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15/07/2024

Genocidio a Gaza. Inefficacia e parzialità del diritto internazionale

Negli oltre nove mesi di guerra genocida a Gaza, si è palesata l’irrilevanza applicativa del diritto internazionale. Israele ha puntualmente snobbato, impunito, le richieste di un cessate il fuoco permanente, nonostante reiterate ordinanze solo in apparenza perentorie e moralismi di facciata espressi dai vertici delle Nazioni Unite. Leader politici ed esercito sionisti hanno potuto perseguire imperterriti, indisturbati, la loro criminale aggressione coloniale con metodi e obiettivi sanguinari e distruttivi. Gli interventi delle Corti internazionali e dell’Onu hanno palesato la loro totale inadeguatezza e incapacità nel porre anche solo un flebile freno allo sterminio dei palestinesi nei Territori Occupati.

Tali istituzioni, che in qualche modo dovrebbero regolamentare e stabilire gli ambiti di liceità dell’azione politica e geopolitica nel mondo, sono perlopiù apparse come costitutive di un apparato dispensatore di opzioni giuridiche à la carte, utili soltanto alle potenze occidentali, secondo convenienze contingenti.

Nonostante la debole funzione normativa da esso espressa, il diritto internazionale genera ancora, specie in Europa e Stati Uniti, stimoli per un’opinione pubblica persuasa della sua presunta autorevolezza e irreprensibile equità: molti cultori o sostenitori del diritto internazionale vigente non esitano a magnificarne atti e procedure quando, in realtà, i risultati dei provvedimenti giuridici scaturiti si sono spietatamente rivelati inferiori al nulla. Finanche, ingiusti.

In breve, il gigantesco apparato di norme e istituzioni di diritto internazionali non si è affatto distinto per illuminata equità. Sembra funzionare bene solo quando azionato a tutela di interessi imperialisti e unipolari: il suo ruolo appare proficuo solo quando interpellato a difesa del privilegio dei potenti e a spese di Paesi e popoli svantaggiati.

Da moltissimi decenni, ormai, le conseguenze gravi e irreparabili abbattutesi su Palestina e Gaza rappresentano esempi evidenti del fallimento di siffatto sistema giuridico internazionale, pachidermico quanto inefficace. Gran parte dei mali attuati nel genocidio del popolo della Striscia traggono nutrimento dall’inettitudine e dalla parzialità di un sistema asimmetrico e obsoleto che dovrebbe garantire giustizia, non il suo esatto contrario.

A riguardo, fa seguito l’ampia conversazione avuta con la dottoressa Bana Abu Zuluf, studiosa palestinese di Diritto Internazionale presso l’Università di Maynooth in Irlanda e attivista nel Good Shepherd Collective nella Cisgiordania occupata.

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Dottoressa Bana Abu Zuluf, l’attacco palestinese del 7 ottobre è stato trattato da stampa e media a maggior diffusione in Occidente come un evento separato dalla storia dell'oppressione palestinese ormai lunga quasi un secolo. In che misura, gli eventi di quel giorno possono essere considerati atto di resistenza contemplato dal diritto internazionale? In proposito, può spiegare quali sono i diritti tutelati per una forza di resistenza opposta a una situazione di occupazione territoriale?

Diritto di resistenza, diritto all’autodeterminazione, diritto allo status di prigioniero di guerra: nessuno di questi diritti viene tutelato e rispettato nel caso della Palestina. Tutti i gruppi armati palestinesi sono considerati terroristi e illegali e l’appartenenza a essi è quindi condannata. La Risoluzione 37/43 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite stabilì il diritto alla resistenza e all’autodeterminazione dei palestinesi “con tutti i mezzi necessari”. Il problema è che “tutti i mezzi necessari” nel diritto internazionale implicano il rispetto dei principi di proporzionalità, imminenza e necessità. Questi sono concetti vaghi, opinabili. Nel caso della Palestina, è immediato osservare che la colonizzazione, definita “occupazione” dal diritto internazionale, si inscrive in criteri che rispondono per soddisfare i tre principi di cui sopra.

In altre parole, lei sostiene che colonizzatore e colonizzato sono sottoposti a medesimi criteri valutativi dal punto di vista del diritto internazionale?

È proprio in questo che il diritto internazionale si rivela reazionario. Cosa c’è da proteggere nel colonialismo d’insediamento? I coloni che si sostituiscono violentemente ai nativi? I sionisti liberali che si aggrappano alle illusioni di un sionismo riformato? La società militarizzata che gioisce dei morti palestinesi?

Non si può parlare del 7 ottobre indipendentemente dai 76 anni di pulizia etnica e di espulsione forzata dei palestinesi. Né possiamo prestare ascolto alle narrazioni riguardanti il 7 ottobre senza evidenziare quel rifiuto diffuso che c’è stato di comprendere strategia, intenzioni e obiettivi delle forze di resistenza nella conduzione di quell’operazione. Argomenti, peraltro, esplicitamente divulgati nelle loro dichiarazioni pubbliche. Ciò è, ovviamente, fondamentale perché aiuta a demistificare l’operazione, fondandola su una visione di liberazione.

La controversia si concentra sul presunto attacco indiscriminato a danno di civili, cosa che è considerata crimine di guerra nel diritto internazionale: ebbene, da chi è stato confermato ciò, se non dalla sola testimonianza di parte degli stessi coloni? Molte inchieste, compresa quella del quotidiano israeliano Haaretz, dimostrano che in quell’occasione venne applicata dai militari israeliani la cosiddetta Dottrina Hannibal, in base alla quale è data autorizzazione all’esercito israeliano di ammazzare propri civili per evitarne la cattura come ostaggi.

Pertanto, accuse non verificabili non possono essere prodotte come prove fattuali dalle stesse istituzioni internazionali. Qual è l’opinione dei professionisti del diritto internazionale circa quest’ennesima ingiustizia testimoniale a danno dei palestinesi? Un popolo oppresso che vive da 76 anni sotto una brutale colonizzazione genocida dovrebbe modulare (contenendola) la propria resistenza aderendo a limiti assurdi di rispetto del diritto internazionale che, al tempo stesso, nega a quel popolo di offrire la propria testimonianza? Se il diritto internazionale non può essere emancipatorio per i palestinesi ma quest’ultimi desiderano la propria emancipazione, il diritto internazionale non può più essere la lente attraverso cui inquadrare la decolonizzazione della Palestina.

I palestinesi che emergono dalle macerie devono forse qualcosa al mondo? Per essi, nulla di tutto ciò ha importanza. La nostra bussola morale è guidata dall’idea di una Palestina libera e liberata, dallo smantellamento del sionismo e delle sue strutture e dal diritto al ritorno nella nostra terra. Questi sono stati i principi guida della resistenza del 7 ottobre. La diffusione della disinformazione sul 7 ottobre, anche quando smentita, ha contribuito a rafforzare la retorica islamofobica e razzista contro i palestinesi considerati geneticamente violenti.

Come intona giustamente il canto: la resistenza è un obbligo di fronte all’occupazione. In poche parole, la decolonizzazione per i palestinesi non significa solo la riorganizzazione territoriale e metaforica della Palestina, ma anche la riorganizzazione del mondo, incluso il diritto internazionale.

In parallelo a ciò, la risposta israeliana al diluvio di Al-Aqsa del 7 ottobre, che ha peraltro oltremodo violato i princìpi di proporzionalità e distinzione, può definirsi atto di autodifesa ai sensi del diritto internazionale, essendo Israele forza occupante? Tutte le potenze occidentali si sono precipitate a definire legittima la cruenta replica armata di Tel Aviv: non si tratta, invece, di un contesto colmo di illiceità?

Ai sensi del diritto internazionale, se dobbiamo analizzare i fatti attraverso questa lente, Israele non ha diritto all’autodifesa, essendo potenza occupante.

Al contrario, avrebbe doveri di protezione verso persone e cose. In ogni caso, commettere un genocidio non è certamente un atto di autodifesa. Le potenze occidentali si riferiscono al diritto internazionale quando parlano di autodifesa non per sostenere un diritto dell’entità sionista, ma per sanzionare e giustificare crimini di guerra e genocidio. Mi creda, legalità o illegalità di un atto commesso non hanno importanza: per il diritto internazionale, l’impunità dell’entità sionista è prassi consolidata.

Secondo la consuetudine delle potenze occidentali, è tutto molto semplice: le violazioni del diritto internazionale umanitario vengono premiate con l’impunità quando a commetterle sono gli amici e, invece, punite con sanzioni quando commesse – o si suppone commesse – da nemici. Non si può parlare di doppio standard: è il tipico standard colonial-imperialista.

Forse, mai prima d’ora, istituzioni, organi, procedure di diritto internazionale sono stati così di continuo esposti a livello globale con una serie di atti ufficiali, poi ampiamente disattesi. Quanto di questo è dovuto a difetti costitutivi, interni alla genesi delle istituzioni e delle leggi e quanto all’inefficacia confermata di strumenti universalisti?

Possiamo elencare innumerevoli difetti insiti nel diritto internazionale e nelle sue istituzioni. Dal punto di vista procedurale, ad esempio, sono evidenti importanti problemi (ex post facto, lunghezza dei tempi di elaborazione dei casi, costi elevati) con efficacia e deterrenza davvero discutibili e fittizia applicazione della norma. Per ciò che concerne i palestinesi, impattano soprattutto i difetti intrinseci al diritto internazionale, radicati nella sua storia di strumento di cui Stati e imperi potenti dispongono a loro piacimento per interessi egemonici. Esistono molte critiche al diritto internazionale, alcune tratte dalle tradizioni del Sud globale, altre più riformiste. Sono state condotte estese ricerche su tali carenze e non entro nei dettagli in questa sede. Ciò che preme evidenziare è come conciliare la conoscenza di tali difetti intrinseci con l’accanita difesa del linguaggio del diritto internazionale.

Sin da quando ho mosso i primi passi nello studio del diritto internazionale, mi sono sempre domandata senza riuscire a reperire una risposta concreta: “se il diritto internazionale è inapplicabile, come funziona?”. Ancora, “il diritto internazionale è stato creato per funzionare davvero?”. E, infine, “qual è la natura politica del diritto internazionale?”. Osservare che gli Stati Uniti promuovano sanzioni contro la Corte Penale Internazionale per aver semplicemente svolto il suo lavoro (un pessimo lavoro, sia chiaro) non deve sorprendere: essi hanno agito da par loro, in quanto impero. Le potenze occidentali si sono sempre considerate al di sopra della legge.

Quanto avviene in Palestina denota che il rispetto del diritto internazionale è requisito imposto ai soli nemici di Stati Uniti e Nato. Credo sia proprio questo il vero dilemma: gli Stati più deboli e con poca influenza politica devono rispettare il diritto internazionale perché destinatari bersaglio del merito di strumenti giuridici maneggiati dagli Stati più potenti. È tale “verticalità” del diritto internazionale la sua debolezza e, per tali ragioni, la resistenza palestinese sarà sempre perseguita dal diritto internazionale.

Vale la pena, adesso, di ricordare alcuni eventi recenti. Ad esempio, le parole, in apparenza dirompenti, del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antònio Guterres sul genocidio si sono rivelate insignificanti sul piano pratico. Che idea si è fatta di quella dichiarazione?

I sionisti griderebbero allo scandalo quando e se la loro narrazione egemonica non dovesse venir riportata alla lettera: reclamano la totale impunità. Anche se la dichiarazione di Guterres non minaccia la loro impunità, la richiesta che essi fanno è di nessuna ingerenza. Noi palestinesi, invece, gioiamo delle più piccole dichiarazioni che ci possano apparire in favore della normale umanità. È questo è un vero peccato! Dovremmo esigere di più: Guterres non ha detto nulla che meritasse scroscianti applausi.

Dire che il 7 ottobre non è avvenuto nel vuoto non è affatto un atto eroico. L’Onu è complice della storia di oppressione che lo stesso Segretario generale ammette non essere un vuoto. Sulla storia della complicità contestuale delle Nazioni Unite, Ardi Imseis ha scritto molto.

Solo quando l’Onu riconoscerà che il piano di spartizione territoriale è stato un errore, che Israele si è fondato sul colonialismo d’insediamento e sul genocidio della Nakba e che i Palestinesi sono un popolo indigeno colonizzato con pieno diritto all’autodeterminazione e al ritorno nelle proprie terre, solo allora, dicevo, potremo pensare di relazionarci con un’istituzione in buona fede. Su un piano ingenuo, possiamo sperare che questo si realizzi ma, finché ci saranno membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che detengono potere di veto, nessuna di queste speranze avrà reale concretezza. L’indirizzo scaturente dall’Onu permane insignificante.

Il voto dell’Assemblea Generale sul cessate il fuoco o sul riconoscimento dello Stato palestinese sembra essere infatti irrilevante, dal momento che tutto è nelle mani del Consiglio di Sicurezza dove l’arma del veto degli Stati Uniti offre via libera alle azioni e alle politiche atroci di Israele. Cosa pensa di tali percorsi procedurali, spesso patologici, tipici delle Nazioni Unite?

Ripeto, finché all’interno del Consiglio di Sicurezza vi sarà potere di veto, nessun voto proveniente dall’Assemblea Generale avrà materiale importanza. Oppure, più accuratamente, finché l’impero statunitense sarà egemone, l’Onu resta inutile: è questa la patologia. Alcuni si illudono del potere dell’Onu e della sua autorità. La prima cosa che impariamo nelle relazioni internazionali è che gli Stati possiedono il monopolio della violenza. Ebbene, l’Onu è composta da Stati membri e questi perseguono i propri interessi. Ecco perché il mantenimento della pace è fuori da ogni equazione: gli Stati non sono interessati al mantenimento della pace. Essi sono interessati a mantenere lo status quo.

A volte, la pace può essere funzionale allo status quo: solo allora, nel consesso Onu, gli Stati sono sensibili a iniziative non belligeranti. Ecco perché vedo il processo di pace come un qualcosa dalla natura coercitiva, un processo sostanzialmente progettato per minare l’autodeterminazione. La soluzione a due Stati degrada l’autodeterminazione palestinese. Approvando e imponendo questa soluzione, l’Onu ha dato continuità a ciò che aveva iniziato con il piano di spartizione. E anche il riconoscimento della statualità palestinese va inquadrato in quest’ottica.

Perché l’Unrwa è stata oggetto di ritorsione da parte dei governi occidentali che la finanziano, decidendo di smettere di inviare fondi?

L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa) è stata istituita l’8 dicembre 1949. All’epoca, tuttavia, la protezione dei rifugiati non era demandata all’Unrwa, bensì all’Unhcr, responsabile dell’assistenza umanitaria e protezione a rifugiati, apolidi e sfollati interni. L’Unrwa doveva avere natura temporanea con i Paesi vicini ospitanti i rifugiati ad assumersi la responsabilità di assisterli. Poiché nella maggior parte dei Paesi ciò non è avvenuto, i rifugiati palestinesi continuano a ricevere istruzione, cibo e alloggio dall’Unrwa.

Tale modalità di assistenza distrae l’attenzione del mondo dalla questione principale rappresentata dal ritorno dei rifugiati alle loro case di appartenenza da cui sono stati evacuati. Molti impiegati all’Unrwa sono palestinesi e poiché ai palestinesi viene negato il diritto al ritorno da numerose leggi e regolamenti israeliani, in particolare dalla “Legge sulle proprietà degli assenti” e dalla “Legge amministrativa”, sembra chiaro che l’Unrwa inavvertitamente faciliti e paghi le conseguenze dello sfollamento.

La ritorsione contro l’Unrwa si è basata sul pretesto di accuse infondate secondo cui suoi lavoratori sarebbero affiliati a gruppi resistenti classificati – guarda caso! – come organizzazioni terroristiche dai governi occidentali. La vera ragione è che l’Unrwa esiste per legittimare le giuste aspirazioni dei palestinesi al ritorno, documentandone lo status di rifugiati sfollati. Altra terribile ragione è quella per cui la tattica dell’entità sionista di affamare e angustiare i palestinesi, in base alla Dottrina Dahiya, non potrebbe realizzarsi con la presenza di servizi Unrwa funzionanti.

Non sono però le stesse esistenza e funzione persistente dell’Unrwa a coadiuvare in qualche modo le prerogative coloniali di Israele in Palestina?

L’Unrwa è un cerotto e questo è molto chiaro ai palestinesi. Ma è l’unica fonte di speranza per milioni di rifugiati. Né io, né chiunque pur critico delle istituzioni “umanitarie” può negare che allo stato delle cose non esista una fonte di protezione alternativa per rifugiati e sfollati palestinesi. L’unica alternativa è lo smantellamento del colonialismo sionista. E questo è il limite della critica. Possiamo esercitare la critica fino alla fine dei tempi, ma se non immaginiamo o iniziamo a creare il mondo che meritiamo, la critica resta inutile. I sionisti vogliono smantellare l’Unrwa perché mirano a smantellare i palestinesi e il loro diritto al ritorno, mentre i palestinesi vogliono vedere l’Unrwa smantellata perché, finalmente liberi dal colonialismo sionista, sarebbe per loro possibile ritornare alle proprie case.

Cosa pensa delle attività svolte dal Relatore Speciale sui Territori Occupati? C’è la sensazione che il lavoro di questo profilo sia tanto utile e interessante quanto anch’esso disatteso e, dunque, privo di effetti concreti. Cosa ne pensa?

È importante notare che i Relatori speciali hanno limitata capacità di influenzare il processo di cambiamento. Tuttavia, svolgono un ruolo di rilievo nel coinvolgimento formale delle Nazioni Unite in un discorso serio su ciò che accade nei Territori Occupati. È importante notare che il linguaggio che riferisce al colonialismo d’insediamento non era mai stato usato prima dell'avvento dell’attuale Relatrice speciale. È importante ricordarlo perché tale inquadramento è fondamentale per i palestinesi.

La negazione del colonialismo è tipicamente tramandata nelle istituzioni internazionali e piace vedere invece testimoniata una simile analisi in un rapporto formale. Tuttavia, un piano di non convergenza con l’analisi di Francesca Albanese, attuale Relatrice speciale, è che per i Palestinesi il colonialismo d’insediamento non lo si sconfigge con la legge ma attraverso un processo di decolonizzazione con tutti i mezzi necessari per smantellare il sionismo, con la conseguente restituzione della terra e il diritto al ritorno realizzato.

Il caso promosso davanti alla Corte internazionale di giustizia dal Sudafrica, un Paese del cosiddetto Sud del mondo, è stato di grande importanza storica, ma con scarsi risvolti pratici. Per quali ragioni? Perché la Corte ha emesso solo misure cautelari, peraltro confermate da altre due sentenze, completamente eluse da Israele che ha addirittura risposto incrementando l’attuazione di crimini peggiori?

Il team legale sudafricano ha presentato un caso molto strutturato. Chiunque abbia seguito l’udienza può dire con orgoglio che è stato fatto un importante lavoro legale. Tuttavia, questo è il modo in cui funziona la Corte Internazionale di Giustizia: il suo primo passo consiste in una valutazione che porta a misure provvisorie, piuttosto inutili. Se la questione in ballo riguarda l’attuazione di genocidio, appare davvero ridicolo stabilire che uno Stato debba rispettare la legge per un motivo ritenuto “plausibile” per cui non l’avrebbe rispettata: sicuramente, procedure e tempistiche non sono più importanti di 40mila vite assassinate.

Onestamente, può risultare assurdo a chi non è addetto ai lavori ed è distante dal comprendere tali procedure, ma è ancora più assurdo quando tale procedura si compie nello stesso momento in cui si è testimoni in diretta di un genocidio in corso. Le misure provvisorie della Corte Internazionale di Giustizia si traducono nella richiesta di rispetto del diritto da parte a Israele. Mentre il processo è ancora in corso, il genocidio ha superato il nono mese: la Corte Internazionale di Giustizia abbaia ma non morde.

Si è assistito anche a un significativo gap procedurale nei confronti dei più alti organi delle Nazioni Unite quando l’Iran, in conformità con le procedure del diritto internazionale, ha ufficialmente preannunciato alle autorità competenti l’imminente azione di autodifesa contro Tel Aviv, a seguito dell’attacco israeliano alla sua sede consolare a Damasco. Nessuno al Palazzo di vetro ha intrapreso alcuna azione specificamente tecnica e diplomatica. Dopodiché, istituzioni e non pochi giuristi occidentali hanno qualificato il gesto dell’Iran come illecita ritorsione, rappresaglia piuttosto che legittima autodifesa. Rispetto a quanto più volte operato da Israele, anche in questo caso, sembra concretizzarsi un doppio standard. Cosa commenta?

In poche parole, si tratta di confermate narrazioni egemoniche, razziste e imperialiste. Da quando gli Stati del Sud globale hanno diritto all’autodifesa o le loro azioni vengono inquadrate come tali dai media tradizionali? Si assume come norma che gli Stati del Sud globale o descritti come nemici dell’Occidente non abbiano diritti. Sono fuorilegge perché sono nemici dell’Occidente, non detengono sovranità territoriale, né interessi di sicurezza o diritti sulle loro risorse naturali. Su questo si basa l’ordine mondiale odierno. Come già dicevo prima, è questo lo standard unico, imperialista.

L’azione della Corte Penale Internazionale, con i mandati di arresto emessi dal Procuratore Kharim Khan, ha ricevuto un’eco mediatica che ne ha sottolineato aspetti di autorità ed equità. Anche in alcuni ambienti filopalestinesi vi è stato un certo apprezzamento quando, in realtà, il dispositivo contiene evidenti incongruenze. Alcuni hanno parlato di bothsideism da parte di Khan con l’adozione di una salomonica e strumentale equidistanza dalle parti contrapposte. Si tratta di una procedura, giunta dopo un lungo silenzio e successiva a influenti pressioni americane e israeliane, che prevede il mandato di arresto a carico di due leader israeliani e tre di Hamas. Con i primi non apertamente accusati di genocidio e i secondi accusati anche di stupri ordinati ma non comprovati. Fino a che punto è giustificata l’euforia per questo dispositivo partorito dalla Corte dell’Aia?

Il diritto penale internazionale sostiene la responsabilità individuale e considera il genocidio, ad esempio, come atto di individui piuttosto che di uno Stato. Ciò contraddice alla base la comprensione del colonialismo d’insediamento che è un processo di rimozione forzata delle popolazioni indigene dalla terra sostituiti appunto dai coloni.

Un simile processo non è prodotto da singoli ma dallo Stato colonizzatore, in questo caso “Israele”. È un meccanismo piuttosto semplice: lo Stato colonizzatore per espandersi deve inglobare più terra possibile, sbarazzandosi degli indigeni. Per la Palestina, questo processo è iniziato con il genocidio del 1948, la Nakba. Il genocidio è alla base del processo di costruzione dello Stato del colonizzatore.

Ora, come ci si può limitare a perseguire singoli individui, a partire dal 2002 (anno di istituzione della Corte), per siffatti crimini? La Corte Penale Internazionale ha certamente un punto di osservazione cieco al colonialismo. Accettare questa premessa significa che i Palestinesi devono rinunciare a far valere il crimine di 76 anni di colonizzazione, sfollamento e genocidio.

Lei dice, cioè, che non vi sarebbe competenza della Corte Penale ad agire. Ma, intanto, il procuratore ha preso iniziativa...

Veniamo ai fatti recenti. Il procuratore Karim Khan sostiene di sapere esattamente cosa è successo il 7 ottobre. Bene, cosa è successo? Qualcuno sa dire con certezza cosa sia successo? Certamente, la narrazione egemone e ufficiale si basa su testimonianze diffuse da ambienti sionisti. Ebbene, la maggior parte di quelle testimonianze, se non tutte, sono state screditate. Quindi, come si può sostenere di sapere cosa sia esattamente accaduto? L’indagine è iniziata presentando il 7 ottobre come atto iniziale, a sé stante, mentre l’attacco a Gaza è stato qualificato come risposta a quell’atto. Si tratta semplicemente di un inquadramento al di fuori della storia.

La negazione dei crimini di guerra commessi nel corso degli anni a Gaza, nonostante le varie denunce alla Corte Penale Internazionale da parte dell’Organizzazione Palestinese per i Diritti Umani e dei gruppi legali internazionali, appare decisamente una dichiarazione politica. Decine di giuristi internazionali che si sono occupati degli eventi a Gaza a partire dal 2014 saranno amaramente sorpresi per il fatto che il frutto del lavoro svolto sia stato del tutto ignorato nella ricostruzione effettuata dal procuratore che si è concentrato unicamente sul 7 ottobre e sulle sue conseguenze.

L’ambivalenza di Khan è intenzionale. Mentre il diritto internazionale equipara la violenza dell’occupante a quella dell’occupato, è spaventosa la decisione di Khan di emettere mandati di arresto per Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif e solo due mandati di arresto per gli israeliani Netanyahu e Gallant. In sostanza, ha ribadito il diritto a difendersi di Israele, in contrasto con la posizione di occupante dello stesso. Ha inoltre fatto ampio utilizzo di terminologie come “inaudito”, “devastante” in riferimento ai presunti crimini commessi dai leader di Hamas, mentre ha tenuto invece a confermare il diritto di Israele all’autodifesa.

Il Procuratore della Corte Penale Internazionale non ha poi effettuato sopralluoghi a Gaza, né si è quindi confrontato direttamente con le vittime palestinesi, mentre ha fatto visita a quelle israeliane, raccogliendo le loro testimonianze. Il suo approccio mostra indifferenza nei confronti della sofferenza palestinese e dimostra l’esistenza di un radicato razzismo antipalestinese insito nella Corte Penale Internazionale. Ciò che Khan non testimonia, o sceglie di ignorare e travisare, è che Israele non ha mai dimostrato nella storia alcun rispetto per il diritto internazionale, attaccando a più riprese la Corte Penale Internazionale e contestandone la giurisdizione.

Al contrario, Hamas aveva accolto con favore le indagini, purché imparziali. Questo è quanto accaduto: Khan ha ascoltato le esigenze di “Israele” che non riconosce la giurisdizione della Corte Penale Internazionale mentre si è rifiutato di visitare Gaza nonostante poi la Palestina sia invece firmataria dello Statuto di Roma che ha istituito la Corte da lui presieduta. Oltretutto, Hamas viene ricostruito da Khan come autore di stupri e torture, nonostante l’indagine delle Nazioni Unite abbia negato tali circostanze.

Non c’è bisogno di sottolineare che, al contrario, sono stati i palestinesi a subire sistematicamente crimini di questo tipo, in tempi antecedenti l’inizio del genocidio. In definitiva, la testimonianza palestinese viene ignorata perché ritenuta non credibile per l’islamofobia e il razzismo antipalestinese che permangono nelo status quo.

Come si accennava, la Corte Penale Internazionale è un organismo non riconosciuto da Stati Uniti e Israele. Che tipo di potere reale può avere? Eppure, quando sono stati emessi i mandati di arresto per Putin, gli Stati Uniti hanno encomiato quell’azione. Gli stessi Usa che hanno invece ripudiato l’analogo provvedimento per Netanyahu, minacciando sanzioni e ritorsioni. Classica, arrogante dimostrazione del due pesi, due misure. Come può il diritto internazionale sopravvivere a ciò e divenire qualcosa di diverso e migliore?

Non esistono doppi standard. Torno a ripetere che esiste solo uno standard che distingue tra amici e nemici degli Stati Uniti. Forse non vogliamo inoltrarci in terminologie totalitarie e schmidtiane, ma è innegabile che una volta che questo è chiaro, tutto torna a ricomporsi. Il diritto internazionale, strumento controverso quando è stato emesso il mandato di arresto nei confronti di Putin? È chiaro che in quel caso è divenuto inaspettatamente uno strumento potente e Stati Uniti e Occidente tutto lo hanno applaudito, collegandolo all’adozione di sanzioni e boicottaggi.

D’improvviso, tutte le istituzioni hanno abbandonato la neutralità. Quando invece capita che i meccanismi del diritto internazionale tutelino gli interessi degli oppressi, essi risultano inaccettabili per l’Occidente scatenando persino sanzioni contro la Corte Penale Internazionale. Si tratta di un copione teatrale perché gli Usa non vedono il mandato di arresto contro Netanyahu e Gallant come problema in sé.

Al contrario, potrebbe essere la modalità mediante cui salvare l’entità sionista, con Netanyahu capro espiatorio perché non più utile all’impero e ai suoi interessi. Il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale sta funzionando come dovrebbe: ridurre la giustizia a perseguire singoli individui. Se dovessimo entrare nel dibattito relativo alla responsabilità individuale, potremmo ricordare vari problemi di deterrenza, criteri oscuri per l’identificazione delle persone e molto altro. Non è la prima volta che il procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan agisce come agente degli Stati Uniti. Come anche stavolta.

Lei continua a descrivere uno sconfortante quadro giuridico internazionale pesantemente condizionato da biechi interessi, tracotanza, potere. Ma esiste anche una coscienza e una sviluppata cultura critica giuridica in Palestina: quali azioni sono state intraprese?

Mi sovviene la teoria dell’egemonia di Gramsci e di come l’egemonia si esercita attraverso coercizione e consenso. La narrativa egemonica sionista relativa al 7 ottobre è stata esercitata conferendo al mandato di arresto della Corte Penale Internazionale una parvenza di obiettività da indagine imparziale che ha raccolto il consenso di coloro che hanno gioito per il mandato di arresto di Netanyahu e Gallant.

Sebbene molti palestinesi siano stati felici di vedere finalmente uno spiraglio di azione da parte delle istituzioni e della Corte penale internazionale in particolare, dopo oltre 76 anni di colonialismo, tengo a ribadire come la Corte penale internazionale non fosse nelle condizioni di comprendere le richieste di emancipazione palestinese. Quei sentimenti di gioia osservati, invece, possono essere compresi secondo due direttrici: il sedimentato pessimismo circa il reale superamento dell’ordine mondiale imperialista statunitense con l’ingiustizia inflitta ai Palestinesi e lo spirito di Ong per i diritti umani istituite dopo gli accordi di Oslo che assorbono il linguaggio del diritto internazionale quale strumento di giustizia.

Ong palestinesi e avvocati internazionali che hanno esultato dopo aver assistito al dibattimento presso la Corte Internazionale di Giustizia o ascoltando la lettura del mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale, sperimentano forse una o entrambe le direttrici sintomatiche a cui accennavo. Si tratta di pragmatismo o, meglio e più semplicemente, nichilismo.

Rifiutare di immaginare una Palestina libera e decolonizzata dal fiume al mare o di guardare alla giustizia per i palestinesi attraverso la lente della decolonizzazione, è nichilismo.

Per questi soggetti, il diritto internazionale è credibile e rispettabile. Può essere imperfetto ai loro occhi, ma è la lente mediante il quale definire la loro umanità. È disumanizzante credere che sia utile quello stesso strumento che rifiuta di difendere efficacemente il proprio diritto di resistenza. La politica “rispettabile” in tal senso è nichilismo. Credere in uno stato di diritto sotto l’ordine imperialista unipolare è nichilismo. Sembra contraddittorio chiamare nichilismo la fede nel diritto internazionale e nelle sue istituzioni ma parliamo della negazione di ogni legittimo impulso a cambiare questo mondo ingiusto e crudele, a combattere l’imperialismo e a unirsi a forze che lo fanno attivamente. Rinunciarvi o negarlo, è l’abbandono della propria integrità: cosa rimane dopo? Per i palestinesi, la propria integrità è al di sopra dell’ordine mondiale.

Dottoressa Abu Zuluf, si può sostenere che le istituzioni giuridiche internazionali svolgano un ruolo funzionale nel mantenimento di un ordine mondiale unipolare e imperialista?

Da palestinese, la vedo così. Ancora una volta, le istituzioni di diritto internazionale non “mordono”. Gli Stati detengono il potere di far rispettare il diritto internazionale umanitario. Gli Stati Uniti lo fanno rispettare secondo convenienza. In definitiva, il diritto internazionale è uno strumento utile in mano ai potenti. Se si è deboli, e in pratica tutti gli Stati sono più deboli dell’impero statunitense nella loro capacità di creare e applicare norme nella più completa impunità, il diritto internazionale viene interpretato senza propri contributi e applicato solo quando è strategicamente necessario all’impero e ai suoi alleati.

Volendo essere cinici, il mandato della Corte Penale Internazionale non sarebbe mai stato emesso se gli Stati Uniti non avessero voluto sbarazzarsi di Netanyahu e Gallant. Netanyahu è visto ormai come impopolare e avventato e incolparlo è il modo per salvare l’entità sionista e gli interessi degli Stati Uniti in un momento in cui milioni di persone marciano nelle strade chiedendo una Palestina libera dal fiume al mare.

C’è un dibattito, un piano, all’interno di organismi che si occupano di diritto internazionale per una sua riforma e profonda riorganizzazione?

Al di fuori degli organismi istituzionali, emergono vari gruppi critici nei confronti del diritto internazionale. Ad esempio, gli Approcci del Terzo Mondo al Diritto Internazionale (Twail) e vari altri filoni portatori di un confronto variamente critico rispetto alla situazione vigente. Alcuni considerano il diritto internazionale prezioso nonostante i suoi difetti, altri lo considerano implicato nell’ordine mondiale capitalista imperialista e del tutto inutile nelle lotte indigene di decolonizzazione.

La riforma del diritto internazionale è controversa e ci sono varie proposte per renderlo più utile. Alcune sono dottrinali, altre procedurali e altre ancora mirano a rafforzare la regola del diritto internazionale. Una decina di istituzioni hanno come obiettivo la riforma del diritto e alcune si occupano di aree specifiche come nel caso del diritto internazionale degli investimenti e così via.

L’Alleanza Bolivariana per le Americhe (Alba) è promettente per supportare le istanze a favore di un diritto internazionale basato sulla solidarietà, che prenda le distanze dal diritto internazionale eurocentrico e quindi passare al diritto internazionale emancipatorio. In tal senso, è immaginabile un diritto internazionale diverso, una volta eliminate le premesse di false “neutralità, equità e universalità” (si veda in proposito il lavoro di Al Attar e Miller, 2010). Queste sono sostituite da autonomia, solidarietà ed equità.

La parola chiave è, appunto, sostituzione, proprio a suggerire una rinascita, qualcosa iniziato dai princìpi della rivoluzione bolivariana. Sembra promettente in un mondo post-coloniale, dove la decolonizzazione è complementare e non radicata in una lotta esistenziale per la terra contro un ininterrotto colonialismo d’insediamento.

Per quanto concerne la Palestina, non abbiamo bisogno del diritto internazionale per lubrificare le ruote della decolonizzazione o giustificare la necessità di liberare dal sionismo la nostra terra, dal fiume al mare. La moralità dell’anti imperialismo, dell’anticapitalismo e dell’antirazzismo è sancita dalla resistenza indigena e dalla re-immaginazione di una Palestina e di un Sud globale liberi, non da nozioni teoriche di governance alternativa. Mohsen al Attar ha anche scritto di come la “doppia coscienza” di W.E.B. Du Bois possa scorgersi in coloro che criticano ferocemente il diritto internazionale e, al tempo stesso, ne sono riluttanti difensori. Lo stesso vale per i professionisti palestinesi del diritto internazionale che vedono orizzontalità nel diritto internazionale nonostante le numerose prove della sua verticalità.

Una di queste è la dicotomia tra colonizzatore e colonizzato o, nei termini rigorosi di diritto internazionale, tra ”occupante e occupato”. Per i Palestinesi sotto le macerie, la reputazione del diritto internazionale è in frantumi. Se il diritto internazionale non può fermare il genocidio, a cosa serve? Dobbiamo lottare per creare modi migliori per “regolare” il mondo quando è stato strutturato un sistema a strati che prevede determinate umanità da proteggere opposte a popoli “usa e getta”? C’è qualcosa che sia più urgente e rilevante che non fare tutto il possibile per fermare un genocidio? Sicuramente la Corte Internazionale di Giustizia non avverte tale urgenza, mentre intorno a essa si svolge un genocidio inconfutabile. Possiamo riformare l’intrinseco razzismo antipalestinese del diritto internazionale, la demonizzazione della resistenza, l’islamofobia?

È un compito arduo quando, invece, dovrebbe essere semplice. Il colonialismo d’insediamento richiede decolonizzazione, non la protezione limitata e la pseudo-giustizia del diritto internazionale.

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