Mercoledì 17 luglio il governo cinese ha fatto sapere di aver interrotto il dialogo con gli Stati Uniti inerente il controllo degli armamenti e la proliferazione nucleare. La motivazione è l'ininterrotta vendita di armi da parte di Washington a Taiwan.
“Nelle ultime settimane e mesi, nonostante la ferma opposizione della Cina e le ripetute proteste, gli Stati Uniti hanno continuato a vendere armi a Taiwan e hanno svolto azioni che minano gravemente gli interessi fondamentali della Cina e la fiducia reciproca tra Cina e Stati Uniti”, ha detto Lin Jian, portavoce del ministero degli Esteri.
Il diplomatico cinese si riferisce al fatto che questo traffico di materiale bellico è continuato pur avendo i due paesi intavolato nuovamente un dialogo formale sul tema delle testate atomiche appena otto mesi fa. Una doppiezza statunitense che Pechino non ha potuto ignorare a lungo.
Il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Matthew Miller, ha risposto dicendo che “la Cina ha scelto di seguire l’esempio della Russia nell’affermare che l’impegno sul controllo degli armamenti non può procedere quando ci sono altre sfide nelle relazioni bilaterali”.
“Pensiamo che questo approccio comprometta la stabilità strategica. Aumenta il rischio di dinamiche di corsa agli armamenti”. Affermazione ipocrita se si considera che lo scorso aprile la Casa Bianca ha dato via libera a oltre 8 miliardi di aiuti militari per l’Indo-Pacifico, compresa Taiwan.
Bisogna inoltre ricordare che, almeno in via teorica, l’arcipelago governato da Taipei non è riconosciuto dalla comunità internazionale. Sono solamente 12 i paesi che intrattengono con Taiwan relazioni diplomatiche ufficiali, e nessun membro del Consiglio di Sicurezza ONU ne riconosce la sovranità.
Washington stessa, a parole, sostiene il principio di “un’unica Cina”, ma in realtà continua a finanziare e ad armare quelli che sono separatisti in piena regola. È difficile quindi considerare la questione semplicemente come “un’altra sfida nelle relazioni bilaterali”.
Questa decisione arriva proprio nel momento in cui Taiwan è stata tirata in ballo anche nella corsa alla presidenza statunitense del prossimo novembre. Trump ha infatti affermato in un’intervista con Bloomberg Businessweek che il ricco paese asiatico dovrebbe pagare gli USA per la difesa che questi gli forniscono.
Il candidato repubblicano ha parlato di una vera e propria truffa ai danni degli statunitensi. Ma il tycoon non ha davvero intenzione di porre fine al sostegno a Taiwan: vuole solo mettere in campo uno strumento di pressione rispetto alle grandi multinazionali dei chip dell’arcipelago.
Trump spera di portare negli Stati Uniti un pezzo importante della filiera dei semiconduttori, per ridare fiato all’industria nazionale ma anche per porla in area geopoliticamente meglio difendibile. Taiwan mantiene, tuttavia, una grande importanza strategica per la sua vicinanza con la Cina.
È facile dunque capire la diffidenza di Pechino, e perché Lin Jiang faccia ricadere la responsabilità interamente su Washington. Già da marzo, del resto, il sottosegretario di Stato Bonnie Jenkins aveva segnalato che l’impegno cinese sul versante nucleare sembrava scemare velocemente.
Anche in questo caso, non bisogna scordare che da anni gli Stati Uniti vanno dicendo che la deterrenza nucleare della Cina sta diventando un pericolo pari a quello russo, e che il suo arsenale atomico ne sta modificando la posizione nello scenario strategico internazionale.
Insomma, l’Occidente continua a promuovere la guerra a tutto campo col mondo multipolare, e a indicare Pechino come il centro di questa “alleanza del male”. È ovvio che, se questi sono i bellicosi presupposti dell’azione euroatlantica, non ci si può aspettare accondiscendenza dai cinesi.
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