Dal Niger, che sta cercando di creare un blocco regionale insieme a Mali e Burkina Faso, sono giunte nei giorni scorsi due conferme del tramonto dell’egemonia occidentale sulla regione africana del Sahel.
Mentre il contingente italiano – 250 militari – inquadrato nella Missione Bilaterale di Supporto (Misin) continua la sua collaborazione con le forze armate di Niamey, impegnate a reprimere l’insorgenza jihadista, dopo la cacciata delle truppe statunitensi e francesi nelle prossime settimane toccherà anche a quelle tedesche tornare a casa.
Via anche i soldati tedeschi
I negoziati in corso dalla fine di maggio tra il governo tedesco e la
giunta militare nigerina per un rinnovo della cooperazione militare tra i
due paesi non sono infatti andati a buon fine, perché – secondo
indiscrezioni – il Niger avrebbe rifiutato di concedere l’immunità ai
militari di Berlino.
Il 6 luglio il governo tedesco ha informato che i soldati della Bundeswehr, quindi, dovranno abbandonare la base aerea di Niamey che occupavano entro il prossimo 31 agosto.
Negli ultimi anni i membri della Bundeswehr avevano aiutato i colleghi nigerini a realizzare alcuni centri di addestramento, in particolare nel nord-est del paese vicino al confine con il Mali.
Nel paese erano rimasti sono una quarantina di militari tedeschi, ma si tratta comunque di un segnale inequivocabile sugli orientamenti del governo militare impostosi grazie al colpo di stato del 26 luglio 2023.
Già a marzo il leader del cosiddetto governo di transizione, Abdourahamane Tchiani, aveva dichiarato illegale la presenza nel paese delle truppe statunitensi che hanno dovuto ritirarsi dall’aeroporto di Niamey e da parte della base nella città settentrionale di Agadez nel corso del primo fine settimana di luglio. L’accordo firmato a maggio prevede che l’ultimo dei quasi mille soldati statunitensi lasci il Niger entro il 15 settembre 2024.
Il consistente contingente francese – in totale più di 1500 uomini – ha invece dovuto ritirarsi completamente dal paese africano già nel dicembre scorso.
Niamey guarda a Mosca
Al posto dei paesi occidentali, nella lotta contro i gruppi armati legati ad Al Qaeda e a Daesh, Tchiani ha scelto di affidarsi a Mosca.
Ad aprile hanno cominciato ad arrivare a Niamey i primi istruttori
militari russi accompagnati da grossi quantitativi di armi e sistemi
logistici.
Contemporaneamente, la giunta militare ha affidato alcune operazioni di contrasto ai jihadisti e di addestramento delle proprie truppe ai mercenari dell’African Corps, compagnia militare privata succeduta alla Wagner e strettamente controllata dall’amministrazione russa.
Nei giorni scorsi la cosiddetta “Casa russa” ha inaugurato la propria sede a Niamey, con il compito di aumentare la cooperazione culturale ed economica tra i due paesi.
Mercenari siriani per conto della Turchia
Ma la presenza militare di Mosca evidentemente non basta, e la giunta
militare nigerina intende differenziare le proprie alleanze lasciando
spazio agli appetiti di Erdogan.
Le indiscrezioni erano già filtrate nei mesi scorsi, ma nelle ultime settimane sembrano arrivate conferme sostanziali sul fatto che in Niger sono stati già schierati ben 1100 combattenti siriani.
I mercenari provenienti dal paese arabo sono stati reclutati, di fatto, su iniziativa della Turchia nei territori nord-occidentali della Siria, occupati ormai da qualche anno dalle truppe di Ankara.
I mercenari del cosiddetto “Esercito Nazionale Siriano” vengono impiegati soprattutto per sorvegliare miniere, installazioni petrolifere, depositi di carburante e di armi e per proteggere le imprese turche operanti nel paese. Alcuni però sarebbero stati coinvolti in scontri con i miliziani jihadisti e avrebbero perso la vita, mentre una parte sarebbe stata di fatto subappaltata a Mosca e trasferita in alcune basi dell’esercito russo o dell’African Corps.
Ad occuparsi del trasferimento in Sahel dei mercenari siriani sarebbe stato il gruppo paramilitare turco Sadat, che ha permesso finora al presidente Recep Tayyip Erdogan di intervenire in alcune aree che la sua agenda neo-ottomana ritiene interessanti senza coinvolgere direttamente le forze armate di Ankara.
Parigi perde il suo uranio
La presenza militare russa e turca si accompagna ad una sempre maggiore penetrazione in Niger delle imprese dei due paesi.
A farne le spese, ancora una volta, gli interessi economici e geopolitici occidentali. È stata soprattutto la Francia a perdere contratti milionari e strategici, come quelli per l’estrazione dell’uranio che alimenta le sue centrali nucleari.
Il 20 giugno scorso la multinazionale energetica statale francese Orano ha annunciato la revoca da parte delle autorità di Niamey dei permessi di sfruttamento della miniera di Imouraren, nel nord del paese, considerata tra le più grandi del mondo.
L’estrazione del minerale dal sito da parte di Orano, che possedeva il 63% delle quote di un’impresa controllata locale (la Société des mines de l’Aïr), avrebbe dovuto iniziare nel 2015 ma il crollo del prezzo dell’uranio dopo il grave incidente di Fukushima aveva convinto a rimandare l’apertura, in attesa di tempi migliori.
Lo stop della giunta militare nigerina è arrivato proprio mentre stavano per riprendere le attività e le prime squadre di operai erano tornate nelle gallerie.
La decisione di revocare a Orano la licenza è arrivata pochi giorni dopo che il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria – così si è ribattezzata la giunta golpista – aveva intimato all’impresa francese di iniziare lo sfruttamento del sito entro il 19 giugno, ben sapendo che sarebbe stato impossibile.
Nel frattempo alcune indiscrezioni, per ora non confermate, affermano che la miniera di Imouraren potrebbe essere affidata alla compagnia statale russa Rosatom.
Nel 2022 il Niger forniva un quarto dell’uranio necessario per il funzionamento delle centrali nucleari in Europa, dietro al Kazakistan e davanti al Canada.
Il Niger nazionalizza il petrolio
Alla fine di giugno, intanto, il primo ministro nigerino Ali Mahamane
Lamine Zeine ha dato il via alla fase 2 del progetto Agadem che punta a
nazionalizzare l’estrazione e la commercializzazione del petrolio, che
nel paese si estrae dal 2011.
Nelle ultime settimane, però, il Fronte Patriottico di Liberazione – un gruppo armato che si oppone all’attuale regime – ha più volte sabotato l’oleodotto che si estende per 2 mila chilometri collegando il giacimento di Agadem con la costa del Benin.
Il leader del movimento, Mahamoud Sallah ha rivendicato i sabotaggi chiedendo la liberazione del presidente deposto, Mohamed Bazoum, e l’annullamento del prestito di 400 milioni di dollari elargito dalla China National Petroleum Corporation in cambio dei diritti di commercializzazione del greggio.
Nessun commento:
Posta un commento