Gli strepitii contro il feticcio della rincorsa prezzi-salari hanno raggiunto gli effetti sperati, facendo emergere quanto già chiaro da tempo e sconfessando la retorica del Governo secondo cui l’economia italiana primeggia in Europa. In verità, l’Italia è maglia nera nella caduta dei salari rispetto all’inflazione. Secondo l’OCSE, infatti, in Italia, rispetto al quarto trimestre del 2019, i salari reali, cioè i salari al netto dell’inflazione, sono caduti del 6,9%. Più del triplo di quanto siano caduti in Germania, il contrario di quanto sia accaduto in Francia (+0.1%).
Retribuzioni orarie, retribuzioni contrattuali e inflazione
Il problema dei salari in Italia è atavico, ma è andato via via aggravandosi negli ultimi decenni. Si tratta di una particolarità talmente evidente da richiamare l’attenzione anche della Commissione Europea, la quale ha notato come, in un decennio (2013-2022), la crescita dei salari nominali in Italia sia stata di circa il 12%, la metà della media europea (23%). Nello stesso periodo, mentre in UE i salari reali crescevano poco, ma crescevano (+2,5%), in Italia si verificava una caduta del 2%. In fin dei conti, la situazione è talmente drammatica che persino Bankitalia ha dovuto smentire, dopo le prime preoccupate dichiarazioni dell’ex Governatore Visco, la probabilità di una rincorsa prezzi-salari ammettendo per bocca di Panetta, che l’attuale aumento delle retribuzioni rappresenta un inevitabile recupero del potere d’acquisto, destinato ad affievolirsi a mano a mano che la perdita da recuperare si ridurrà. C’è da dire che gli aumenti dei salari monetari che si stanno verificando non sono particolarmente vigorosi. Se si tralascia il 2020, in cui la riduzione delle ore lavorate imposta dalle chiusure complica la lettura del dato, i tassi di crescita delle retribuzioni per ora lavorata non sono state particolarmente dissimili dai dati che si registravano nell’epoca pre-covid. Su base tendenziale, cioè rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il tasso di crescita del secondo trimestre del 2022 (3,22%) – cioè in piena crisi inflazionistica – è simile a quello del secondo trimestre del 2018 (3,19%). Esso, inoltre, rappresenta anche il valore più alto degli ultimi trimestri, basti pensare che rispetto al primo trimestre del 2023, nel primo trimestre del 2024 i salari nominali per ora lavorata sono cresciuti solo dell’1,15%. Insomma, i salari nominali sono cresciuti sostanzialmente sempre allo stesso (anemico) ritmo, sia quando l’inflazione era praticamente zero, sia quando ha distrutto il potere di acquisto dei lavoratori. È fondamentale infatti tenere sempre a mente la differenza fra salari nominali e salari reali, i quali ultimi tengono conto del livello dei prezzi e sostanzialmente ci dicono quanti beni e servizi possiamo comprare con i nostri stipendi.
Se analizziamo i dati in termini di crescita cumulata, a marzo del 2024 i salari nominali per ora lavorata erano solo del 5% superiori rispetto ai valori di marzo 2021. E i prezzi? Nello stesso periodo, la crescita cumulata dei prezzi è stata pari al 17,3%. Il risultato è una caduta dei salari reali per ora lavorata pari a più del 10%. D’altronde, anche le retribuzioni orarie contrattuali (si tratta di un dato che astrae dalla composizione della forza lavoro in termini di qualifiche, anzianità, contrattazione decentrata, straordinari) non sembrano mostrare alcuna particolare accelerazione se si considera che nel marzo del 2024 segnavano una crescita del 5,3% rispetto al 2021 e che nei mesi di aprile e maggio la crescita sembra essersi già interrotta. Se un rimbalzo nella contrattazione c’è stato, dunque, è stato molto limitato e soprattutto si è esaurito. Salvo una repentina e auspicabile modifica delle rivendicazioni salariali da parte di lavoratori e sindacati, dunque, è probabile attendersi un ritorno ai ritmi di crescita dei salari nominali simili a quelli sperimentati prima della fiammata inflazionistica e, dunque, che la perdita di potere d’acquisto verificatasi si vada consolidandosi.
Cosa c’entra l’austerità: rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici e cuneo fiscale
Il settore pubblico è da sempre fanalino di coda della contrattazione. Basta dare la parola all’ARAN, (cioè l’Agenzia che rappresenta la parte datoriale nella contrattazione collettiva del pubblico impiego) per renderci conto che a partire dalla triste stagione del blocco della contrattazione nel 2010 il settore pubblico (linea blu nel grafico) si è sempre distinto non solo per non garantire almeno l’allineamento con l’inflazione (linea rossa) ma in termini di dinamica salariale ha fatto addirittura peggio di quanto accedeva nel settore privato (linee azzurro e viola).
Tra mancati rinnovi e aumenti indecorosi, il settore pubblico si è ritrovato alle soglie della fiammata inflazionistica con salari reali da fame. L’ultima tornata di rinnovi (2022-2024) ha previsto un aumento del 5,8%, una cifra che sembrerebbe considerevole se paragonata alle precedenti e che tuttavia, significa una perdita cumulata di almeno 10 punti percentuali sul potere d’acquisto dei salari. Colmare la perdita costerebbe circa 30 miliardi, troppi, se l’austerità stringe. Il Ministro Zangrillo, infatti, ha invitato al realismo. La Legge di Bilancio, dice, è di fatto commissariata. Non ci sarà spazio per ulteriori rinnovi. Detto in altri termini, l’austerità si scaricherà direttamente sulle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici che vedranno i loro rinnovi contrattuali congelarsi. Il ministro, tuttavia, rivendica il finanziamento del taglio del cuneo fiscale, battaglia nostro malgrado anche dei sindacati confederali. Emerge quindi, con particolare cogenza e come avevamo annunziato, il che, da un lato, per quanto riguarda il settore privato, rappresenta nei fatti un regalo ai profitti poiché scarica sulla fiscalità generale, invece che su di essi, l’onere di alleviare la drammatica situazione salariale; dall’altra, in un contesto di austerità, funziona come arma di distrazione di massa per il Governo che mentre raccomanda alle imprese di non alzare i salari fa finta di regalare due spiccioli ai lavoratori mentre taglia la spesa sociale.
E al danno stavolta si unisce la beffa: una fascia non piccola di lavoratori pubblici (ad esempio un funzionario con una ventina di anni di anzianità di servizio) si trova probabilmente proprio intorno alla soglia di retribuzione attualmente prevista per avere diritto alla decontribuzione, per cui i 4 spiccioli di aumento salariale nominale rischieranno di farli decadere dal beneficio. La conseguenza è grottesca: a fronte di un (ridicolo) aumento della retribuzione, non potranno più godere dello sgravio con il risultato che la loro busta paga netta resterà esattamente invariata. È una specie di compimento del delitto perfetto consistente nell’affidare a strumenti impropri la difesa dei salari, in quanto il Governo potrà anche fare bella figura dicendo di aver conservato lo sgravio, ma col passare del tempo gli costa via via sempre di meno perché la platea dei beneficiari si assottiglia in maniera automatica.
Cause e soluzioni
L’inflazione, dunque, ha rappresentato l’ennesimo colpo ai salari reali in Italia che, unico paese OCSE, vede una situazione salariale peggiore rispetto addirittura al 1991.
Le cause sono molteplici e sono da rintracciarsi in ciò che è accaduto alla conflittualità dei lavoratori, alle istituzioni della contrattazione e del mercato del lavoro.
La progressiva abolizione fino alla cessazione della scala mobile ha comportato di per sé, una difficoltà dei salari nel tenere il passo dell’inflazione. Difficoltà che ha strisciato negli anni delle politiche deflazionistiche, comportando un’erosione del potere d’acquisto lenta ma costante, ed è esplosa in tutta la sua violenza non appena l’inflazione ha fatto capolino. Nel frattempo, l’erosione del potere contrattuale dei lavoratori si era andata consolidandosi, complici le già menzionate politiche deflazionistiche, nella forma di alti tassi di disoccupazione e sottoccupazione dilaganti, l’esplosione dei contratti a termine e l’arrendevolezza dei sindacati, con l’Italia che iniziava a caratterizzarsi come il paese con il minor numero di scioperi, nonostante la vulgata alimentata a più riprese dal ministro Salvini. Ma, come abbiamo più volte sostenuto, non esistono scorciatoie per aumentare i salari che passino da aumenti della produttività, tagli del cuneo e chi più ne ha più ne metta. L’unica soluzione per aumentare i salari è, appunto, aumentare i salari e per farlo è necessaria, come mai prima d’ora, una grande stagione di conflittualità che si ponga l’obiettivo di strappare risorse ai profitti e redistribuirle tra lavoratori e lavoratrici.
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