Siamo ormai nel pieno dell’estate, ma se si pensava di poter fare a meno della protervia di Stellantis per almeno un mese ci si sbagliava di grosso. Anche stavolta gli affari dei padroni non vanno bene, e a farne le spese saranno i lavoratori.
Martedì scorso l’Amministratore Delegato Tavares aveva annunciato nuove assunzioni per Mirafiori (e Atessa). Il giorno dopo, invece, la sua azienda ha informato i sindacati che, da settembre, saliranno a oltre 3 mila i lavoratori posti sotto contratto di solidarietà.
L’annuncio riguarda 1.057 operai della linea della 500 BEV, 115 del reparto Costruzione e stampi e 334 delle presse. Questi si aggiungono agli addetti delle linee della 500 elettrica e dei modelli Maserati già sottoposti a questa misura.
Il sito torinese è ai minimi storici in quanto a produzione. Fino al 30 giugno, vi sono state prodotte quasi i due terzi in meno di vetture rispetto allo stesso periodo del 2023.
Intanto, Stellantis continua a chiedere al governo italiano di garantire sussidi e facilitazioni per rilanciare l’attività. Il solito ricatto delle multinazionali che esigono dal pubblico, altrimenti minacciano di andarsene e portare il lavoro altrove.
Ma le prospettive che il colosso dell’auto ha da proporre sono assai fumose, soprattutto dopo i risultati del semestre appena concluso. I ricavi netti sono stati pari a 85 miliardi di euro, in calo del 14% rispetto all’anno precedente, e l’utile netto si è fermato a 5,6 miliardi di euro: quasi la metà in meno.
Ovviamente, il titolo è crollato in borsa appena dopo l’annuncio. Il motivo di questo tragico andamento è stato indicato soprattutto nella riduzione delle quote di mercato, a cui si vuole porre rimedio rilanciando la presenza su quello nordamericano.
Queste dichiarazioni non hanno fatto di certo ben disporre il ministro delle Imprese Urso. “Abbiamo tutte le condizioni per attrarre altri produttori [...]. Per chi vuole assemblare nel nostro Paese, ovviamente lo può fare, ma non è made in Italy”.
Il riferimento è all’accordo con la cinese Leapmotor, per l’assemblaggio dei suoi veicoli su territorio italiano. Il nodo di come attrarre investimenti per garantire i livelli produttivi del paese è stato al centro del braccio di ferro tra Urso e Stellantis, coinvolgendo direttamente anche il Dragone.
Ora sembra arrivare un altro dossier a mandare in crisi il rapporto tra Palazzo Chigi e la multinazionale. Stellantis ha infatti ceduto la quota di maggioranza di Comau, azienda di automazione e robot all’avanguardia, al fondo USA One Equity Partners.
La promessa che la sede rimarrà in Italia non vale molto, visti i trascorsi. Il ministero delle Imprese ha diramato una nota nella quale si fa sapere che si sta valutando l’applicabilità della disciplina della Golden Power, cioè la possibilità di intervenire su operazioni di interesse nazionale.
Bisogna però dire che la cessione era già prevista sin da accordi stipulati nel 2021, sui quali il governo di allora non aveva fatto la voce grossa. E fino a oggi nemmeno quello Meloni, a dimostrazione che anche questi eventi si inseriscono in questo braccio di ferro con Stellantis.
La classe politica continua a pensare il proprio ruolo come galoppini delle grandi imprese (e nel quadro degli interessi strategici UE), senza realizzare una propria visione di sviluppo e una politica industriale seria e programmata nel tempo.
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