Negli ultimi tempi, molti discutono dell’inizio della fine del sionismo, si tratta del presagire qualcosa che è pressoché certo. Una simile osservazione può essere paragonata alla battuta di Mark Twain secondo cui la notizia della sua morte sarebbe stata parecchio esagerata; tuttavia, c’è qualcosa di più in questa storia che non una futile iperbole.
Con un Pianeta già afflitto dall’eccesso di inquinamento, surriscaldato in modo irreparabile e su cui incombe una morte prematura causata dalla società, l’estinzione progressiva di tutte le comunità non è più un esagerato pronostico. È un processo irreversibile, a meno che la società globale non si assuma il compito di riorganizzare il rapporto dell’Uomo con l’Uomo e dell’Uomo con la Natura, cosa che implicherebbe il ripristino dei beni comuni globali e/o l’eliminazione della proprietà privata.
Quel “lungo termine” dell’enunciato “nel lungo termine saremo tutti morti” è dunque qui e ora. Il capitale, il rapporto sociale che controlla la riproduzione della società, de-riproduce la stessa ricorrendo a guerra, austerità e inquinamento per generare profitti.
Lottare contro il capitale e le strutture che lo innervano e afferenti alle organizzazioni occidentali significa lottare per l’eliminazione della proprietà privata, sinonimo di capitale, poiché – proprio come il capitale – essa esclude la società dal frutto del suo lavoro.
Per porre fine a questo disastro incrementale, le classi lavoratrici di tutto il mondo devono unire le loro forze per colpire con tutti i mezzi possibili le strutture militari e ideologiche dell’imperialismo, quegli edifici sociali che realizzano le brame capitaliste di profitti raggiunti a ogni costo.
Tuttavia, il capitale acquista forza quanto più divide le classi lavoratrici o il lavoro stesso. La divisione più profonda che alimenta il rapporto di capitale si attua quando segmenti delle classi lavoratrici abbracciano filoni ideologici sciovinisti che giustificano la de-riproduzione delle classi lavoratrici del Sud a ritmi più elevati proprio per soddisfare profitti crescenti.
L’ideologia del colonialismo d’insediamento, a lungo dominante nella concezione occidentale, comporta un livello superiore di divisione del lavoro e, per converso, un potenziamento della forza del capitale.
Il sionismo è un’ideologia del colonialismo d’insediamento, progenie dell’ideologia coloniale e, quindi, imperialista.
Si tratta quindi di un’estrema forma di capitale rappresentata nelle sue strutture del Nord. L’insediamento e lo sterminio dei popoli nativi, considerati inferiori, sono centrali nel pensiero europeo. John Locke, filosofo del liberalismo, sosteneva la fine della schiavitù, eppure lui stesso aveva schiavi al servizio perché assertore del fatto che barbari indisciplinati dovessero essere ridotti in schiavitù in quanto minaccia per l’Occidente liberale e democratico.
Il liberalismo è alla base della politica sciovinista e la spiegazione logica che offre della schiavitù, celata dalla facciata della libertà individuale, in ciò consiste: i profitti non possono essere realizzati senza sfruttamento e lo sfruttamento richiede repressione le cui forme finali consistono in genocidi strutturali e diretti, giustificati da un’identità sociale superiore rispetto a quella delle masse vittime del genocidio stesso.
Il liberalismo riduce soggetti storici a individui astratti piuttosto che a classi sociali e relative forme di organizzazione sociale. Non si interroga sul perché le masse private dei loro beni comuni e dei loro prodotti sociali debbano lottare per reclamare quegli stessi beni ma semplicemente parte dalla nozione che l’individuo possiede una proprietà dei cui diritti lo Stato è tutore. Dopo tutto, i profitti, che si trasformano in proprietà privata, non aumentano perché si compra a poco e si vende a caro prezzo. Ciò accade poi nei libri contabili e nei tempi che i capitalisti escogitano.
I profitti aumentano perché il Nord ha potuto imporsi al Sud, privarlo della sovranità e fissare il prezzo del suo lavoro e delle sue risorse a livelli molto bassi. Per ottenere maggiori profitti, il Sud, qui inteso come formazione di classe trasversale, deve essere percosso esponenzialmente, fino alla sottomissione perché i costi diminuiscano e i profitti aumentino. I prezzi a buon mercato si ergono sulle spalle di persone ormai troppo sconfitte, impossibilitate a negoziare.
La de-riproduzione del Sud deve essere parametrata alle possibilità di una vita migliore nel Nord e in relazione al progresso scientifico della specifica epoca di riferimento. Il tempo, dopo tutto, è il tempo sociale qualitativo rapportato al passato se, e solo se, vengono accettati molti presupposti estremamente restrittivi circa il metodo di misurazione.
Così inquadrato, il sionismo è la quintessenza dell’imperialismo e del drenaggio di ricchezza verso l’emisfero settentrionale. Si tratta di una base di potere all’interno del Terzo Mondo che ha lo scopo di disarmare le masse del Terzo Mondo.
Disarmare una persona o una nazione significa ridurla a un determinato grado di schiavitù. Si tratta di una condizione essenziale, ontologica per il capitale: soggiogare e schiavizzare il Terzo Mondo per ottenere profitti è il modo riproduttivo dell’Emisfero Nord con i suoi eserciti costitutivi. Affermare dunque che il sionismo stia dissolvendosi equivale a dire che il capitalismo nella sua fase imperialista sta per estinguersi.
Ciò è qualcosa a cui assistiamo con l’ascesa della Cina e del mondo multipolare.
L’Occidente con i suoi avamposti militari, come Taiwan e “Israele”, sta svanendo. La disperata iniziativa genocida a Gaza testimonia il declino di “Israele”. La rivista The Lancet stima che l’8% della popolazione è stata o sarà sterminata, mentre i dati delle Nazioni Unite dimostrano che più della metà delle infrastrutture di Gaza è andata distrutta.
Nonostante le cause legali intentate contro “Israele” nei tribunali internazionali, si accresce tra gli israeliani la tendenza al consenso e alla simpatia per l’azione genocida. Ciò dimostra come questi gruppi siano semplicemente incarnazioni del capitale, non già classi lavoratrici con potenziale rivoluzionario; proprio come le classi lavoratrici del Nord, il cui potenziale consiste nell’annientamento del Sud.
Nonostante il regime israeliano sembri mantenere il controllo sulle vittime, la maggior parte delle persone uccise a Gaza sono civili. Eppure, la Resistenza non mostra segni di stanchezza, come osservato dagli stessi esperti israeliani che riconoscono apertamente le rinnovate capacità dei resistenti.
La lotta degli arabi palestinesi è una lotta per il diritto al ritorno, sin dal 1948.
Questa persistenza della lotta delegittima l’idea che “Israele” sia di per sé uno Stato, anche al di là delle linee di separazione territoriale del 1948. Dopo tutto, uno Stato deve garantire l’ordine su un territorio designato, cosa che “Israele” non ha realizzato e non può realizzare dal momento che la lotta per la liberazione della Palestina coincide con quella del proletariato internazionale per l’emancipazione.
Mentre nessuno degli obiettivi di “Israele” a Gaza è stato raggiunto, il suo obiettivo di distruzione della regione continua senza sosta. Per quanto riguarda le minacce esistenziali, sviluppo e aspettativa di vita nella regione sono diminuiti rispetto al loro potenziale a causa della guerra imposta da “Israele”.
Basta guardare il divario nell’aspettativa di vita tra arabi e israeliani per capire che gli arabi sono colpiti dalla riduzione del potenziale in termini di anni di vita futura e di un’esistenza migliore.
Nel frattempo, gli sforzi diplomatici per una normalizzazione regionale sono naturalmente falliti e il regime ha gravemente danneggiato la propria immagine morale a livello globale. L’accordo di normalizzazione saudita-israeliano è – né più, né meno – sospeso per l’imbarazzo generatosi, soprattutto perché nel conflitto di classe regionale i regimi arabi reazionari si confermano partner del sionismo.
Qualsiasi lotta politica nel mondo musulmano si trasforma in una lotta che pone al centro la questione palestinese, semplicemente perché le masse riconoscono che le classi reazionarie condividono lo stesso modello di potere del sionismo-imperialismo.
Il prolungamento e l’allargamento della guerra con “Israele” dimostrerà che “Israele” e gli Stati Uniti non sono invincibili, mentre l’immagine della forza dei regimi reazionari al potere andrà in frantumi, spalancando le porte alle rivolte popolari.
Tuttavia, “Israele” rifiuta di venire a patti con la sua inevitabile sconfitta. L’Occidente potrebbe persino accettare una soluzione a due Stati con una Palestina governata da gruppi politici che non chiedono l’abolizione del capitale.
L’attuale leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ad esempio, non invita le masse del mondo arabo a organizzarsi in cellule rivoluzionarie per attaccare gli interessi occidentali e i regimi arabi nelle capitali islamiche, il che dimostra che il suo orizzonte si colloca ben al di sotto di ogni aspettativa divenendo dunque accettabile per l’Occidente, il cui obiettivo finale è sconfiggere la Cina “pagana”, nemico potenziale e comune.
Pertanto, la coalizione di forze capitaliste di vario stampo ideologico e identitario aderenti al diktat del rapporto di capitale avverso alla Cina è un risultato possibile a meno che, per ribaltamento dialettico, la lotta prolungata contro il sion-imperialismo non sinergizzi con la coscienza antisistema per rovesciare le identità pro-sistema erette dal capitale.
Originariamente concepito come una fortezza avanzata dell’Impero, “Israele” ha dimostrato di essere una passività strategica incapace di minima autodifesa. La sua brutalità televisiva, tuttavia, sembra un boccone indigesto per il pubblico occidentale che chiede lo sterminio degli arabi per una questione di sopravvivenza e però, al tempo stesso, non ama vedere quella carne che consuma, macellata davanti ai propri occhi.
In guerre precedenti, “Israele” tendeva a impiegare la guerra psicologica per soggiogare la resistenza ma tali tattiche terroriste non funzionano più e l’elemento paura sembra essere approdato, e giustamente, sul fronte israeliano. È piuttosto un imperativo storico che “Israele”, in quanto formazione di colonialismo d’insediamento, scompaia, poiché la sua sussistenza è essa stessa l’esistenza del capitalismo che ha portato l’umanità a un punto di non ritorno.
Non scomparirà per mano della crescente ondata di forze antisioniste che si sviluppano all’interno di “Israele”, dal momento che non è possibile che il capitale incarnato dai sionisti possa rivoltarsi contro se stesso in un atto suicida. Svanirà quando la marea rivoluzionaria globale porterà alla sua dissoluzione.
La motivazione di “Israele” quale forza progressista in una regione sottosviluppata non è altro che una chimera. A questo punto, quando il progresso sostenuto dalla missione civilizzatrice altro non è che un pianeta destinato a crollare per le stesse leggi del capitale, la foglia di fico che giustifica l’eliminazione del selvaggio non può più nascondere il fatto che la civiltà occidentale, cioè la civiltà del capitale opposta all’ascesa del Sud, è essa stessa oltremodo barbara.
In questo momento, per “Israele” capitolare e accettare di attuare un cessate il fuoco permanente equivale alla sconfitta definitiva di tutti i regimi reazionari. L’agitazione politica di “Israele” riflette le profonde divisioni tra le classi capitaliste occidentali, particolarmente evidenti negli Stati Uniti dove i democratici che sostengono “Israele” sono strategicamente più saggi dei repubblicani che cercano una guerra con la resistenza che potrebbe far capitolare le conquiste degli Stati Uniti conseguenti alla Primavera Araba.
Una guerra più ampia e a lungo termine prefigura una sconfitta certa dell’impero nella regione araba e sicuramente le perdite si estenderanno a tutti i Paesi in via di sviluppo che vedono nella debolezza dell’impero l’opportunità per liberarsi dell’insaziabile accanimento della barbarie occidentale.
Un regime idiota a guida Trump sarebbe molto più vantaggioso per il Sud del mondo di quanto non lo sarebbe uno sotto la guida di imperialisti esperti di deep state e della classe capitalista.
Il razzismo è insito nel capitale. La politica statunitense e quella israeliana sono quindi intrinsecamente razziste. I teorici critici possono sostenere che il contenuto del discorso riflette un odio profondo verso i palestinesi, ma – sostengono – ci si deve ricordare che in regime di capitale, le identità hanno un prezzo proprio come le merci.
Di conseguenza, il consumo di vite palestinesi e israeliane alimenterebbe la macchina da guerra esattamente allo stesso modo. Tuttavia, idee così generiche occultano le differenze di classe tra israeliani e palestinesi. Gli israeliani, al pari delle classi lavoratrici del Nord, non costituiscono soltanto forme del capitale, ma sono l’incarnazione stessa del capitale. Danno vita alla forma fisica del capitale che riproduce se stessa massacrando il Sud. Non può esserci alcuna attività condivisa che equipari i coloni ai nativi e nessuna coabitazione con i coloni poiché i primi divorano i secondi. La teoria critica è dolosa perché elude la questione dell’imperialismo per cui il rapporto tra capitale e lavoro è realmente un rapporto tra Nord e Sud. Non è anomalo che gli europei sostengano la guerra contro la Russia e il novanta percento degli israeliani sostenga il genocidio degli arabi.
In quanto capitale, queste classi sono consapevoli del fatto che devono mantenere il potere anche a costo di una sofferenza economica intermittente per ottenere una redditività a lungo termine.
In quanto capitale, esse antepongono il potere a tutto. L’idea che arabi e israeliani possano vivere in pace non è altro che una farsa, una contraddizione tale destinata a concludersi con la dissoluzione del sionismo.
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