Sin dalla risoluzione 242 del 1967, l’ONU ha dichiarato l’occupazione dei territori conquistati da Israele ai tempi della Guerra dei Sei Giorni assolutamente illegale. Ogni richiamo al rispetto di questa delibera del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite è finito sempre inascoltato.
Visto il rilancio del colonialismo di insediamento, accelerato dopo il 7 ottobre 2023, l’Assemblea ONU ha deciso di chiedere alla Corte Internazionale di Giustizia un nuovo parere consultivo. Ancora una volta, è stato intimato a Tel Aviv di porre fine all’occupazione della Cisgiordania, delle alture del Golan, di Gerusalemme Est e di Gaza.
Questo scempio del diritto internazionale, tanto osannato in Occidente quando si tratta di condannare coloro che non sono nostri alleati, dura da quasi sessant’anni, ma le dichiarazioni della Corte sembrano addirittura aver sortito l’effetto contrario. Non c’è nessuna intenzione di evacuare i coloni, né di risarcire i danni, come richiesto dai giudici dell’Aja.
Il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir e quello delle Finanze Smotrich (che è un rappresentante politico dei coloni) hanno rilanciato chiedendo l’annessione diretta di ampie porzioni della Cisgiordania. Anche Benny Gantz, da poco dimessosi dal gabinetto di guerra, sottolinea come questo parere sia un’ingerenza esterna inaccettabile.
Ma forse ancor peggio ha fatto il primo ministro Netanyahu: “il popolo ebraico non è conquistatore nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria”. Dichiarazioni che palesano tutta la carica millenaristica ed etnico-religiosa di cui è ammantato il progetto sionista.
Progetto che prevede costituzionalmente la pulizia etnica del popolo palestinese e l’affermazione dello Stato Ebraico. La recente votazione della Knesset israeliana, che con una maggioranza schiacciante ha vietato la formazione di uno stato palestinese non fa che confermare questa intenzione.
Un pronunciamento del genere dovrebbe interrogare le cancellerie euroatlantiche sulla possibilità di continuare la retorica del “due popoli, due stati”, di cui i vertici di Tel Aviv sono i primi oppositori.
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