La vicenda di Irina Farion non ha nulla di sorprendente. Vita e morte della nazi-nazionalista ucraina – a tempo perso linguista – uccisa il 20 luglio scorso sotto il portone di casa, sono perfettamente inquadrate nelle cronache post-sovietiche di quasi tutte le ex Repubbliche dell’URSS e, più specificamente, nel caso ucraino, nella faglia nazional-reazionaria i cui esponenti, quali ad esempio Dmitro Dontsov, ancora nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo, invocavano l’eliminazione fisica dei russi, quale elemento imprescindibile della “ucrainicità”.
Le responsabilità di una buona parte del PCUS per la rovina che ha accompagnato l’ultimo trentennio dell’Unione Sovietica, in generale, e quelle del PCU per la rinascita del banderismo nelle sue stesse file, in particolare, servono da filo conduttore anche per le biografie dei più raccapriccianti nazional-nazisti ucraini, pre e post-majdan, Irina Farion compresa.
Pare relativamente poco importante stabilire di quali ambienti sia espressione la persona che ha esploso il colpo mortale alla testa della ex-deputata della Rada (nulla di sorprendente nemmeno nel fatto che Farion avesse seduto nel parlamento ucraino: personaggi simili siedono in tutti i parlamenti in giro per il mondo, per non parlare dell’Italia), perché, in ogni caso, ciò che lei ha rappresentato nell’Ucraina “nezaležnaja”, pre e post-majdan, a partire dal 1991, sarà oltremodo difficile da estirpare, con o senza “de-nazificazione”.
È comunque significativo che, negli innumerevoli commenti alla notizia della sua morte, manchi praticamente ogni accenno di compianto.
Qualcuno ha paragonato Irina Farion a quei “linguisti di corte” del Terzo Reich, tipo Leo Weisberger o Georg Schmidt-Rohr, che intendevano “dimostrare” la superiorità dei tedeschi con la superiorità della lingua.
Così come quelli cercavano di convincere persino Hitler che la razza non ha senso e che un ebreo che parla tedesco è un tedesco, Irina Farion predicava che l’origine ucraina non conta nulla, se non si parla ucraino.
La sentenza della Corte suprema ucraina del 2021, secondo cui non possono esistere ucraini di lingua russa e, dunque, tali soggetti debbano esser considerati “russificati” (“omoskalennye”) e privati di diritti culturali e linguistici separati, prendeva spunto dalle ripetute e becere elucubrazioni di Farion, già dettagliatamente illustrate perché ci sia necessità di ripeterle.
Ricordiamo soltanto il commento di Farion all’assassinio del giornalista ucraino Oles Buzina, freddato nell’aprile 2015 davanti al portone di casa e il cui assassino era stato rimesso immediatamente in libertà, su “raccomandazione” degli squadristi di Pravij Sektor, di guardia fuori del tribunale: «Ucciso il degenerato Buzina. Queste persone non si fanno convincere... Buzina è una razza satanica. Per lui tenebre e oblio». Tanto basti a caratterizzare la feccia che scaturiva dalla bocca dell’uccisa.
Ed è anche per questi “vangeli” della nazi-linguista, afferma Pavel Volkov su Ukraina.ru, che non si può escludere che a esplodere il colpo di pistola sia stato uno dei nazisti di “Azov” di lingua russa (effettivamente, in “Azov” confluiscono moltissimi russofoni delle regioni orientali ucraine), dal momento che Farion li riteneva ucraini “non genuini”.
Il fatto è che in Ucraina vivono varie nazionalità, e non solo quella ucraina. E se non tutte parlano ucraino, diceva Farion, ciò dipende dalla “russificazione forzata” cui gli ucraini sarebbero stati sottoposti per secoli dagli odiati “moskaly”.
C’è però una grossa scheggia della pallottola che l’ha uccisa, che da decenni si è insinuata in una parte non secondaria della società ucraina e che nessun bisturi affilato alla mola di un nazionalismo uguale e contrapposto riuscirà a rimuovere e, come rilevano gli stessi analisti ucraini, gli eredi dei nazisti russofoni di “Azov” continueranno a chiamare i loro nonni “moskaly”, nonostante le svastiche tatuate sui loro petti, e non smetteranno di incolpare la loro non-ucrainicità per le disfatte al fronte.
E, con una discreta dose di crudo sarcasmo, Vladislav Sovin, dell’agenzia Regnum, paragona le diatribe tra Farion e russofoni di “Azov” all’aneddoto del nazista “cacciato dalla Gestapo per le sue atrocità”.
Ricordiamo anche come il nazismo ucraino, al pari dei suoi modelli tedesco e italiano, “vanti” una lunga tradizione di terrorismo intestino: durante la guerra, gli adepti delle due ali di OUN (OUN-B e OUN-M), guidate rispettivamente da Stepan Bandera e Andrej Mel’nik, assassinavano barbaramente non solo soldati dell’Esercito Rosso, attivisti sovietici e polacchi, ma anche gli stessi banditi dell’ala rivale di OUN.
Oggi, nota Rostislav Ishchenko sull’agenzia Al’ternativa, buona parte della società ucraina è talmente compenetrata dello “spirito” di majdan che se ne possono individuare i caratteri nei soggetti che si sentono autentici geni, la cui missione è quella di instillare negli altri la “verità”; persone pervase da egocentrismo e prive di ogni empatia, cariche di isterica intransigenza e negazione di ogni diritto a opinioni diverse.
Caratteristiche, aggiungiamo per parte nostra, che in minima parte potrebbero perdere di efficacia in quelle decine di migliaia di giovani e meno giovani che hanno “gustato le delizie” del fronte e cercano mille scappatoie per sfuggire al macello, o anche tra coloro che, prima ancora di finire al fronte, tentano la fuga riparando all’estero e che, in qualche misura (probabilmente non del tutto) cominciano a prender coscienza della natura del regime nazi-majdanista.
Il giornalista ucraino Vladimir Skachko, ancora su Ukraina.ru, cita l’opinione diffusa in Ucraina della necessità, per la junta di Kiev, a fronte della disperata situazione al fronte, di dichiarare «la patria in pericolo», con la conseguenza che l’omicidio di Farion venga preso a pretesto per inasprire le repressioni e mettere a tacere ogni dissenso, più di quanto non si stia facendo da anni.
Inoltre, attorno a Farion si sta sta creando l’aureola della martire della fede e non pochi galiziani sono confluiti sulla sua tomba fresca di scavo: tutti seguaci della sua ideologia nazionalista. Una nuova ukro-santa e una bandiera in più per la mobilitazione forzata.
Una mobilitazione, manco a dirlo, sotto le insegne dell’ukronazismo “storico”. Non lontano dalla tomba di Farion c’è il monumento ai collaborazionisti nazisti (immagine del 2008: pre-majdan) della divisione SS “Galicinà” e in questi giorni, in buona parte d‘Ucraina, ci sono striscioni dedicati all’80° anniversario della battaglia di Brody del 13-22 luglio 1944, nella regione di L’vov, tra il 13° Corpo della divisione tank della Wehrmacht – in cui era inquadrata la “Galicinà” – e i reparti del 1° Fronte ucraino dell’Esercito Rosso.
Si calcola che in quella battaglia siano rimasti uccisi o dispersi oltre due terzi dei 13.000 membri della divisione filonazista.
Che la sepoltura di Farion proprio in quell’area diventi viatico per eventi più vicini a noi? In ogni caso, non sembra troppo verosimile che le vittorie militari riescano a debellare alla radice il cancro del nazionalismo, sotto qualunque veste si presenti.
Le varie tappe della “ucrainizzazione” dell’Ucraina ci ricordano che la matrice politica e di classe di quel processo ha portato, in epoche diverse, a risultati diversi e per niente tutti “apprezzabili”.
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