha rivelato ieri che l’azienda di armamenti tedesca Rheinmetall sta per ricevere il più grande ordine della sua storia. Secondo le dichiarazioni di due addetti ai lavori dell’Handelsblatt, lo Stato italiano vuole ordinare il carro armato principale Panther e il veicolo da combattimento di fanteria Lynx sviluppati dall’azienda di armamenti di Düsseldorf. Il gruppo sta collaborando con il produttore italiano Leonardo.

Mercoledì pomeriggio, entrambe le società hanno confermato la costituzione della joint venture in un comunicato. “Le sinergie tecnologiche e industriali tra Leonardo e Rheinmetall sono un’opportunità unica per sviluppare carri armati e veicoli di fanteria all’avanguardia”, ha dichiarato l’amministratore delegato di Leonardo Roberto Cingolani nel comunicato stampa.

Secondo l’amministratore delegato di Rheinmetall, Armin Papperger, entrambe le aziende vogliono servire il mercato italiano e altri Stati partner che necessitano di modernizzazione nel campo dei sistemi di combattimento.

L’Handelsblatt aveva già riferito in esclusiva sulla joint venture e sull’ordine mercoledì mattina. Di conseguenza, le azioni di Rheinmetall sono cresciute di valore di oltre il quattro percento. Le azioni di Leonardo hanno guadagnato a volte più del tre per cento.

L’economia di guerra si sta rivelando un magnifico affare per le aziende private di armamenti. Gli stati spendono i soldi pubblici per comprare le armi e le aziende, oltre che con i soldi pubblici, si arricchiscono anche “sui mercati” con la sopravalutazione delle loro azioni in Borsa. Tutti contenti di spingere l’Europa – e forse l’intera umanità – di nuovo verso il baratro della guerra.

Fonte

Message in a bottle

Intelligenza Artificiale, scienza o solo marketing?

Proponiamo la nostra traduzione in italiano dell’articolo della Handelsblatt del primo luglio 2024, firmato da Larissa Holzki e Luisa Bomke dal titolo “Wissenschaft -oder doch nur Marketing?”. La domanda parte da una considerazione: da quando OpenAI ha lanciato ChatGPT, con evidenti scopi di business di scala globale, siamo ancora nel campo della scienza che evolve o direttamente in quello dei prodotti che il marketing deve lanciare? Perché se è vero che la scienza esiste a prescinde dal fatto di essere pubblica o proprietaria è altrettanto vero che quando intervengono capitali colossali il marketing, per il ritorno di immagine e capitale, tende a prendere il sopravvento.

L’intervento, spettacolare, dei capitali privati nel settore, prima ancora del lancio di ChatGPT, ci rende la IA per cosa è: un salto in avanti del settore scientifico STEM, dimensione del dominio del capitale tecnomorfo, un gigantesco tentativo globale di ristrutturazione della produzione, dei servizi, dello stesso legame sociale e dello sviluppo dell’intelletto agente tramite la relazione permanente con l’intelligenza artificiale. Le criticità di questo tentativo sono legate, ovviamente, a come si sviluppa l’intelligenza artificiale. Lasciando perdere discussioni oziose sulla IA che sostituisce gli umani in funzioni essenziali o li rende più stupidi, chi interagisce con la IA ottiene risultati solo se ha un rapporto intelligente con essa, oggi la discussione seria è su come si sviluppa l’intelligenza artificiale e in quale modo impatta su una miriade di settori dalla produzione all’intelligenza collettiva e singolare.

Consideriamo che su questo settore la Germania, nonostante abbia investito più dell’Italia, si trova in ritardo rispetto alla competizione-guerra globale che si è scatenata con USA e Cina e la necessità che Berlino ha di ristrutturare il proprio settore scientifico e produttivo. Detto questo l’articolo della Handelsblatt è una ricognizione sulle criticità del IA, sul rischio della prevalenza del marketing nell’assetto produttivo, e sul rapporto IA-intelligenza umana che, aggiungo, assume sempre di più un aspetto non solo fortemente legato ai processi di soggettivazione ma anche uno direttamente politico.

Nell’articolo delle due giornaliste della Handelsblatt emergono il primato dell’approccio tedesco, la convergenza di pubblico e privato nello sviluppo della IA, la discussione sulla genesi della conoscenza umana come fattore immediatamente produttivo e le criticità dell’evoluzione della tecnoscienza come problema di modelli produttivi. Mentre in Italia, e in parte dell’Europa, si discute soprattutto di necessità di controllo di questi processi qui troviamo uno sguardo a cosa sta accadendo nel continente dell’innovazione IA, un qualcosa di enorme che non è solo scienza o solo marketing il cui impatto sulle nostre società è comunque considerevole.

Per Codice Rosso, nlp

*****

di Larissa Holzki e Luisa Bomke, Heidelberg

È successo mentre due dei più rinomati scienziati dell’intelligenza artificiale (IA) guardavano insieme il Campionato Europeo di calcio: il giorno dopo lo racconta su un palco il direttore del Max-Planck-Institut per i sistemi intelligenti, Bernhard Schölkopf, parlando del suo collega Yann LeCun, “Il mio gatto lo ha morso”. L’intero auditorium ride. Un caso? Un qualche tipo di vendetta?

Tra gli aspiranti scienziati di Tubinga, tutti conoscono LeCun vincitore del premio Turing e capo scienziato dell’IA presso Meta (Facebook), e sanno che da mesi ripete nelle interviste: “Finora l’intelligenza artificiale non è nemmeno intelligente quanto un gatto domestico”.

Nella concorrenza aspra sull’IA, LeCun è quindi uno dei principali antagonisti del CEO di OpenAI, Sam Altman, e del CEO di Tesla, Elon Musk, che postulano un imminente passo avanti verso un’intelligenza artificiale a livello umano. Una cosiddetta Artificial General Intelligence (AGI) sarebbe raggiungibile in un futuro relativamente prossimo, ha detto Altman al World Economic Forum di Davos all’inizio dell’anno. Yann LeCun ribatte continuamente che questo non è fondamentalmente possibile con gli approcci attuali.

Da decenni gli esperti di apprendimento automatico discutono se e come il pensiero umano possa essere replicato nelle macchine. Ma il tono si è inasprito.

Perché ora non è più solo la scienza a guidare lo sviluppo di un’intelligenza simile a quella umana nelle macchine. Numerose aziende hanno fatto della ricerca il loro modello di business. Da quando OpenAI ha rilasciato il suo famoso chatbot ChatGPT, la domanda che sorge quando si parla di Intelligenza Artificiale Generale è: è ancora scienza o già marketing?

Alcuni, come la ricercatrice statunitense e presidente della Signal Foundation, Meredith Whittaker, affermano che l’intelligenza artificiale stessa è diventata un termine di marketing. Le aziende non sono interessate a replicare l’intelligenza umana, ma piuttosto a far eseguire le loro attività da software.

Per molte applicazioni aziendali, sembra non importare se la macchina pensi davvero o solo sembri farlo. La domanda cruciale non è più se le macchine possono pensare, ma se sono in grado di svolgere compiti per i quali gli esseri umani dovrebbero pensare. E questo è già stato raggiunto in molti settori, come dimostra il test di Turing.

Dagli anni ’50, il test di Turing è stato considerato il punto di riferimento per determinare se le capacità di pensiero della macchina hanno raggiunto quelle umane. Il test è considerato superato se un essere umano, in un gioco di domande e risposte in determinate condizioni, non può più distinguere se sta parlando con un altro essere umano o con una macchina.

ChatGPT e sistemi di intelligenza artificiale simili superano regolarmente il test. Tuttavia, non pensano come un essere umano e a volte falliscono in compiti semplici come il cosiddetto principio del cassetto o della piccionaia: alla domanda “Se distribuisci cinque piccioni in tre piccionaie, ci saranno sempre due piccionaie in cui ci sono due piccioni?”, ChatGPT dice: “La risposta breve è ‘sì'”.

Inoltre, i modelli producono ripetutamente affermazioni completamente false, che nel settore sono chiamate “allucinazioni”. Un esempio spesso citato proviene da Google Gemini. Alla domanda su come fissare il condimento su una pizza, Gemini ha suggerito: con la colla.

Per capire come si possano verificare tali affermazioni, è utile dare un’occhiata al funzionamento dei modelli linguistici. A differenza della classica ricerca di Google, i modelli linguistici di grandi dimensioni non si basano su un indice di milioni di siti web che potrebbero citare. Invece, i modelli linguistici sono addestrati su enormi quantità di testo. In questo modo, imparano quali parole si presentano sempre insieme, in quale ordine e in quale contesto. Su questa base, calcolano la risposta parola per parola in base alla probabilità statistica. Se questa è corretta dipende essenzialmente dal fatto se e con quale frequenza la risposta corretta appare nei dati di addestramento.

Questo processo non ha fondamentalmente nulla a che fare con il pensiero umano. Ma deve farlo, se può comunque essere utilizzato per svolgere molti compiti umani? Imprenditori come Altman e Musk sono attaccati all’idea che sia solo una questione di potenza di calcolo, dati giusti e messa a punto per costruire modelli linguistici con capacità simili a quelle umane. Per eliminare gradualmente gli errori, OpenAI, ad esempio, impiega numerose persone in paesi a basso salario per controllare i dati di addestramento. Gli investitori finanziariamente forti sono attirati dalla promessa che un AGI sia a portata di mano.

Così Brad Lightcap, responsabile delle operazioni di OpenAI, ha dichiarato in un’intervista al Financial Times che la prossima generazione del modello GPT dell’azienda (GPT5) risolverà grandi problemi come il pensiero indipendente. Il capo del concorrente di OpenAI, Anthropic, Dario Amodei, e il CEO di Tesla, Musk, si sono pubblicamente impegnati nella previsione che un’IA a “livello umano” potrebbe essere sviluppata già nel 2025 o 2026. Musk afferma addirittura che l‘IA sarà allora “più intelligente della persona più intelligente”.

I ricercatori di punta sono molto più scettici degli imprenditori. Questo è dimostrato da un sondaggio delle università di Berkeley, Oxford e Bonn tra 1712 scienziati di alto livello nel campo dell’IA, pubblicato nel gennaio 2024. Secondo il sondaggio, gli intervistati vedono solo una probabilità del dieci percento che entro il 2027 ci saranno macchine in grado di svolgere qualsiasi compito immaginabile meglio degli esseri umani senza aiuto. Anche entro il 2047, hanno stimato questa probabilità solo al 50%.

Ma le promesse degli imprenditori statunitensi presenti nei media hanno suscitato aspettative più elevate. Anche prima delle presentazioni degli ultimi modelli linguistici di OpenAI e Meta (Facebook), si ipotizzava che questi potessero già essere in grado di “pensare e pianificare”. Alla fine, tuttavia, i modelli si sono rivelati solo marginalmente migliori dei loro predecessori, con delusione di molti osservatori.

Anche Mira Murati, Chief Technology Officer di OpenAI, ha recentemente ammesso in un’intervista alla rivista Fortune: “Abbiamo modelli capaci nei nostri laboratori, ma non sono così avanti”.

Questo conferma ciò che la scienza aveva già previsto: più grandi diventano i modelli, più diminuisce l’utilità di dati aggiuntivi e migliori. Questa relazione è suggerita anche da un documento di ricerca pubblicato da OpenAI nel 2020, quando l’azienda pubblicava ancora la sua ricerca ed era meno guidata commercialmente.

Lo scienziato dell’IA di Tubinga, Bernhard Schölkopf, ha contraddetto la percezione pubblica che lo sviluppo dell’IA potesse essere esponenziale: “Nessun modello in natura cresce esponenzialmente per sempre”. Si aspetta piuttosto una curva a collo di cigno, in cui una fase di ripido sviluppo è seguita da una fase di appiattimento. Tuttavia, non è chiaro in quale punto di questa curva si trovi attualmente lo sviluppo: “Quello che sappiamo da un punto di vista scientifico è che stiamo ancora utilizzando algoritmi piuttosto stupidi”.

Ricercatori come LeCun e Schölkopf ritengono che siano necessari approcci completamente nuovi per sviluppare macchine con intelligenza a livello umano. Diversi gruppi di scienziati stanno lavorando su idee diverse per raggiungere questo obiettivo.

L’approccio della cognizione incarnata

Un approccio perseguito dagli sviluppatori di IA in tutto il mondo è la rappresentazione fisica del corpo. I fautori della teoria dell'”organismo intero”, chiamata “cognizione incarnata” nella scienza, presumono che l’intelligenza non si sviluppi solo nel cervello, ma attraverso le interazioni con il mondo fisico. Collegando l’IA e la robotica, si dovrebbe creare un’intelligenza più robusta e versatile. Il motivo è che i robot possono acquisire ed elaborare dati multimodali come informazioni visive, uditive e tattili.

Questo approccio è perseguito dalle aziende di robotica Hanson Robotics e FigureAI, e anche la società di consulenza McKinsey scrive in un post sul blog: “Potremmo aver bisogno di approcci e robot completamente nuovi per raggiungere l’AGI”. Per sviluppare le stesse capacità cognitive degli esseri umani, i robot dovrebbero sperimentare il mondo fisico come noi.

L’approccio connessionista

La seconda grande corrente a cui aderiscono gli sviluppatori di IA in tutto il mondo è quella della replicazione di un intero cervello. I ricercatori di IA e neuroscienziati stanno cercando di replicare la struttura del cervello umano. Questo è stato parzialmente raggiunto con le reti neurali, che sono la base degli attuali modelli linguistici di grandi dimensioni. Ma i ricercatori vogliono andare oltre e collegare molte diverse unità neurali tra loro. Per fare ciò, vogliono replicare i circuiti nel cervello e anche l’architettura del cervello.

All’Università di Tubinga, Bernhard Schölkopf e i suoi gruppi di ricerca stanno studiando, tra le altre cose, la plasticità delle reti. Questa consente all’IA di adattarsi e imparare, in modo simile ai cervelli biologici.

L’approccio ibrido

Yann LeCun è convinto che l’IA debba imparare come un bambino attraverso il “vedere e toccare” per acquisire una comprensione del mondo fisico. In questo modo, combina l’approccio connessionista con l’approccio embodied e l’approccio multimodale, che presuppone che l’IA abbia bisogno di diverse fonti di dati per sviluppare l’intelligenza.

Secondo il ricercatore, anche gli esseri umani potrebbero assorbire molto di più attraverso le impressioni visive che attraverso le parole. “Un bambino di quattro anni è stato sveglio per circa 16.000 ore nella sua vita e il nervo ottico trasmette 20 megabyte di dati al cervello al secondo”, afferma LeCun. Di conseguenza, un bambino assorbe già più dati in un periodo di quattro anni di quanti siano i testi su Internet. LeCun conclude che l’intelligenza umana non può essere raggiunta solo attraverso l’addestramento con testi, che oggi costituiscono la maggior parte dei dati di addestramento.

Schölkopf ritiene che anche la conoscenza culturale – x – sia cruciale nel percorso verso un AGI. Questo è ciò che rende gli esseri umani intelligenti.

Tuttavia, l’attenzione e anche i fondi per la ricerca sono distribuiti in modo diseguale tra la moltitudine di approcci. Con OpenAI, Musk’s xAI, Anthropic e la società francese Mistral, le aziende di IA stanno concentrando miliardi di dollari di capitale su di sé perseguendo, per quel che ne sappiamo, approcci simili. E LeCun e Schölkopf credono che potrebbero presto raggiungere i limiti dello sviluppo con questi approcci. Le ragioni di ciò, secondo i due ricercatori, sono, da un lato, che le aziende si concentrano maggiormente sui loro prodotti e sul loro marketing piuttosto che essere in grado di lavorare liberamente sull’innovazione. Inoltre, OpenAI e Co. sono proprio quegli attori che forniscono meno informazioni su quanto siano effettivamente progrediti nel percorso verso l’AGI.

È proprio questa segretezza il secondo motivo per cui LeCun e Schölkopf ritengono che le aziende attualmente sotto i riflettori dei media non saranno le prime a sviluppare un AGI. Perché per raggiungere l’AGI, crede Schölkopf, tutte le parti dovrebbero divulgare i loro progressi nel riconoscimento degli oggetti, nell’architettura, nella memoria e nel pensiero logico. Solo mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle si otterrebbe alla fine una grande IA umana. Schölkopf ritiene quindi che né Sam Altman di OpenAI né Elon Musk di X.AI svilupperanno la prima AGI. Il vincitore sarà prodotto da “una combinazione di ricerca lungimirante nell’industria e nella ricerca accademica”. Schölkopf ritiene quindi che né Sam Altman di OpenAI né Elon Musk di X.AI svilupperanno la prima AGI. Il vincitore sarà prodotto da “una combinazione di ricerca lungimirante nell’industria e nella ricerca accademica”.

Fonte

Arrestato datore di lavoro di Satman Singh per omicidio doloso. Serve il reato di omicidio sul lavoro

È stato arrestato il datore di lavoro di Satman Singh, Antonello Lovato, su cui la Procura indagava inizialmente per omicidio colposo; dopo la consulenza del medico legale, infatti, l’ipotesi di reato è diventata di omicidio doloso con dolo eventuale.

USB e Rete Iside, da tempo, portano avanti la campagna per introdurre il reato di omicidio e lesioni gravi sul lavoro, come forma di deterrenza. Anche in questo caso, purtroppo, ci sembra che l’introduzione di questa fattispecie di reato nel codice penale avrebbe potuto fungere da deterrenza contro comportamenti come quello di cui è rimasto vittima il bracciante agricolo nella campagna di Latina.

Il datore di lavoro, infatti, non solo ha messo ha rischio la vita di Satman e degli altri lavoratori mettendoli in una situazione di rischio oggettiva, per le quali ricordiamo esistere misure strutturali per impedire l’accesso e delimitare spazi a rischio, ma invece di chiamare i soccorsi ha deciso di scaricare il bracciante gravemente ferito di fronte a casa. Secondo le indagini, se Satman fosse stato soccorso in modo tempestivo avrebbe potuto salvarsi: così non è stato e ha perso la vita, a soli 31 anni, dopo un giorno di agonia in ospedale.

Ci chiediamo se, con il reato di omicidio sul lavoro che introduce pene specifiche, queste morti terribili non potrebbero finalmente trovare un freno.

Fonte

USA - Lo staff di Biden prova a mettere una pezza al disastroso confronto con Trump

Daniella Diaz sul giornale statunitense Politico, ha rivelato che lo staff della campagna di Joe Biden ha inviato mercoledì mattina un promemoria agli alleati della Camera – che mostra sondaggi interni sugli gli ultimi numeri di raccolta fondi – nel tentativo di placare le preoccupazioni dei membri del Partito Democratico sugli sforzi per la rielezione del presidente.

Il memo, ottenuto da Politico, ha osservato che la campagna di Biden ha “significativamente superato” la campagna di Trump, raccogliendo 127 milioni di dollari contro i 112 milioni di dollari del repubblicano a giugno.

La nota ha anche affermato che il sondaggio in arrivo del New York Times/Siena College – che dovrebbe mostrare un calo significativo per Biden – è un “valore anomalo”, affermando che altri sondaggi pubblici e sondaggi interni alla campagna mostrano una “corsa costante” tra Biden e Trump.

La nota sottolinea inoltre che l’ora successiva al dibattito “è stata la migliore ora di raccolta fondi di base dell’intera campagna”.

I democratici nel Congresso, in privato e pubblicamente, hanno espresso preoccupazioni sulla capacità di Biden di candidarsi per la rielezione dopo la sua esibizione al dibattito di giovedì. Mentre Biden ha chiamato il leader della minoranza della Camera Hakeem Jeffries e il senatore Chris Coons (Delaware), i democratici anziani non hanno in gran parte ancora sentito il presidente.

Due democratici moderati – i rappresentanti Jared Golden (Maine) e Marie Gluesenkamp Perez (Washington) – hanno detto che non credono che Biden vincerà a novembre.

Il deputato Lloyd Doggett (Texas) è diventato il primo legislatore in carica a chiedere a Biden di ritirarsi dalla corsa.

Intanto, scrive ancora Politico, gli avvocati democratici di tutto il paese si stanno già preparando per la possibilità di una seconda amministrazione Trump, iniziando a tracciare una strategia legale aggressiva per combatterlo di nuovo in tribunale, questa volta con un nuovo senso di urgenza. I procuratori generali democratici stanno valutando l’assunzione di esperti esterni e l’invio di personale per studiare le aree della legge che si prevede saranno sotto attacco, come la salute riproduttiva, l’immigrazione e l’ambiente.

Fonte

Tim - Via allo smembramento

Partendo dalla privatizzazione dei Capitani coraggiosi di D’Alema-Prodi e arrivando al Made in Italy della Meloni si è concluso il 1° luglio il viaggio della gloriosa azienda TIM.

Il 1° luglio, infatti, si è perfezionato l’accordo che sancisce lo smembramento di TIM in un’azienda di servizi, la TIM, e un’azienda che gestirà una porzione della rete, Fibercop, venduta agli americani del fondo speculativo KKR.

Notiamo con rammarico come la stampa si sia accorta ora, a giochi fatti, dell’operazione di separazione, con un susseguirsi di articoli, servizi radiotelevisivi, podcast. Addirittura, vediamo che qualche osservatore comincia a sollevare qualche dubbio sull’efficacia dell’iniziativa, sull’opportunità di cedere una risorsa strategica come la rete ad un paese straniero, sulle minacce occupazionali all’orizzonte.

Lo troviamo strano, se non ipocrita, perché sono almeno dieci anni che USB denuncia lo stato comatoso di TIM. Dimenandosi nelle secche di una concorrenza senza scrupoli incoraggiata dai Governi di turno, TIM non ha attuato alcun piano industriale di rilancio, se non inseguire la concorrenza sul ribasso dei prezzi, ricorrere sempre di più all’appalto e al subappalto, tagliare unilateralmente le commesse ai fornitori e sperperare soldi pubblici mettendo i propri lavoratori in cassa integrazione fin dal 2010.

Dov’erano questi solerti giornalisti quando i lavoratori facevano manifestazioni, presidi, scioperi, comunicati che denunciavano il pericolo imminente?

Dal punto di vista industriale il rischio reale è che il futuro industriale sia di FiberCop sia di TIM, considerata l’incertezza sul fronte della sostenibilità del debito di entrambe le società, in vista di una concorrenza sempre più serrata sui processi di digitalizzazione, abbia vita breve.

In FiberCop, sarà probabile un “dimagrimento” dei circa 20mila dipendenti, dato che dovrà gestire la porzione di rete che richiede più investimenti, gravata da un debito enorme e che non potrà gestire liberamente i prezzi dei servizi che continueranno ad essere regolati dall’Autorità di Governo AGCOM.

Si potrebbe inoltre determinare un meccanismo di sganciamento da parte del fondo KKR, una volta terminata la speculazione finanziaria. A quel punto rimarrebbe in vita un cadavere industriale di cui lo Stato, attraverso il finanziamento del MEF, dovrebbe gestire il debito, il personale e un sistema tecnologico in via di superamento.

Pericolosa sarà anche la situazione di TIM, o società di servizi. Attraverso questa operazione, infatti, vede sicuramente diminuire il debito, accumulato negli anni dalle scalate dei vari gruppi finanziari, ma si troverebbe a giocare un ruolo secondario in un mercato ormai in crisi e con concorrenti più forti e minore personale a carico. Probabile a quel punto l’ulteriore “alleggerimento” di TIM con la vendita del Customer Care e del segmento Consumer.

Secondo USB, c’è quindi il rischio concreto che siano state costituite due BAD COMPANY con il risultato di una perdita occupazionale e senza prospettive industriali serie per il settore delle TLC.

In questa situazione determinante è stato il ruolo del Governo che ha finanziato una operazione in perdita a tutto vantaggio del fondo americano KKR il cui vero obiettivo, secondo USB, è quello di massimizzare l’investimento e operare anche una speculazione immobiliare sugli edifici acquisiti.

In conclusione, ci auguriamo che stampa e TV mantengano la stessa attenzione in futuro sulle conseguenze di questa scelta.

Come USB saremo come sempre tra i lavoratori, ad organizzare le lotte, unica arma contro l’attacco al lavoro, ai diritti, ai salari.

Fonte

03/07/2024

Shin Godzilla (2016) di Hideaki Anno, S. Higuchi - Richiesta

I polacchi i più entusiasti per la Nato

I più entusiasti nei confronti del Patto Atlantico sono i polacchi. È quanto emerge da un sondaggio pubblicato il 2 luglio dall’istituto Pew Research Center di Washington, realizzato su un campione di 44.166 persone di 13 diversi paesi tra aderenti e non alla Nato, in vista del vertice dell’organizzazione in programma dal 9 all’11 luglio negli Stati Uniti.

In generale, una media del 63% degli intervistati ha un’opinione positiva della NATO, mentre il 33% ha un’opinione negativa.

L’organizzazione militare fondata e guidata da Washington è considerata favorevolmente da ben il 91% dei cittadini polacchi, seguiti dal 75% di olandesi e dal 72% di svedesi. I cittadini meno entusiasti per l’adesione all’Alleanza Atlantica sono invece quelli della Grecia, dove solo il 37% sostiene la Nato mentre il 59% la avversa.

Dall’indagine è emerso che il 63% dei canadesi vede la NATO favorevolmente, il 66% in Gran Bretagna, il 64% in Germania, il 63% in Ungheria (con una netta crescita nell’ultimo anno), il 54% in Francia, il 45% in Spagna.

In Italia l’Alleanza è considerata in termini positivi dal 60% e negli Stati Uniti solo dal 58%; gli elettori repubblicani, infatti, considerano spesso l’Alleanza Atlantica un inutile e dispendioso strumento per proteggere i paesi europei a spese dei contribuenti statunitensi. Non è un caso che Donald Trump ha più volte affermato di voler ridurre gli stanziamenti statunitensi per il Patto Atlantico.

Rispetto al passato il giudizio sulla Nato è sensibilmente migliorato in Turchia, dove la percentuale di chi valuta positivamente l’Alleanza è raddoppiata tra il 2019 e il 2024, arrivando comunque solo al 42% mentre la percentuale di cittadini avversi è al 46%.

Il Pew Research Center ha sondato anche la fiducia dei cittadini europei e statunitensi nel presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che cambia molto da paese a paese.

A più di due anni dall’invasione russa dell’Ucraina, una media del 40% dei cittadini di 35 paesi sondati ha fiducia che Zelensky faccia la cosa giusta riguardo agli affari mondiali, mentre il 46% non ce l’ha. Mentre in Svezia otto persone su dieci hanno un’opinione positiva del leader di Kiev, in Ungheria una percentuale simile considera Zelensky negativamente.

Paradossalmente il calo del consenso più ampio per il presidente ucraino, pari a 22 punti percentuali in un anno, si registra in Polonia.

Le opinioni nei confronti della Russia e del suo presidente Vladimir Putin restano in gran parte negative tra i 35 Paesi analizzati. In media, il 65% del campione esprime un giudizio negativo su Mosca e il 73% non ha alcuna fiducia nel suo leader.

In alcuni paesi, però, il sentimento verso la Russia è in miglioramento. È il caso, soprattutto, dell’Argentina, dove la percentuale della popolazione che ha una visione positiva della Russia e che afferma di aver fiducia in Putin è in crescita, rispettivamente, dell’11 e del 9% rispetto allo scorso anno. Quanto ai Paesi europei, secondo Pew Research, a guardare con indulgenza alla Russia e a Putin sono soprattutto gli elettori di partiti populisti di destra e di estrema destra. In Germania, per esempio, il 45% dei sostenitori di Alternativa per la Germania (Afd) esprime fiducia verso il capo del Cremlino.
In Italia è solo il 17% degli intervistati ad avere un punto di vista favorevole alla Russia, e il 12 afferma di avere fiducia in Putin.

Fonte

Voices inside my head

Sotto Parigi c’è un mostro dell’Antropocene

di Paolo Lago

Esiste un sottogenere horror in cui la “Natura si ribella” al dominio spregiudicato della specie umana: come nota Fabio Malagnini, probabilmente Frogs (1972) è l’archetipo che segna le basi di questo tipo di sottogenere1: le rane e gli altri animali si ribellano all’uso indiscriminato di pesticidi nel loro ambiente naturale. La Natura si ribella all’Antropocene (cioè l’epoca contemporanea secondo una definizione offerta dagli scienziati Eugene Stoermer e Paul Crutzen), all’antropizzazione del mondo attuata per mezzo di inquinamenti, cementificazioni, devastazioni di ogni tipo di habitat naturale. Ma quando le trasformazioni apportate dall’uomo hanno fatto sì che la stessa Natura non sia più naturale, cosa succede? Succede una situazione simile a quella raccontata in Under Paris (Sous la Seine, 2024) di Xavier Gens, in cui un gigantesco squalo che ha subito delle mutazioni genetiche (in altre parole, non è più uno squalo, ma un mostro) si sposta dal suo habitat naturale addirittura fino alla Senna e ai suoi canali sotterranei per seminare il terrore in tutta Parigi.

Se, come scrive Malagnini, il vecchio squalo bianco di Lo squalo (Jaws, 1975) di Steven Spielberg, “appare innocuo come un koala davanti ai feroci esemplari geneticamente modificati della saga Deep Blue Sea (1999, 2018, 2020) o al preistorico e smisurato megalodonte in The Meg (2018) resuscitato dal fondo degli abissi [...]”2, di fronte al mostro geneticamente modificato di Under Paris appare come un antiquato retaggio appartenente ad una Natura di quando era ancora ‘naturale’. Nelle prime sequenze del film, la scienziata Sophie e la sua squadra hanno seguito il famigerato squalo (a cui hanno anche dato un nome, Lilith), fino al “Pacific Trash Vortex”, il luogo dove nell’Oceano Pacifico si sono accumulati tutti i rifiuti dispersi in mare, soprattutto oggetti in plastica. Gli animali marini e, quindi, anche gli squali, hanno subito mutazioni a causa dell’inquinamento provocato dall’uomo, capace, in una fase iper-avanzata dell’Antropocene, di trasformare ciò che è naturale in qualcosa che naturale non è più. La squadra di Sophie, di cui faceva parte anche suo marito, verrà attaccata dagli squali e lei sarà l’unica superstite, quasi come una final girl in uno slasher movie anni Ottanta. Se nelle sequenze iniziali lo squalo appare nel suo spazio (l’Oceano), trasformato esso stesso in mostro dall’operato umano, nel seguito del film si spinge fino a Parigi, in uno degli spazi antropizzati per eccellenza. La trama del film non è incentrata perciò sullo spostamento di incauti turisti e viaggiatori fino al territorio incontaminato in cui regna l’animale feroce come, ad esempio, in Rogue (2007), in cui un gruppo di turisti si avventura nella natura selvaggia australiana finendo per essere attaccati da un terribile coccodrillo; in Under Paris è il mostro a recarsi in città (un po’ come King Kong e Godzilla) e a minacciare la vita quotidiana degli abitanti di una metropoli.

Tre anni dopo la tragedia che la ha coinvolta – siamo nel 2024 – Sophie viene contattata da un’attivista ambientalista di nome Mika che la informa che lo squalo Lilith ha risalito il fiume e si trova nelle profondità della Senna. C’è un grande subbuglio in città anche perché le autorità cittadine stanno organizzando un campionato mondiale di nuoto proprio nel fiume. Immaginatevi quindi il mostro che minaccia inconsapevoli cittadini e inconsapevoli atleti; d’altra parte, come spesso succede nelle trame di questo genere, le stesse autorità (fra le quali spicca la sindaca di Parigi), per non perdere un’occasione di pubblicità e di arricchimento, tendono a insabbiare la notizia che riguarda lo squalo. Meglio comunque non rivelare altro sulla trama perché è veramente tutta da godere fino in fondo, fino a un finale che non lascia davvero indifferenti. L’aspetto probabilmente più interessante del film è proprio la trasformazione dello squalo in un mostro: non è davvero più l’animale del film di Spielberg, terribile sì ma pur sempre un animale. Lilith è qualcosa di innaturale, un vero e proprio mostro creato dall’Antropocene per autodistruggersi. Se l’uomo inquina e altera l’equilibrio naturale, non fa altro che distruggere sé stesso: lo squalo è qualcosa di più che la vendetta della Natura nei confronti di un’umanità ignorante e inconsapevole. È la distruzione creata dall’uomo stesso, è una non natura, un esperimento che l’Antropocene ha forgiato e che, al pari dei gas tossici, del cambiamento climatico, di qualsiasi tipo di inquinamento, lo sta letteralmente annientando. Come scrive sempre Malagnini, “la rivolta degli animali, trasformati nel loro DNA in seguito all’intervento antropico, è diversa dalla ‘vendetta’ di una natura presentata come corrotta e incorruttibile. La loro ribellione non solo si rivolge contro chi li ha sfruttati ma, soprattutto, contro chi li ha creati come soggetto, all’interno di una relazione capitalista di produzione”3. Il personaggio di Mika nel film riveste il ruolo dell’animalista convinta, dell’essere umano che, ingenuamente, crede che quello squalo sia ancora un animale e perciò si batte per difenderlo, come se fosse minacciato dall’uomo. Ciò che Mika non ha capito è che è Lilith a minacciare l’uomo di morte, non viceversa. E non ha capito nemmeno che Lilith non è un animale, ma un mostro creato dalla stessa umanità, dai suoi tragici ed inconsapevoli errori.

Con Under Paris siamo proiettati in uno stadio finale dell’Antropocene, quello in cui la Natura si è trasformata in qualcosa di non naturale che minaccia di morte l’umanità. Non è più possibile stabilire connessioni e ibridazioni con gli elementi naturali, come suggerisce Donna Haraway in Chthulucene; secondo la studiosa, “l’Antropocene introduce delle discontinuità drastiche; quello che verrà dopo non sarà più come quello che c’era prima”4. Certo, anche lo squalo del film è diverso da tutto quello che c’era prima ma la sua presenza sembra inaugurare un’epoca che non permette più la creazione di quelle parentele auspicate da Haraway: “Per vivere e morire bene da creature mortali nello Chthulucene è necessario allearsi con le altre creature al fine di ricostruire luoghi di rifugio; solo così sarà possibile ottenere un recupero e una ricomposizione parziale e solida della Terra in termini biologici-culturali-politici-tecnologici”5. C’è poco da allearsi con lo squalo Lilith: Mika crede che sia ancora possibile, ma si sbaglia perché non è più una creatura, è un mostro prodotto dall’Antropocene avanzato. Si può pensare che l’ambientalista Mika appartenga per certi aspetti alla deep ecology, una corrente di pensiero che rifiuta l’antropocentrismo (aprendosi quindi a una interrelazione con gli animali e la natura in genere), ma che però presenta il limite di proporre un’ideologia della conservazione che non è applicabile a realtà diverse da quelle dell’occidente industrializzato: quando si parla del predominio dell’uomo sulla natura non si tiene conto di realtà differenti in cui il predominio è quello dell’uomo sull’uomo, attuato tramite diverse modalità di sfruttamento6. Non a caso, lo squalo attacca Parigi (e non una povera e fatiscente città del terzo mondo), uno dei centri dell’egemonia culturale ed economica occidentale; un luogo dove vige il diktat dell’economizzazione della società, in tutti i suoi aspetti. La sindaca e le autorità incarnano a pieno tale mentalità sottomessa alle regole del capitale: in nome del denaro molte vite possono tranquillamente essere sacrificate.

Lo squalo mostruoso, geneticamente modificato, attacca Parigi come, a partire del primo film del 1954 diretto da Ishirō Honda (che inaugura una fortunata saga), il mostro Godzilla, risvegliato da test nucleari statunitensi, attacca Tokyo. Se Godzilla nasce dall’orrore generato nella cultura giapponese dalle bombe atomiche americane sganciate su Hiroshima e Nagasaki, lo squalo Lilith è il frutto di uno sconvolgimento che sta avvenendo a livello globale, laddove l’Antropocene sta devastando gli ultimi lembi di natura rimasti. Un Antropocene che, nel mondo reale, sta correndo inesorabilmente verso la sua autodistruzione, anche senza l’aiuto di mostri atomici o di squali geneticamente modificati.

Note

  1. Cfr. F. Malagnini, Antropocene Horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, Bologna, 2023, p. 127. 

  2. Ivi, p. 157. 

  3. Ivi, p. 184. 

  4. D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (Staying with the Trouble – Making Kin in the Chthulucene, 2016.) trad. it. Nero, Roma, 2020, p. 145. 

  5. Ivi, p. 146. 

  6. Cfr. S. Iovino, Filosofie dell’ambiente. Natura, etica, società, Carocci, Roma, 2018, p. 104

Fonte

L’anti-utopia realizzata

di Sandro Moiso

Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 278, 15,00 euro

“Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani. Sopra l’entrata principale le parole: “Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale” e in uno stemma il motto dello Stato mondiale: Comunità, Identità, Stabilità”. (A. Huxley – Brave New World, 1932)

Secondo me la fantascienza è morta. È un movimento della metà del XX secolo che ora si è concluso. Credo che abbia vinto. Ha ottenuto una grande vittoria. […] Si potrebbe dire che la fantascienza è morta proprio perché ha trionfato. Non è morta perché ha perso, è morta perché ha vinto. ( J. Ballard – intervista rilasciata a Sandro Moiso, giugno 1992)

È un allarme di tutto rispetto quello lanciato dal testo presentato in Italia da Malamente in coedizione con Istrixistrix e pubblicato per la prima volta in Francia dal collettivo Pièces et Main d’Oeuvre di Grenoble nel 2017. Un allarme che, al di là di alcune forzature interpretative, dovrebbe fare aprire gli occhi dei lettori sulle prospettive reali di tante promesse contenute nell’esaltazione del liberalismo e della sua potenza tecnico-scientifica. Promesse che, sebbene dirette formalmente a tutti i cittadini del pianeta, o almeno della parte bianca e occidentale dello stesso, in realtà non sembrano voler far altro che eternizzare lo stato di cose presenti, peggiorandolo per i più pur di migliorare le condizioni di esistenza delle sua classi dirigenti ovvero dei suoi funzionari e profittatori più spudorati.

Avrete già sentito parlare del transumanesimo e dei transumanisti; di una misteriosa minaccia, un gruppo di fanatici, una società di scienziati e industriali, discreta e potente, la cui trama occulta e l’obiettivo dichiarato consistono nel liquidare la specie umana per sostituirla con una specie superiore, “aumentata”, di uomini-macchine. Una specie che sarà il risultato dell’eugenismo e della convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, neuro-tecnologie e degli immensi progressi della scienza.
Avrete già sentito parlare dell’ultimatum, cinico e provocatorio, di un ricercatore in cibernetica: «Ci saranno persone impiantate, ibridate, e queste domineranno il mondo. Le altre che non saranno come loro, non saranno tanto più utili delle nostre vacche tenute al pascolo»1.
O ancora: «Quelli che decideranno di restare umani e rifiuteranno di migliorarsi avranno dei seri handicap. Costituiranno una sotto-specie e saranno gli Scimpanzé del futuro»2.

Queste le parole con cui si apre l’Appello posto all’inizio del testo3. La denuncia di un progetto di superamento dei limiti della specie (transumanesimo) che porta con sé la differenziazione all’interno della stessa non solo più in termini di classe, potere d’acquisto, diritti politici e sociali e di appartenenza etnica e di genere, ma, soprattutto, a livello cognitivo e di innovazione tecnologica della stessa fisiologia con cui gli umani convivono e vivono da centinaia di migliaia di anni.

Il riferimento agli scimpanzé non è casuale: era questa la forma fisica della nuova “classe operaia” prodotta in laboratorio nel visionario testo di Aldous Huxley, Il mondo nuovo, pubblicato nel 1932. Scimmie obbedienti e limitate dal punto di vista cognitivo proprio per migliorarne il rendimento e impedire possibili rivolte di cui gli individui “normali” sarebbero stati ancora capaci. Anche in un regime dittatoriale.

Ma il mondo prefigurato dal testo curato dal collettivo di Grenoble, non è il mondo dei totalitarismi e delle dittature del ‘900. No, è quello della libera scelta, di individui che volontariamente scelgono di trasformarsi per avvicinare sempre più il corpo umano e quello sociale ad una macchina perfetta. In cui l’assenza di inserti nanotecnologici, modificazioni genetiche e la mancata scelta di una procreazione extra-uterina estremamente selettiva dei caratteri da trasmettere alle nuove generazioni, rivela la persistenza di un’alterità non più accettabile dal complesso produttivo e riproduttivo immaginato dai suoi ideatori e profeti.

Che, proprio attraverso la parole di uno dei loro rappresentanti, Nick Bostrom fondatore della World Transhumanist Association, hanno potuto affermare: «I geneticamente privilegiati potranno diventare senza età, sani, super-geni dalla bellezza fisica perfetta […] I non privilegiati rimarranno le persone che sono oggi, ma forse privi di un po’ della loro autostima e soffriranno occasionalmente di un tantino di invidia. La mobilità tra la classe inferiore e quella superiore potrebbe scomparire»4.

Tra i profeti dell’Uomo aumentato, occorre dirlo, andava enumerato anche il fratello dello scrittore inglese, Julian Huxley, biologo e futuro direttore dell’UNESCO, che già nel 1941 difendeva l’idea secondo cui «l’eugenetica diventerà inevitabilmente una parte integrante della religione del futuro»5.

Sì, perché in fin dei conti il miglioramento della specie, fin dalle sue prime formulazioni settecentesche, ha sempre portato con sé lo stigma dell’eugenetica, sia che si manifestasse sotto le forme dell’ammodernamento del credo religioso, come in Teilhard de Chardin (gesuita, filosofo e paleontologo francese), che nel 1934 affermava: «Credo che l’Universo sia un’Evoluzione. Credo che l’Evoluzione vada verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si compia in qualcosa di Personale. Credo che il Personale supremo sia il Cristo-Universale». Affermazione in cui evoluzione, super-omismo e figura di Cristo coincidono. Sia, si badi bene, sotto le spoglie dell’Uomo nuovo socialista, idealizzato a partire dalla rivoluzione bolscevica, anche nelle parole di Leone Trotski: «Produrre una versione nuova, “riveduta e corretta” dell’uomo. Ecco il compito futuro del comunismo […] L’uomo deve guardare e vedere in sé una materia prima, nel migliore dei casi un semilavorato, e dire “Finalmente, caro il mio Homo Sapiens, ti lavorerò”»6.

Ma questi sono soltanto alcuni degli infiniti esempi di progetto di modifica e cambiamento dei caratteri umani della specie riportati nel testo. Che, a sua volta, diventa un altro esempio di fantascienza anti-utopistica, dedito com’è a smontare ogni residua illusione di progresso benevolo e uguale per tutti. Un testo a tratti esagerato, ma mai, assolutamente mai, del tutto assurdo e inconcepibile. Anzi, proprio sulle sue pagine sarebbe importante riflettere per comprendere a fondo come tanto progressismo di stampo socialista, anarchico o comunista, spesso si sia fatto irretire dalle chimere della scienza borghese e dei suoi apparati tecnologici e industriali.

Compresa l’esaltazione della cibernetica e di tutto ciò che ne è derivato in termini di controllo del sapere, della produzione, della società e della mente individuale e collettiva.

Un testo che nelle sue formulazioni più estreme andrebbe forse affiancato, nella lettura, al Trattato del ribelle di Ernst Jünger7 oppure a certe considerazioni di Amadeo Bordiga sulle fasulle promesse della scienza, della tecnica e, soprattutto, dell’economia di stampo capitalista. Un‘ottima lettura per l’estate e per una riflessione tutt’altro che oziosa sul nuovo mondo che ci aspetta (?). 

Note

  1. Kevin Warwick, “Au fait”, mag. 2014  

  2. Id., “Libération”, 12 mag. 2002  

  3. Appello degli scimpanzé del futuro in Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, Edizioni Malamente in coedizione con Istrixistrix, Urbino 2023, pp. 13-16.  

  4. Cit. p. 43.  

  5. Cit. in Pièces et Main d’Oeuvre, Manifesto degli scimpanzé del futuro. Contro il transumanesimo, p. 25.  

  6. L. Trotski, cit. in Manifesto degli scimpanzé del futuro, p. 24.  

  7. E. Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi Edizioni, Milano 1990 – prima edizione tedesca 1951.

Fonte