La bozza del decreto ministeriale per la ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) ha scatenato un duro scontro tra la ministra Bernini e il mondo universitario. Siamo però costretti a guardare il solito teatrino della politica che si dimena sul futuro di intere generazioni.
Il sistema universitario e il ministero che lo guida si avvalgono di una serie di organi consultivi e di discussione, che esaminano le misure principali. Tra queste, ovviamente il provvedimento che definisce l’ammontare, così come la distribuzione della principale voce di entrata degli atenei, il FFO appunto.
Come ogni anno, la CRUI (conferenza dei rettori), il CUN (che riunisce tutte le componenti accademiche) e il CNSU (consiglio degli studenti) hanno ricevuto la bozza dei fondi per l’anno 2024. E subito è saltato all’occhio un taglio che potrebbe divenire mortale per le università italiane.
Innanzitutto, nel testo viene messa nero su bianco una riduzione nominale del FFO di ben 173 milioni, ed è la prima volta dal 2014 che succede. Come se non bastasse, tra la revisione del finanziamento dei piani straordinari e della dinamica salariale, il reale taglio ammonterà a circa 500 milioni.
Ma il problema non è solo quantitativo: 385 milioni saranno sottratti alla quota base del FFO. Essa è la parte dei fondi non sottoposta a vincoli di destinazione, e dunque non ‘premio’ di quella dinamica competitiva tra atenei che ha dato vita alla polarizzazione tra università di serie A e di serie B.
Si tratta, in sostanza, dei soldi che dovrebbero garantire la sopravvivenza stessa delle università, e che invece saranno ancora più in balia della capacità di procacciarsi fondi privati. Già nel 2023 tale quota era arrivata a contare meno del 50% del FFO.
Per farla breve, si tratta del definitivo colpo di grazia all’università pubblica e al diritto all’accesso all’istruzione accademica. Il risultato non potrà che essere, sul lungo termine, o la chiusura di alcuni atenei o il loro definitivo asservimento a interessi privati.
Come accennato all’inizio, anche in questo caso non ci è stato risparmiato il solito teatrino della politica nostrana. La ministra Bernini, dopo aver fatto arrivare la bozza di decreto agli organi preposti alla consultazione, si è lamentata che i dati contenutivi siano stati resi pubblici.
Fonti ministeriali hanno affermato: “si è scelto di diffondere cifre infondate e allarmistiche su presunti tagli agli atenei. Invece del confronto di merito con il ministro e il suo staff, viene preferita la strada del pregiudizio e della polemica pubblica del tutto pretestuosa”.
Anche tenendo conto che quella visionata è solo una bozza, i tagli sono scritti chiaramente, e sono scritti dal ministero. Difficile quindi parlare di “cifre infondate”, così come appare assurdo che il dibattito pubblico su un tema che riguarda il futuro dell’intero Paese sia chiamato una “polemica”.
Stiamo parlando di misure che toccano milioni di persone, tra studenti, docenti, personale tecnico amministrativo e ricercatori in erba. I quali, tra l’altro, sono già in apprensione per la riforma delle posizioni di ricerca che è stata annunciata, sempre dal governo Meloni.
Ma la Bernini si è spinta persino oltre, dicendo che i soldi ci sono e che il nodo è nel loro corretto utilizzo. È vero che, in passato, più di una volta le istituzioni universitarie sono state in silenzio di fronte ai tagli, ma dire una cosa del genere è assolutamente inaccettabile.
L’Italia spende per l’università meno dell’1% del PIL, mentre la media OCSE si attesta all’1,6%. È dunque al limite dell’offensivo sentire dire che negli ultimi anni gli atenei sono stati “inondati di soldi”, come ha detto la ministra.
Di fronte a chi considera il dibattito pubblico di provvedimenti che riguardano l’intera collettività come una polemica, mostrando quanto le fondamenta della democrazia siano fastidiose per questo governo, l’unica alternativa è la mobilitazione studentesca e dei lavoratori.
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