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31/05/2025

L'innocenza (2023) di Hirokazu Kore'eda - Minirece

Tropici Americani

di Ferdinando Fasce

Marco Mariano, Tropici americani. L’impero degli Stati Uniti in America Latina nel Novecento, Einaudi, Torino, 2024, pp. 282, euro 29,00

Capita che libri seri, frutto di anni di lavoro, rischino di passare per instant book. È il caso di questo bel volume dell’americanista torinese Marco Mariano. Lo ha reso tale la politica trumpiana su Panama, intessuta dei “vaneggiamenti tardo-imperiali” propri della strategia estera del tycooni. La annunciava già il discorso di insediamento del 20 gennaio 2025, con la frase lapidaria per cui “La Cina sta gestendo il Canale di Panama. Noi non lo abbiamo dato alla Cina, ma a Panama, e ce lo riprendiamo”. Alla dichiarazione, che alludeva ai due terminali di Panama gestiti dall’impresa di Hong Kong CK Hutchison, è seguita una complessa vicenda che ha visto una cordata guidata dal fondo statunitense BlackRock, con all’interno il colosso dello shipping ginevrino Mediterranean Shipping Company, acquisire i due terminali da CK Hutchison. Vicenda complessa perché, nonostante il grido di vittoria di Trump nel discorso alle Camere del 4 marzo, nel quale annunciava il buon esito dell’operazione di acquisizione dei terminali della Hutchison, a fine aprile 2025 la questione pareva ancora aperta, entro il contenzioso a tutto campo che oppone Stati Uniti e Cinaii. In attesa di vedere come andranno le cose, il lavoro di Mariano chiarisce il significato simbolico della mossa trumpiana. Proprio da Panama prese corpo a inizio Novecento un impero statunitense emisferico, base di una proiezione globale di Washington. Un impero originale, rispetto ai modelli precedenti, perché “internazionale”, volto a produrre ordine non attraverso il dominio diretto, ma il coordinamento di Stati-nazione legittimi e sovrani e la promozione e gestione delle connessioni tra loro. E di connessioni, inserendosi nella recente tendenza storiografica “infrastrutturale”, si occupa il libro di Mariano, con una serie di originali carotaggi, basati su una ricca documentazione d’archivio, aperti dal capitolo su Panama.

Infrastruttura-chiave per il controllo delle Americhe perché riduceva la distanza da New York a San Francisco da quasi 23000 a 8000 chilometri, Panama era cruciale nel progetto di egemonia regionale americana che, sull’onda della “splendida piccola guerra” del 1898 per l’indipendenza cubana contro la Spagna, proseguiva verso meridione la spinta espansionista ottocentesca della “conquista del West” e del genocidio dei nativi. Approfittando delle rivalità interimperiali, gli Stati Uniti si sostituivano all’impero informale inglese in America Latina e, soprattutto, ai Francesi (che con l’ingegnere-imprenditore Ferdinand de Lesseps, l’uomo di Suez, avevano progettato di costruire una nuova Suez nei Caraibi) nell’edificazione del canale. Carta vincente, secondo la logica dell’impero internazionale, il sostegno degli Usa, in nome della propria tradizione anticoloniale della rivoluzione del 1776, alle istanze di indipendenza delle élite panamensi verso la Colombia, cui Panama apparteneva. Salvo però ridurre a nulla o quasi l’influenza della neonata repubblica nella costruzione e nel controllo del canale. Costruzione che, a dispetto di quanto dichiarato da Trump il 4 marzo, non vide morire migliaia di operai americani (“un tremendo costo di sangue americano”), ma lavoratori in larga parte migranti, inclusi molti italiani. E salvo fare di questo territorio una sede privilegiata di basi militari statunitensi. Tanto che allo scoppio della Seconda guerra mondiale la Repubblica di Panama, poco più grande dell’Irlanda, ospitava 134 siti militari Usa.

Solo l’onda della decolonizzazione degli anni sessanta e settanta avrebbe portato, con Jimmy Carter, al trasferimento a Panama del controllo del canale. Un successo economico, ha scritto su Time Julia Greene, autrice di un classico sulla costruzione del canaleiii. Il canale, dice Greene, oggi “funziona meglio e in maniera più sicura di quanto avvenisse sotto il controllo degli Stati Uniti”. E le “rivendicazioni di Trump... sono basate su una visione della storia romanzesca e fondamentalmente ingannevole”iv. Ma mettendo da parte Panama e il suo riproporsi, a un secolo dall’apertura del canale, come test per il “Make America Great Again la Vendetta”, segnaliamo al lettore in estrema sintesi gli altri quattro capitoli del libro. Il secondo esamina l’uso dell’aviazione civile (Pan Am Airways) quale tassello dell’integrazione logistica dell’impero emisferico. Il terzo illustra la breve fase egemonica degli anni trenta e quaranta, all’insegna del “buon vicinato” rooseveltiano, della crescente assertività latinoamericana e di un multilateralismo panamericano made in Usa cementato dal secondo conflitto mondiale. Per poi approdare, attraverso i piani di “modernizzazione” dell’Alleanza per il Progresso dei primi sessanta entro una guerra fredda che vede l’emisfero perdere centralità nei disegni di Washington (quarto capitolo), all’“impero sotto sorveglianza”, di natura eminentemente militare, dei settanta e ottanta (ultimo capitolo). Che chiude il cerchio, con l’operazione militare di Bush sr. contro la Panama dell’ex pupillo yankee Daniel Noriega.

Note 

i M. Del Pero, Dopo tante profezie il declino americano è ormai realtà, in Domani, 19 aprile 2025.

ii Trump, China Ramp Up Panama Canal Pressure With Li Deal in Limbo, in Bloomberg, April 27, 2025 https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-04-27/china-tells-parties-in-ck-hutchison-deal-not-to-evade-review, acc. 30 aprile 2025.

iii The Canal Builders: Making America’s Empire at the Panama Canal, Penguin, New York, 2009.

iv J. Greene, Trump’s Talk of the Panama Canal Taps Into Old Myths About U.S. Power, in Time Made by History, January 22, 2025, https://time.com/7205889/panama-us-myths-trump/, acc. 25 gennaio 2025.

Fonte

Le armi che Israele sta usando a Gaza

A seguito della testimonianza sconvolgente del medico greco Christos Georgalas, volontario all’ospedale Nasser di Khan Younis, emergono dettagli inquietanti sull’uso di armi altamente distruttive da parte dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.

Ecco una panoramica delle armi più frequentemente documentate e delle loro caratteristiche.

1. Bombe a frammentazione micrometrica

Rilasciano migliaia di micro-frammenti metallici a velocità altissima.

I danni sono quasi invisibili all’esterno, ma devastanti all’interno del corpo.

Usate per colpire vaste aree, anche in zone densamente popolate.

Spesso identificabili nei bambini con “piccole ferite al collo” e organi interni completamente distrutti, come testimoniato da Georgalas.

2. DIME – Dense Inert Metal Explosive

Bombe sperimentali con particelle di metallo pesante (come tungsteno).

Causano amputazioni istantanee, ferite profonde e bruciature senza distruggere edifici.

Il tungsteno può causare cancro nel lungo termine.

Considerate armi “a corto raggio” ma letali per i civili.

3. Flechette

Minuscole freccette metalliche contenute in bombe o proiettili.

Una singola munizione può contenerne fino a 8.000.

Provocano ferite interne gravissime e sono indiscriminate.

Vietate in molte circostanze dal diritto internazionale.

Usate da Israele a Gaza già nel 2008, 2014 e secondo fonti, anche nel 2023–2024.

4. Fosforo bianco

Sostanza incendiaria che brucia a oltre 800°C.

Continua a bruciare in presenza di ossigeno, anche dentro il corpo umano.

Usato ufficialmente da Israele nel 2008–2009, e presumibilmente anche nel 2023.

Il suo uso su civili o vicino a ospedali è vietato dal diritto umanitario.

5. Missili di precisione (Hellfire, Spike, ecc.)

Lanciati da droni e jet, dovrebbero colpire obiettivi militari.

Numerose testimonianze indicano però un impiego contro abitazioni civili, giornalisti, ambulanze, ospedali.

Un attacco mirato al futuro?

Come dice il dottor Georgalas:

“I medici più preparati venivano colpiti per primi. Come se si volesse riscrivere il futuro di Gaza. Accademicamente, clinicamente, artisticamente.”

Fonti principali

– Human Rights Watch e Amnesty International: Documentazione di uso di flechette, DIME e fosforo bianco.

– Goldstone Report (ONU, 2009) – Armi usate durante “Piombo Fuso”.

– Breaking the Silence – Testimonianze di soldati israeliani (2023–2024).

– Lancet, BMJ Global Health – Studi medici sui feriti da armi non convenzionali a Gaza.

intervista (maggio 2025, con il giornalista Kostas Zafeiropoulos).

*****

“Ho visto un piccolissimo buco nel loro collo, ma facendo la TAC si poteva capire che il laringo, l’inguine, la spina dorsale erano stati sciolti… »

Christos Georgalas, un celebre chirurgo della testa e del collo, è uno dei pochi medici greci che si sono offerti volontari a Gaza negli ultimi mesi.

È stato trovato all’ospedale Nasser di Khan Younis nel sud di Gaza, per un mese, nell’ambito di una missione dell’organizzazione britannica Medical Aid for Palestinians, dal 21 aprile 2025 al 21 maggio, insieme a un chirurgo vascolare e un chirurgo plastico.

Estratti della sua scioccante intervista che torna su Kostas Zafeiropoulos sul Giornale Editore:

“Dei pazienti che ho curato, la percentuale di bambini rispetto agli adulti è stata enormemente più alta. Parliamo di bambini di 9 anni, 8, 11, 6 anni… I ragazzi che stavo guardando avevano ferite al collo. Ferite di pochi millimetri da frammenti, che avevano una velocità di ingresso altissima. Si vedeva un cavo molto piccolo nel collo, ma facendo la scansione si vedeva che il laringgo, l’inguine, la spina dorsale erano stati sciolti. Sono piccoli sassolini. Recentemente abbiamo avuto una mostra di attrezzature in Grecia. Così questi ragazzi potrebbero “usare” per mostrare quanto… efficaci sono queste bombe che, quando esplodono, inviano molti piccoli frammenti che coprono una superficie enorme. E qualsiasi cosa ci sia li passa attraverso.

Queste briciole stanno letteralmente maledicendo i bambini. Naturalmente ci sono bambini morti che vedevamo all’obitorio… 200 persone con 300 ferite arrivavano all’ospedale ogni giorno. Si può calcolare approssimativamente che il rapporto tra morti e feriti è di 1 a 3. »

“Questa è una guerra soprattutto contro i bambini, che non si può spiegare con il noto argomento “c’è una grande percentuale di bambini a Gaza, quindi statisticamente ci saranno molte vittime di bambini. ” Penso che sia praticamente un attacco mirato, un parlamentare israeliano ha anche detto che “i bambini sono il loro futuro, quindi è due volte più importante colpirli rispetto agli adulti. ” Tuttavia, non immaginavo di poter vedere così forte questa politica. »

“Non posso dire di essere andato in guerra. La guerra è una cosa molto diversa. Non c’è stata guerra a Treblinka, non c’è stata guerra ad Auschwitz. La guerra ha due eserciti. Qui c’è un popolo soprattutto di civili e donne, che non ha possibilità di fuga. E sta sistematicamente piovendo bombe dal cielo. Bombardano gli ospedali, bombardano i giornalisti. Le condizioni dei miei colleghi erano tragiche. Ma c’è ancora una parte ottimista, figuriamoci anche i compiti! Avevano un esame per gli specializzandi. Durante il periodo in cui sono stato lì, abbiamo sostenuto gli esami a scelta multipla per il lotto di tirocinio, per avanzare la laurea e ricevere la laurea...»

“Nasser Hospital è stato colpito due volte durante il periodo in cui ero lì. Una delle preoccupazioni che avevamo prima di andare con la mia squadra era che fosse stata colpita di nuovo a marzo. Quando avevano preso di mira, presumibilmente, un leader di Hamas, il piano operativo era stato colpito.

Le mie prime tre settimane sono passate senza che l’ospedale fosse un obiettivo. Ho colpito il doppio del goal nell’ultima settimana prima di partire. Mercoledì scorso [14/5]. Abbiamo dormito dentro, tutto il giorno in ospedale. Per la nostra sicurezza. Non potevamo semplicemente andarcene. Potevamo a malapena uscire in cortile.

Eravamo al quarto piano dove c’erano gli interventi chirurgici, il reparto di terapia intensiva e i dormitori dei medici stranieri. Il terzo piano è stato colpito, proprio sotto. Tre e mezzo del mattino, al reparto ustionati. L’obiettivo era un giornalista. Ucciso il giornalista, feriti il letto vicino e le infermiere. Cinque giorni dopo il cortile con la farmacia dell’ospedale è stato colpito ancora. Il primo colpo è stato con due droni, il secondo con un razzo...»

“Un collega spagnolo mi ha detto che quando gli israeliani erano arrivati all’ospedale dove c’era una risonanza magnetica, stavano cercando di distruggere tutto. Ma il magnetico è una macchina enorme. È proprio come una macchina. Anche se spari si può aggiustare. Così hanno portato un ingegnere per distruggerlo definitivamente. Perché anche se una bomba fosse stata sganciata accanto a lui, avrebbe potuto essere riparata. Uno specialista che conosce il cuore della macchina doveva entrare per renderla non funzionale. E lo ha fatto proprio lo scorso febbraio »

“Nel nostro ospedale, gli israeliani hanno attraversato le stanze dove si trovavano le incubatrici e le hanno sistematicamente rotte una ad una. Le incubatrici con il sub-cavatore!

Questi sono stati registrati dai miei colleghi.

L’ospedale, dove lavoravo, era occupato dagli israeliani da due mesi, a febbraio e marzo 2024. Torturati i medici rimasti in ospedale. Li stavano allineando uno per uno e li picchiavano. Sono stati rapiti in totale circa 80. Di loro 40 non sappiamo dove sono o se vivono. Molti sono stati uccisi sul colpo.»

“Se uno sta cercando di scoprire perché alcuni medici sono stati presi di mira rispetto ad altri, c’è una logica. Questo non è stato un incidente. Di solito erano i migliori della loro specie. Ad esempio, c’era un medico che faceva impianti a conchiglia. È diventato un obiettivo fin dal primo momento. Proprio perché era lui che sapeva ricreare, era fondamentale per fornire le cure. Secondo le università chi è stato preso di mira fin dal primo momento è stato chi ha il più grande lavoro accademico. La logica è che “vogliamo riscrivere il futuro di Gaza”, chi potrebbe ricostruirlo. Che sia accademicamente, clinicamente o anche artisticamente… »

“Le cose sono peggiorate molto con il blocco totale. È il periodo peggiore di tutto il periodo del genocidio. Eravamo relativamente “favoriti” – come occidentali e medici -, avevamo assicurato il congiunto. Riso, cioè, per un mese. Il nostro pranzo era riso. In esclusiva. Non c’era altro. A volte i fagioli venivano aggiunti con il riso. Non c’erano verdure. Non c’erano proteine, pesce, frutta, carne ovviamente no. Ve lo dico e basta: i miei colleghi avevano perso 26 libbre dall’inizio del genocidio. Io in un mese ho perso circa 8 kg.. »

Fonte

Rubio come McCarthy, gli Usa tornano indietro di 70 anni

di Michelangelo Cocco

Gli studenti statunitensi in Cina sono diventati merce rara. Secondo i dati ufficiali sono rimasti in circa 800. Del resto, perché dovrebbero frequentare gli atenei di un paese che dai loro governi viene dipinto come una minaccia?

I cinesi invece, più che alla propaganda, badano al sodo. Chi può va negli States a prendersi un titolo di studio che, in patria o all’estero, è più spendibile del corrispettivo cinese sul mercato del lavoro. Per questo nell’anno accademico 2023-2024 negli Usa erano registrati 277.400 studenti cinesi, secondi solo agli indiani e 1/4 del totale degli studenti stranieri.

Ora però l’amministrazione Trump vuole frenare questo flusso, one-way, come confermano i numeri.

Infatti il segretario di stato, Marco Rubio, ieri ha annunciato che Gli Stati Uniti «revocheranno aggressivamente i visti per gli studenti cinesi». Il capo della diplomazia di Trump ha chiarito che il suo dipartimento di stato collaborerà con quello per la sicurezza interna sulle cancellazioni, che riguarderanno gli studenti cinesi, «compresi quelli con legami con il Partito comunista cinese o che studiano in settori critici».

Non solo revoche, ma – ha concluso Rubio – «rivedremo anche i criteri per i visti, per migliorare il controllo di tutte le future domande provenienti dalla Repubblica popolare cinese e da Hong Kong».

I “legami col partito comunista” e gli “studi in settori critici” di cui ha parlato Rubio sono, finora, concetti vaghi, che potenzialmente includono qualsiasi studente cinese negli Usa. Sembra prendere così corpo l’idea, odiosa, di negare l’accesso alle università Usa ai cinesi in quanto cinesi.

E così sui media e sui social cinesi sono subito rimbalzate le accuse di “maccartismo”, ovvero la caccia alle streghe contro comunisti e presunti tali scatenata negli anni Cinquanta dal senatore repubblicano Joseph McCarthy.

Il ministero degli esteri di Pechino ha reagito con durezza. «L’irragionevole decisione di revocare i visti agli studenti cinesi con il pretesto dell’ideologia e della sicurezza nazionale nuoce gravemente ai diritti e agli interessi legittimi degli studenti cinesi e interrompe gli scambi tra noi», ha dichiarato Mao Ning.

Secondo la portavoce «una mossa così politicizzata e discriminatoria mette a nudo la menzogna degli Stati Uniti sulla loro cosiddetta libertà e apertura e non farà che minare ulteriormente la loro immagine nel mondo e la reputazione nazionale».

Gli studenti cinesi contribuiscono in maniera significativa al finanziamento degli atenei Usa e sono tra i più brillanti, soprattutto nelle materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica). Perché allora prenderli di mira con quest’ultima proposta di Rubio, dopo che già negli ultimi anni scienziati e ricercatori cinesi negli Usa hanno denunciato controlli e persecuzioni da parte delle autorità e molti sono per questo ritornati in Cina?

Il motivo è duplice.

Da un lato si cerca di prosciugare il fiume in piena di giovani scienziati che – dopo essersi formati negli Usa – torna in patria per contribuire alla Nuova era proclamata da Xi Jinping, della quale la cosiddetta “innovazione autoctona”, ovvero il progresso scientifico-tecnologico made in China rappresenta una componente essenziale. Rispetto a qualche anno fa tornare a lavorare in Cina ha per i cinesi lo stesso fascino, se non maggiore, di costruirsi una vita negli States.

Dall’altro le politiche anti-Cina sono popolari negli Stati Uniti e dunque possono rafforzare il consenso dell’amministrazione Trump. Secondo gli ultimi dati del Pew Research Center, il 77 per cento degli americani ha un’opinione negativa della Cina.

Da entrambi i punti di vista – sia quello che attiene alla competizione tecnologica Cina-Usa, sia quello che riguarda la costruzione del consenso da parte di Trump – l’uscita di Rubio ha senso. Peccato che rappresenti una violazione di principi democratici di base.

Come dar torto al tabloid nazionalista Global Times, che ha commentato:
“Di fronte alla regressione storica degli Stati Uniti, nessun settore dovrebbe rimanere in silenzio. Ogni paese ha il diritto di salvaguardare la propria sicurezza, ma adottare politiche discriminatorie nei confronti degli studenti di un determinato paese è indubbiamente un atto deliberato volto ad alimentare le tensioni tra le nazioni. La Cina ha già protestato con gli Stati Uniti per la decisione, ma questo non dovrebbe limitarsi a livello bilaterale.

Governi, università e organizzazioni civili di tutto il mondo dovrebbero prendere posizione e condannare la politicizzazione dell’istruzione. Non si tratta solo di difendere i diritti degli studenti cinesi, ma anche di sostenere i principi di equità e cooperazione educativa globale.

Prendere di mira indiscriminatamente gli studenti cinesi in base alla loro nazionalità o al loro campo di studi è una politica sconsiderata che non solo deteriora il clima sociale e l’ambiente accademico negli Stati Uniti, ma alimenta anche la divisione, vuol dire danneggiare gli altri senza trarre vantaggio per sé.

La comunità accademica globale, comprese le università statunitensi, dovrebbe unirsi nell’invitare Washington a tornare alla ragione e a smettere di usare gli studenti cinesi come capri espiatori per scopi politici interni, e a smettere di trasformare le istituzioni accademiche in campi di battaglia per scontri politici.”
In Occidente, quello di Qian Xuesen è un nome pressoché sconosciuto. In Cina, al contrario, il padre dei missili balistici intercontinentali e dei programmi spaziali della Repubblica popolare è oggetto di venerazione. A Shanghai gli hanno dedicato un museo che ne ripercorre la carriera e le sperimentazioni, un edificio di tre piani nel quale le visite guidate di scolaresche e dipendenti pubblici che vengono introdotti al mito dello “scienziato del popolo” si succedono senza soluzione di continuità.

Nato nel 1911 ad Hangzhou, nel 1934 Qian si laureò in Ingegneria meccanica all’Università Jiaotong di Shanghai. L’anno successivo – grazie a una borsa di studio dell’indennità dei Boxer – fece rotta sul Massachusetts Institute of Technology, dove ottenne un master in Ingegneria aeronautica. Nel 1939 conseguì il dottorato al California Institute of Technology, sotto la guida del più importante ingegnere aeronautico del tempo, Theodore von Kármán, che lo definì “un genio indiscusso”.

Nel 1949, mentre a Pechino Mao proclamava la nascita della Repubblica popolare, Qian fondava a Pasadena il Jet Propulsion Laboratory (JPL) del California Institute of Technology, di cui assunse la direzione, lavorando su sistemi di armamento segreti come il programma per lo sviluppo di vettori intercontinentali Titan e il Private A, il primo propellente solido testato con successo negli Stati Uniti.

Nel 1950 si aprì la stagione del maccartismo e, quello stesso anno, due ex agenti della “Squadra rossa” della polizia di Los Angeles, incaricata di indagare e controllare attività radicali, scioperi e rivolte, lo accusarono di essere membro del Partito comunista. Qian fu fermato con otto casse di bagaglio mentre stava partendo assieme alla moglie e ai due figli, per far visita ai suoi anziani genitori in Cina. Secondo le autorità statunitensi, quei bauli contenevano materiale classificato che lo scienziato intendeva far uscire illegalmente dagli Usa.

Nonostante si fosse professato innocente e malgrado le proteste delle comunità accademica californiana, Qian venne prima costretto agli arresti domiciliari e infine, nel 1955, rispedito da San Francisco a Hong Kong a bordo della nave “SS President Cleveland”. «Non ho intenzione di tornare, non ho nessun motivo per tornare… farò del mio meglio per aiutare il popolo cinese a costruire la nazione dove potrà vivere con dignità ed essere felice», dichiarò ai giornalisti prima di lasciare per sempre gli Stati Uniti.

«È stata la cosa più stupida che questo paese abbia fatto – sostenne il segretario della marina USA Dan Kimball – Qian non era più comunista di me, e noi l’abbiamo costretto ad andarsene».

Rientrato in patria, il Partito comunista accolse Qian a braccia aperte, affidandogli la fondazione dell’Istituto di meccanica di Pechino e assicurandogli un posto nella prestigiosa Accademia delle scienze.

Qian spese tutta la sua carriera in Cina (morirà a Pechino il 31 ottobre 2009, a 98 anni) per modernizzare i sistemi missilistici dell’Esercito popolare di liberazione e i programmi spaziali nazionali. Nella sua biografia ufficiale è ricordato così:
Qian Xuesen fu un membro eminente e devoto del Partito comunista cinese, un grande scienziato noto come il padre dell’industria aerospaziale cinese, senior fellow dell’Accademia cinese delle scienze di ingegneria, e vicepresidente del sesto, settimo e ottavo Comitato nazionale della Conferenza politico-consultiva del popolo cinese.

Qian è stato uno dei fondatori della moderna meccanica in Cina. Promosse ricerche teoretiche e applicate sull’ingegneria dei sistemi e diede un contributo inestimabile al lancio e allo sviluppo di razzi, missili e programmi spaziali in Cina e fu un pioniere in diversi campi, tra i quali l’aerodinamica, l’ingegneria aeronautica, la propulsione a getto, l’ingegneria cibernetica e la fisica meccanica.¹
Note

1) Michelangelo Cocco, Una Cina “perfetta”: la Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale, 2020, Carocci editore.

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Che cos’è se non genocidio?

di Ibrahim Faltas – vicario della Custodia di Terra Santa

Alaa Al-Najjar è una donna, madre, moglie, medico pediatra. Aveva nove figli voluti e desiderati, condivideva con il marito, collega medico, la costruzione consapevole della loro famiglia e la comune passione per la missione di aiutare i bambini.

Ora è sola: la sua famiglia numerosa e piena d’amore è stata annientata da un bombardamento che ha distrutto la loro casa e il loro futuro. Mentre era di turno al Nasser Medical Complex, grande ospedale nel sud di Gaza, ha accolto i corpi quasi irriconoscibili di otto figli, morti a causa di un bombardamento, e suo marito gravemente ferito.

Il corpo di un altro figlio non è stato ancora recuperato, ancora sepolto dalle macerie.

La vita di Alaa alternava sacrifici e soddisfazioni, disponibilità e gratificazioni, sofferenze condivise, sollievo e felicità nel salvare le vite di bambini, vittime innocenti e senza colpa della violenza di adulti senza scrupoli.

Quante volte Alaa, madre e moglie, ha consolato madri e mogli che hanno vissuto la situazione che ora sta vivendo lei stessa? Quante volte avrà gioito con altre donne per una vita salvata, per una guarigione insperata, per un pericolo scongiurato?

Mentre curava i figli di altre madri, mentre vegliava sulla sofferenza di altre donne, mentre rassicurava altre persone, non poteva sapere che quel giorno i corpi dei suoi figli e suo marito stavano arrivando nell’ospedale in cui lavorava.

Ha accolto i corpi senza vita delle sue creature nell’affollato obitorio, non ha potuto curarli e offrire loro la sua professionalità nel reparto dove curava e aiutava altri figli insieme a loro padre.

La situazione dolorosa di Alaa sconvolge per la sofferenza così devastante di una madre che ha perso tutto e in un momento. Altre storie di morte e di sofferenza a Gaza sconvolgono.

Un padre mutilato negli arti superiori non ha potuto abbracciare e accarezzare sua figlia di cinque anni uccisa da un bombardamento e mutilata in uno precedente.

Una giovane madre abbattuta per non poter allattare suo figlio perché lei stessa denutrita è disperata per la morte di suo marito ucciso mentre era in cerca di latte e di cibo per la sua famiglia.

Sono storie di morte e di sofferenza per chi sopravvive, non consideriamole “solo” storie e numeri di un bilancio disumano ed eccessivo, voluto e programmato dalla violenza e dall’odio.

Come fermare la guerra? Chi può ancora farlo? Domande e sofferenze che non trovano risposte accettabili e plausibili.

Chi potrebbe impedire che il massacro continui implacabile da venti mesi, avendo negli occhi le immagini di corpi avvolti in bianchi sudari, ultimo vestito per la dignità umana, può ancora guardare negli occhi i propri figli?

Le macchie di sangue di quei sudari sono macchie incancellabili dalle coscienze già cieche e sorde di pochi esseri umani che non vedono e non sentono il dolore di Gaza e del resto del mondo. Preghiamo! Non abbiamo altra scelta e altra possibilità!

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L’incoronazione della von der Leyen col premio “Carlo Magno”

Quest’anno il Premio Carlo Magno, il massimo riconoscimento concesso a chi promuove i valori dell’unità europea, è stato assegnato alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. La consegna del premio è diventata l’occasione per perorare la causa della UE come attore strategico autonomo – stavolta indicato addirittura come indipendente – della competizione globale.

“È tempo che l’Europa si rialzi, che si stringa attorno al prossimo grande progetto europeo. E credo che la nostra prossima grande era, il prossimo grande progetto unificante, riguardi la costruzione di un’Europa indipendente”, ha detto la politica tedesca, alla presenza di Keir Starmer, del cancelliere tedesco Merz, del re di Spagna Felipe VI e altri esponenti del Vecchio Continente.

“Un nuovo ordine internazionale – ha aggiunto – emergerà ancor prima della fine di questo decennio. Se non vogliamo subirne passivamente le conseguenze – dentro e fuori i nostri confini – dobbiamo contribuire a plasmarlo. La storia non perdona né l’inazione né l’esitazione”. Le parole di von der Leyen delineano in maniera molto chiara l’orizzonte su cui ragiona Bruxelles.

Il Premio Carlo Magno è stato creato nel 1949 per valorizzare gli sforzi di riappacificazione europea dopo la carneficina della seconda guerra mondiale. Un’idea che, presa in maniera astratta, meriterebbe tutte le lodi possibili, ma che nella pratica è stato un incensare più o meno continuo la classe dirigente europea e il progetto comunitario, che scivola velocemente verso il riarmo e l’economia di guerra.

La presidente della Commissione esprime la consapevolezza che il mondo unipolare guidato da Washington va finendo, e che nella nuova configurazione multipolare che si va delineando la UE deve esprimere una posizione indipendente, anche dagli storici alleati oltreoceano. Dentro i confini, nel processo di integrazione e allargamento della comunità europea, e fuori, come potenza militare.

Il primo compito indicato da von der Leyen è “sviluppare una nuova forma di ‘Pax Europea’ per il XXI secolo, plasmata e gestita dall’Europa stessa”. Parole che ricordano in maniera inquietante il concetto di Pax Britannica, propagandata durante l’epoca vittoriana per il suo impero, mentre Londra metteva a ferro e fuoco mezzo mondo con le sue imprese coloniali.

Impiega poco tempo la politica tedesca, infatti, a passare dalla ‘pace europea’ al fatto che questa si costruisca con lo scontro muscolare con gli avversari strategici, e la Russia in primis. Questa prospettiva è sostenuta attraverso una retorica da avventurismo bellico e azionistico che si ricollega a una sorta di passato da protagonista dell’Europa.

Ma cosa significa quando von der Leyen dice che il Vecchio Continente deve “riscoprire lo spirito di audacia, azione e rinnovamento”? Riscoprirlo rispetto a quale passato? A quello del dominio coloniale, della Pax Britannica? O a quello dell’ultimo grande progetto per l’unificazione dell’Europa, per ridargli il ruolo di centralità che stava perdendo: la conquista del Vecchio Continente da parte del nazismo? 

Troppo spesso si dimentica che il nazismo rivendicava proprio tale orizzonte continentale. Lo si dimentica solo nella ‘vulgata’ ufficiale, dato che l’ex ministro dell’economia francese Bruno Le Maire disse esplicitamente: “il nazismo fu un progetto folle, pericoloso, suicida, ma era un progetto politico di cui oggi l’Unione europea è la risposta agli antipodi”. Cioè ne è speculare.

Riassumendo, rispetto alla strada che deve imboccare la UE, von der Leyen ha sostanzialmente affermato la necessità di investire massicciamente in sicurezza e difesa, di sviluppare il mercato unico, di aumentare il numero dei membri (lo sguardo è rivolto innanzitutto a Kiev), di promuovere i partenariati commerciali e l’innovazione.

Di fare tutto questo con lo scopo di rendere la UE una realtà politica a tutto tondo, una nuova potenza del mondo multipolare, indipendente e capace di determinare l’ordine globale che verrà. E di farlo usando innanzitutto le armi, e con uno spirito che si collega direttamente alla tradizione degli imperi europei, che siano quello di Carlo Magno o quelli novecenteschi.

Quelli, insomma, che hanno prodotto le due guerre mondiali...

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Frenesia bellica, sconfitta certa

di Fabio Mini

Sotto la superficie apparentemente piatta, o in stallo, dei negoziati e delle operazioni militari, scorre un ruscello carsico che si presta a diventare un fiume tranquillo, o in devastante piena, quando e se riemergerà.

Intanto il ruscello non sembra avere acqua limpida, ma una melma carica di illusioni, irrazionalità e ipocrisia.

L’illusione è forse la parte più pulita del corso e riguarda le pseudo speranze che i negoziati portino alla pace, che le forze ucraine riescano a riprendersi, che i russi si ritirino e che l’Europa riesca a liberarsi dalla dipendenza militare degli Stati Uniti e possa tornare a prosperare anche senza le risorse russe.

Sono illusioni, appunto, costruite per i molti nostri concittadini che si abbeverano all’informazione cosiddetta occidentale, incardinata nell’ideologia della ‘pace giusta e duratura’ e nella retorica dell’‘aggressore e l’aggredito’, del bene e del male assoluti.

Russia e Ucraina hanno deciso lo scambio di prigionieri e stanno organizzando il nuovo round di colloqui diretti. La Russia sta preparando il memorandum di base per la ripresa dei colloqui interrotti nel 2022, partendo però dal punto concordato allora con le varianti sopravvenute durante il conflitto.

Un documento semplice e chiaro che ripete ciò che chiede da anni prima e dopo l’invasione: la neutralità ucraina, il riconoscimento delle autonomie delle popolazioni russofone (in pratica la fine della guerra in Donbass), la denazificazione del governo e delle istituzioni (allontanamento di tutti gli elementi neonazisti ed estremisti che, sostenuti dagli americani e dalla Nato, non pensano agli ucraini, ma proteggono gli oligarchi più biechi del globo).

Anche gli ucraini, sostenuti dalla burocrazia e da volenterosi bellicisti europei, ripetono ciò che da alcuni mesi sono stati indotti ad affermare: vogliono la tregua incondizionata di almeno 30 giorni, non come oggetto dei colloqui, ma come condizione per iniziarli.

A scanso di equivoci, il presidente Zelensky e i suoi amici americani ed europei hanno già fissato i paletti della loro pace: nessun territorio ai russi, nessun vincolo al riarmo ucraino, confische dei beni russi, risarcimenti da pretendere per i danni di guerra e tribunale internazionale per i leader politici e militari russi.

In pratica chiedono la capitolazione militare, politica ed economica della Russia.

Una posizione talmente irrazionale che essi stessi sanno non potrà essere accettata dai russi proprio mentre stanno vincendo la guerra. Non solo sul campo.

E, da che mondo è mondo, l’unico risultato delle guerre esistenziali e territoriali è la ridefinizione dei confini alle condizioni dei vincitori.

Con una buona dose di ipocrisia, Ucraina e volenterosi europei intendono usare la tregua incondizionata per prendere tempo. Come a Minsk. Tempo per riarmare l’Ucraina, intervenire con gli eserciti europei in territorio ucraino con un pretesto (per esempio, il solito “controllo” del rispetto della tregua) e riarmare l’Europa per affrontare e battere la Russia in maniera definitiva.

La difesa e la deterrenza sbandierate come elementi passivi del riarmo sono in realtà le maschere per la guerra preventiva che la Nato sta già pianificando. “Dobbiamo battere il nemico al primo colpo, perché se non ci riusciamo dovremo affrontare 15 anni di guerra di logoramento”, ha detto il comandante supremo della Nato.

L’Ucraina non vuole la pace con la Russia, ma la guerra permanente contro la Russia combattuta con gli Stati Uniti e, nel dubbio che con Trump si sfilino dall’impegno assunto da Biden, con gli europei della Nato e non.

Gli Stati Uniti non vogliono la pace, ma il disaccoppiamento fra Russia e Cina ed Europa.

Al distacco tra Europa e Russia già ci pensano i ‘volenterosi’, mentre quello con la Cina è tutto da costruire.

L’Europa si appresta al blocco navale nel Baltico con lo scopo di inchiodare la flotta militare russa e impedire il transito o sequestrare le navi mercantili di qualsiasi bandiera da o per i porti russi.

La Russia ha già avvertito che difenderà e proteggerà tutto il traffico mercantile che la riguarda e che si muove in acque internazionali o in quelle territoriali russe.

L’Europa, che nel frattempo deve affrontare l’offensiva economica dei dazi voluti da Trump, ha varato il 17° pacchetto di sanzioni contro la Russia.

Le ultime novità delle sanzioni riguardano altre 189 navi mercantili che si aggiungono alle 153 già sanzionate portando a 342 il totale di navigli della cosiddetta ‘flotta fantasma’ che sta aiutando la Russia.

Il vero rischio di queste operazioni non è l’inefficacia nella riduzione delle esportazioni russe, e nemmeno lo stimolo al ricorso al cambio di nome e appartenenza delle navi. Una procedura che le agenzie degli Stati bandiera registrano e autorizzano con una email durante la navigazione. Non è neppure la ulteriore contrazione degli affari britannici sui noli e le assicurazioni, di cui la City londinese non è più monopolista.

Più grave è invece il rischio che l’ampliamento dei soggetti sanzionati aumenti il numero di contenziosi in mare o nei porti e dei pretesti per il conflitto armato.

Inoltre, come gli Usa, l’Europa minaccia anche sanzioni economiche e punizioni politiche (e non solo) per i paesi che commerciano con la Russia, il che significa allargare all’intero globo il quadro dell’instabilità e dell’ostilità.

La Commissione Europea insiste che le sanzioni funzionano e che la Russia è in crisi grazie a esse.

Non si spiega però perché si sia dovuti arrivare a 17 pacchetti e si stiano già preparando 18° e 19°. Non si spiega come la guerra stia aumentando d’intensità e la situazione ucraina peggiorando. E che stia peggiorando è evidente proprio dalla frenesia bellica che domina l’Europa nel suo progetto d’intervento in Ucraina.

Non c’è quindi da meravigliarsi se la Russia stessa sembri ignorare le sanzioni, che comunque riesce ad eludere, e guardi con interesse agli effetti delle sanzioni “secondarie”.

India e Cina ne dovrebbero essere i principali destinatari, ma non meno importanti sono i paesi con i quali la Russia ha stretto o rinsaldato i rapporti nonostante o proprio grazie alla guerra.

Sono paesi che importano e pagano profumatamente i prodotti europei, sono esportatori di risorse e sono paesi attivi nella ricerca di un nuovo ordine globale multilaterale.

Le sanzioni su di loro, oltre ad essere aggirabili o ininfluenti, sono cariche di effetti boomerang proprio ai danni dell’Europa.

Con intima soddisfazione anche degli americani.

Infine, le manovre ipocritamente dilatorie dell’Europa per guadagnare tempo si scontrano con una realtà diversa: il tempo non gioca a favore di nessuno.

Trenta giorni servono a poco e già si pensa a un rinnovo periodico e indefinito delle tregue per assicurare quei 5 anni di preparazione alla guerra preventivati dall’Europa.

Ma cinque anni sono troppi per garantire la sorpresa di quell’attacco “preventivo e risolutivo”.

La Russia non può concedere tempo ed essa stessa è soggetta alle pressioni americane per regalare un successo qualsiasi a Trump e al proprio interno che chiede maggiore fermezza e intransigenza.

Il partito dei cosiddetti falchi sta acquisendo consensi e i vertici militari russi stanno facendo di tutto per dimostrare che la questione ucraina non è risolvibile con il negoziato, ma con le armi.

Insistono sul fatto che la fascia di sicurezza, demilitarizzazione e denazificazione che la Russia chiede e che l’Europa nega potrà essere acquisita con la forza, ma senza perdere altro tempo.

In Europa vige la stessa convinzione nei riguardi della sconfitta russa, ma mancano risorse e tempo.

Intanto l’agitazione bellicista europea favorisce i soli interessi delle lobby politico-industriali del breve periodo e accelera la degenerazione e l’ampliamento del conflitto, il quale a sua volta è destinato a polverizzare le risorse umane e materiali e i sogni europei di prosperità per decenni a venire.

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La guerra eterna di Netanyahu alla prova dei conti pubblici

di Michele Giorgio

Da piazza Hatufim a Tel Aviv, dopo 600 giorni di offensiva militare a Gaza, le famiglie degli ostaggi israeliani, hanno lanciato un messaggio inequivocabile a Benyamin Netanyahu e ai suoi ministri: «Basta con le bugie, non date altri nomi alla guerra, ponete fine alla guerra. Riportate tutti indietro, ora». Senza un’iniziativa politica, hanno aggiunto, «l’azione militare non ha senso. Le guerre finiscono sempre con un accordo diplomatico, a meno che il piano non sia una guerra eterna».

Ma è proprio quella, la guerra eterna, l’idea che hanno in mente il premier e i suoi compagni di governo, che celebrano la decisione presa il 5 maggio di rioccupare Gaza. La ricostruzione delle colonie ebraiche nella Striscia, smantellate vent’anni fa, è la logica conseguenza di quella decisione. L’offensiva coloniale prevede anche, riferiva ieri il quotidiano Yediot Ahronot, la nascita – approvata segretamente dal gabinetto di sicurezza due settimane fa – di altri 22 insediamenti in Cisgiordania.

Il controllo di gran parte del territorio di Gaza – il 75%, ha detto Netanyahu – è l’obiettivo più importante di Israele, assieme all’«emigrazione volontaria» di gran parte della popolazione palestinese. In questi giorni i palestinesi di Gaza sono spinti verso sud e resi completamente dipendenti dai pacchi alimentari che riceveranno dalla GHF, la fondazione sorta per contribuire a realizzare il progetto del governo Netanyahu, sostenuto dall’Amministrazione Trump.

Zvi Barel, analista del giornale Haaretz, ha offerto una visione di ciò che potrebbe accadere: «Gli uomini israeliani in età da combattimento inizieranno una routine indossando le uniformi per sei mesi... Per gli imprenditori israeliani, soprattutto quelli che vendono cibo o tende, si aprirà una finestra di opportunità con due milioni (i palestinesi di Gaza, ndr) di nuovi clienti».

Uri Goren, cugino del rapito Tal Haimi, ha ribadito una verità evidente: «Siamo tutti convinti che la continuazione della guerra non riporterà indietro gli ostaggi». Decine di manifestanti israeliani hanno provato a renderlo più chiaro facendo irruzione a inizio settimana nella sede del partito di maggioranza Likud a Tel Aviv. Hanno anche raggiunto l’ufficio di Netanyahu, situato nello stesso edificio.

Il premier però non ascolta, va avanti per la sua strada e soddisfa i suoi desideri e quelli dei ministri di estrema destra e dei leader del movimento dei coloni. Ai vertici delle forze armate, intanto, si nutrono forti dubbi sulla sostenibilità dell’occupazione permanente di Gaza. Impadronirsi di un territorio con oltre due milioni di palestinesi richiederebbe un significativo aumento delle risorse per l’esercito. Migliaia di riservisti dovranno essere richiamati sempre più spesso – già oggi ben oltre la metà dei riservisti ha superato i 100 giorni di servizio in venti mesi – per proteggere i coloni e combattere la resistenza armata di Hamas e di altre formazioni palestinesi.

Gaza potrebbe diventare il Vietnam di Israele che, dopo il 7 ottobre 2023, nonostante la sua superiorità militare, ha perduto in combattimento nella Striscia più di 400 soldati. L’esercito afferma di aver ucciso circa 20.000 combattenti palestinesi sino ad oggi, ma ammette che ne rimangono decine di migliaia. Senza dimenticare l’impegno di forze militari nella Cisgiordania occupata e a ridosso (e dentro) il Libano del Sud, a cui si aggiunge l’impiego incessante dei piloti militari in missioni su più fronti. E Netanyahu non rinuncia all’idea di attaccare, forse nelle prossime settimane, anche l’Iran.

Il fervore ideologico e religioso è il motore dell’azione di governo; la realtà economica di Israele, invece, è un fattore che potrebbe rovinare i piani di Netanyahu. Venti mesi di guerra sono già costati molto alle casse dello Stato, nonostante l’aiuto militare e finanziario degli Stati Uniti. Dopo 600 giorni, scrive la rivista economica Calcalist, il costo dell’offensiva militare, unito a quello dei risarcimenti e degli aiuti ai civili (come gli sfollati), è salito a più di 142 miliardi di shekel (circa 35 miliardi di euro), aggravando il deficit pubblico.

Previsioni di crescita e di spesa, spiegano diversi economisti, dovranno essere riviste a causa del prolungamento di una guerra che molti ritenevano conclusa dopo il cessate il fuoco in Libano a fine novembre e a Gaza lo scorso gennaio. Martedì il governatore della Banca di Israele, Amir Yaron, ha spiegato che altri sei mesi di offensiva a Gaza ridurrebbero la crescita economica di mezzo punto nel 2025. Peserebbe inoltre sulla crescita del rapporto tra debito pubblico e Pil anche il richiamo in servizio di decine di migliaia di riservisti.

Il revisore dei conti, Yali Rothenberg, avverte che la spesa militare rischia di ridurre drasticamente le spese civili, come istruzione, sanità, assistenza sociale e infrastrutture.

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30/05/2025

Lo sciame (2020) di Just Philippot - Minirece

Il poliziotto infiltrato in Potere al popolo era in servizio all’antiterrorismo

Caso spionaggio-Pap: la versione della polizia fa acqua da tutte le parti!

Dopo aver denunciato la presenza di un agente della polizia sotto copertura nelle nostre fila, la Polizia di Stato ha provato a smentire.

La reazione rilasciata dalla Polizia alle agenzie non regge. 

Nello specifico si scrive che il presunto agente-spia partecipava agli eventi di Potere al popolo col proprio vero nome, cui corrispondeva un profilo social che lo ritraeva in divisa.

Qui sta la grande falsità: è vero che l’agente in questione non aveva cambiato nome, ma il suo profilo Instagram era stato accuratamente ripulito!

Come scrive Fanpage infatti “il profilo del presunto poliziotto infiltrato dove non c’erano affatto sue foto con la divisa della polizia di stato. Anzi il profilo era accuratamente ripulito da ogni appartenenza alle forze dell’ordine, e mostrava invece una serie di riferimenti all’attività di Potere al popolo.”

Quanto è avvenuto è abbastanza chiaro: per spiarci non si è voluto utilizzare una identità fittizia, perché se in una organizzazione si presenta un ragazzo di vent’anni senza social o con account aperti da poco parte subito il sospetto. Era meglio dunque “ripulire” social esistenti da contenuti o amicizie sospetti e presentarsi in modo realistico: è esattamente quello che è stato fatto in questo caso.

Peccato che non sia stato fatto lo stesso con gli account legati a suoi colleghi del corso in polizia, dove sono state trovate le foto del giuramento in polizia del poliziotto e anche altre foto in divisa con i colleghi.

Dobbiamo rompere il silenzio che il potere mediatico e politico stanno tenendo su questa vicenda. Facciamo appello a tutte e tutti per fare pressione affinché il Governo Meloni, il ministro della Giustizia Nordio e il Ministro degli Interni Piantedosi forniscano delle risposte immediate!

Già sono partite diverse interrogazioni dalle opposizioni parlamentari. È necessario però mobilitarsi affinché non cali il silenzio su questa vicenda. Prossimo appuntamento la manifestazione del 31 maggio contro il decreto sicurezza a Roma.

Potere al Popolo

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Non ci sono state ancora repliche ufficiali alla denuncia di Potere al popolo, raccolta da Fanpage.it, che ha riguardato il tentativo di infiltrare il partito per 7 mesi con un agente di polizia. Ma dai documenti di cui siamo venuti in possesso, emergerebbe che l’agente in questione appartiene all’antiterrorismo, ovvero la polizia politica.

Fonti qualificate hanno fatto circolare una versione secondo la quale il poliziotto avrebbe partecipato assiduamente alle iniziative di Potere al popolo, ma senza avere un mandato di operare come spia all’interno della compagine politica, precisando che nessuna autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria era stata emessa in tal senso.

Inoltre si aggiungeva che il presunto infiltrato avrebbe conservato sul suo profilo social le foto in divisa, cosa smentita dalle prove raccolte da Fanpage.it. Grazie ai nuovi documenti è stato possibile infatti ricostruire la carriera, seppur brevissima, essendo un agente di polizia di appena 21 anni, del presunto infiltrato nelle fila di Potere al popolo, e quello che emerge è un contesto lavorativo dell’agente pienamente inserito nelle attività di prevenzione legate all’antiterrorismo.

Prima alla Questura di Milano, poi all’antiterrorismo

Il poliziotto presunto infiltrato, secondo i documenti ufficiali di cui siamo entrati in possesso, dopo aver frequentato il corso di polizia, nello specifico il 223° corso di formazione per agenti della polizia di stato, nel dicembre del 2023 è stato assegnato alla Questura di Milano.

Il giovane agente, classe 2004, era stato assegnato alle sezioni operative interne, presso la Questura dove per molti anni aveva lavorato suo padre, anche lui poliziotto, che sulla fine della carriera, trasferitosi in Puglia, la regione di origine della famiglia, ha anche ricevuto un encomio. Dalla Questura di Milano è stato poi trasferito alla Direzione centrale polizia di prevenzione, sezione operazioni interne.

L’agente appartiene quindi all”antiterrorismo, la cosiddetta “polizia politica” come viene definita dallo stesso Ministero dell’Interno sul proprio sito istituzionale. Come hanno ricostruito gli attivisti di Potere al popolo, l’agente, che ora sappiamo essere incardinato presso l’antiterrorismo della polizia di Stato, si sarebbe infiltrato nel partito a Napoli a partire dall’ottobre del 2024.

La domanda che ci poniamo è se sia credibile che un agente incardinato presso la direzione centrale dell’antiterrorismo possa aver seguito per 7 mesi tutte le attività di Potere al popolo, partecipando assiduamente ad ogni iniziativa, intervenendo al megafono durante le manifestazioni, come vi abbiamo mostrato, senza avere un mandato preciso da parte dei suoi superiori.

Inoltre, avrebbe contraddistinto la sua condotta a Napoli tra le fila del partito, facendo segnare una sua costante assenza durante i fine settimana. “Diceva che tornava a casa dai suoi“, ha spiegato Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al Popolo, ma proprio questa circostanza ha fatto insospettire gli attivisti del partito. “La sua presenza a Napoli era 5 giorni su 7, come una normale attività lavorativa. Ci chiediamo in quali ore ed in quali giorni il poliziotto avrebbe svolto la sua attività lavorativa.“

Le fonti di polizia, riportate dalle agenzie di stampa, che hanno escluso che esista una autorizzazione dell’autorità giudiziaria relativa ad una attività di spionaggio verso Potere al popolo, dovrebbero chiarire come sia possibile che un agente della Direzione centrale dell’antiterrorismo possa aver impiegato, per 7 mesi, una attività così assidua di frequentazione del partito, senza aver ricevuto un ordine preciso.

L’agente risulterebbe iscritto al primo anno di Università presso la Federico II di Napoli, ma questo non giustificherebbe la sua costante presenza a Napoli, che non potrebbe essere giustificata da permessi studio, praticamente quotidiani, per un periodo così lungo.

La presunta infiltrazione iniziata due mesi prima del trasferimento

Ricostruendo le date dei trasferimenti del giovane agente e l’attività all’interno di Potere al popolo, troviamo una successione che balza agli occhi. La sua assegnazione alla Questura di Milano come agente in prova avviene a dicembre del 2023, l’inizio della sua attività all’interno di Potere al popolo viene ricondotta all’ottobre del 2024, mentre il suo trasferimento alla Direzione centrale dell’antiterrorismo è datata 11 dicembre 2024.

Quindi il poliziotto, assegnato alla Questura di Milano, avrebbe iniziato la sua attività all’interno di Potere al popolo e poi dopo sarebbe stato trasferito all’antiterrorismo.

Tra le tesi fatte circolare nelle stanze delle commissioni parlamentari in questi giorni, ci sarebbe la giustificazione della “fuga d’amore”. Ovvero l’agente si sarebbe innamorato di una ragazza che frequentava Potere al Popolo e per questo avrebbe iniziato a frequentare il partito. Una tesi, che alla luce della ricostruzione della carriera del giovane agente, non starebbe in piedi.

Innanzitutto perché l’agente ha sempre dichiarato agli attivisti napoletani di Pap di essere fidanzato con una ragazza pugliese, di cui esistono i profili social verificabili. La seconda è perché nei 7 mesi in cui è stato attivo nelle fila del partito, non ha mostrato interesse per nessuna attivista del partito in nessuna forma.

Il governo dovrà rispondere in aula

Il governo sarà chiamato a rispondere nell’aula del parlamento di questa vicenda. Sono state infatti annunciate diverse interrogazioni parlamentari sul caso del poliziotto presunto infiltrato nelle file di Potere al popolo. C’è quella presentata da Avs al Senato firmata da Peppe De Cristofaro, Ilaria Cucchi e Tino Magni, e quella presentata alla Camera dei Deputati dal Partito Democratico, firmata da Marco Sarracino, Chiara Gribaudo e Mauro Berruto.

L’ultima in ordine cronologico, è quella annunciata dal Movimento 5 Stelle, sempre alla Camera, e firmata dalla deputata Gilda Sportiello. Sarà il Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, a dover rispondere in aula alle tre interrogazioni parlamentari annunciate dalle opposizioni.

Ci sarà da chiarire però, alla luce del fatto che l’agente è in servizio presso la Direzione centrale della polizia di prevenzione, se, come hanno sostenuto le fonti qualificate di polizia, davvero non esista una autorizzazione dell’autorità giudiziaria ad una attività di questo tipo.

E se non esiste l’autorizzazione di una Procura italiana, ci chiediamo come sia possibile che un agente di polizia possa svolgere questo tipo di condotta senza aver ricevuto un ordine preciso, che in quel caso, sarebbe però stato dato in assenza di autorizzazione da parte dei magistrati. Insomma la vicenda resta assolutamente oscura.

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Gaza - Incertezze sulla tregua. Non bastano più accordi troppo “vulnerabili”

Sull’ipotesi di una tregua a Gaza è stata fatta un po’ di confusione da lunedì scorso, dopo che i media avevano riferito che Hamas aveva accettato un cessate il fuoco di 60 giorni proposto dall’inviato speciale statunitense Witkoff, e che Israele aveva negato che l’offerta fosse sul tavolo.

Ieri, giovedi, Hamas ha fatto sapere che sta studiando una proposta di cessate il fuoco a Gaza avanzata da Witkoff, mentre Israele ha annunciato di aver accettato.

“La leadership del movimento Hamas ha ricevuto la nuova proposta di Witkoff dai mediatori e la sta attualmente studiando in modo responsabile, in un modo che serva gli interessi del nostro popolo, fornisca sollievo e raggiunga un cessate il fuoco permanente nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato il movimento palestinese Hamas.

Witkoff parlando alla Casa Bianca mercoledì si era mostrato ottimista: “Ho delle ottime sensazioni riguardo al fatto di arrivare a... un cessate il fuoco temporaneo e una risoluzione pacifica a lungo termine di quel conflitto”. Trump giovedì ha confermato che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accettato una nuova proposta di cessate il fuoco da Witkoff, ma ha aggiunto che Hamas non aveva ancora accettato.

L’accordo propone il rilascio di 10 prigionieri israeliani vivi e i resti di 18 prigionieri deceduti in due fasi. Metà dei prigionieri saranno rilasciati il primo giorno del cessate il fuoco e l’altra metà il settimo giorno.

In cambio, Israele rilascerà: 180 prigionieri palestinesi che scontano l’ergastolo; 1.111 detenuti palestinesi di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre 2023, e 180 palestinesi deceduti, i cui resti sono detenuti da Israele.

Questi rilasci saranno effettuati in contemporanea, senza cerimonie pubbliche o sfilate.

Tuttavia, le notizie secondo cui Israele e Hamas si stavano avvicinando a un accordo di tregua si sono verificate regolarmente durante questi 18 mesi, per poi svanire pochi giorni dopo.

Hamas e Israele avevano raggiunto un breve cessate il fuoco in tre fasi a gennaio, ma l’accordo è saltato a marzo dopo che Israele, ricondotti a casa molti dei suoi ostaggi, aveva ripreso a bombardare pesantemente Gaza.

Secondo il sito di informazione Axios, l’ultima proposta di Witkoff è simile a quella che Israele ha infranto a marzo e cioè il rilascio degli ostaggi in cambio di 60 giorni di assenza di combattimenti. L’accordo stabilirebbe una tempistica per Hamas e Israele per iniziare a negoziare una fine permanente della guerra e il ritiro delle truppe israeliane. Da allora sono cambiati diversi fattori, ma non è chiaro come potrebbero influire sui colloqui.

Middle East Eye riferisce che a maggio, l’amministrazione Trump ha iniziato a fare affidamento su un nuovo intermediario con Hamas: l’uomo d’affari palestinese-americano Bishara Bahbah. Il presidente nazionale degli arabi americani per Trump, avrebbe stabilito un canale di collegamento diretto tra Hamas e l’amministrazione Trump, un canale che ha portato a inizio maggio al rilascio del soldato israeliano-americano Edan Alexander.

Hamas vuole la garanzia che, in cambio della restituzione dei 20 ostaggi che si ritiene siano vivi, Israele accetterà la fine permanente della guerra, mentre i media israeliani hanno riferito giovedì che Netanyahu era pronto ad andare avanti solo con una tregua temporanea. Il premier israeliano ha sistematicamente insistito sul diritto di riprendere le azioni militari e si è impegnato a disarmare ed eliminare totalmente Hamas.

Netanyahu ha anche dichiarato per la prima volta che una delle sue condizioni per porre fine alla guerra era il diritto di mettere in atto il piano lanciato all’inizio di quest’anno da Trump, che chiedeva lo sfollamento forzato dei palestinesi da Gaza. L’esercito israeliano ha riaffermato lunedì scorso che vuole controllare il 75% di Gaza e costringere circa due milioni di palestinesi in una zona ristretta nel sud, vicino al confine egiziano.

I colloqui sono in corso mentre Gaza sprofonda nella morte quotidiana, nel caos e nella fame. Fino a poco tempo fa, Israele aveva bloccato l’ingresso di tutto il cibo, l’acqua e le medicine nell’enclave. Gli Stati Uniti e Israele hanno istituito a maggio un’organizzazione estremamente ambigua negli scopi e nei mezzi, soprannominata Gaza Humanitarian Foundation, per distribuire gli aiuti alla popolazione. La fondazione è stata criticata dall’ONU e da altri gruppi umanitari per aver militarizzato gli aiuti.

Il suo centro di distribuzione a Rafah, gestito da mercenari americani, pochi giorni fa è stato assalito da migliaia di palestinesi affamati e rinchiusi in strette recinzioni per poter ottenere aiuti alimentari. Mercoledì, quattro palestinesi sono morti mentre prendevano d’assalto un magazzino delle Nazioni Unite in cerca di cibo. Mentre solo ieri i bombardamenti israeliani su Gaza hanno ucciso altri 40 palestinesi, la gran parte di cui sono ancora una volta donne e bambini.

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Meloni contro la UE per non mettere ostacoli a Trump

di Emiliano Brancaccio

Ogni finzione rapidamente cade, come un fiore che appassisce. Al detto ciceroniano Giorgia Meloni evidentemente crede poco. Tali e tante sono state le maschere indossate dalla premier da suggerire, piuttosto, una tattica politica fondata su un continuo gioco di mistificazioni al rialzo.

All’assemblea di Confindustria la presidente ha dato ennesima prova di abile camuffamento, quando ha esortato l’Unione Europea a rimuovere quei «dazi interni» che ancora ostacolano il completamento del mercato comune.

La premier ha titillato gli imprenditori invocando un radioso futuro di libertà: rimuovere i lacci e i lacciuoli della normativa europea, per lasciare ai capitalisti tutto lo spazio di manovra che reclamano. Quindi, Meloni ha ricordato uno studio del Fondo monetario internazionale, secondo il quale una burocrazia asfissiante e non armonizzata tra i paesi europei crea costi aggiuntivi che impediscono lo sviluppo dei commerci all’interno dell’Unione.

L’idea della premier, tutt’altro che sottintesa, è che invece di proseguire la guerra commerciale con gli Stati Uniti, l’UE farebbe meglio a mettere ordine nel giardino di casa, cancellando il garbuglio di regole che ostacola lo sviluppo degli scambi all’interno dei confini europei.

Meloni non lo cita espressamente, ma è ben studiato l’implicito richiamo a Mario Draghi e al suo rapporto, che per primo aveva posto il problema politico della rimozione dei «dazi interni» all’Unione Europea. In verità, Draghi aveva insistito sul punto per rimarcare la sopraggiunta esigenza di rendersi un po’ più forti e autonomi, anche rispetto al vecchio e ormai poco affidabile alleato atlantico.

Ma nella retorica di Meloni il messaggio di fondo viene ribaltato. La ricetta draghiana viene evocata per indurre l’Europa ad abbassare le armi nella disputa commerciale con gli Stati Uniti. L’esortazione è chiara: restiamo vassalli, aderiamo al verbo trumpiano del buy American e pensiamo piuttosto a lavare i panni sporchi in casa. Usare persino Draghi pur di compiacere Trump. Il gioco di maschere meloniano si fa ardimentoso.

Ma è nella politica economica che la mistificazione di Meloni raggiunge forse il suo massimo fulgore. La premier, come è noto, deve il suo successo politico all’esaltazione del capitalismo pulviscolare delle piccole e piccolissime imprese nazionali.

Bottegai, commercianti, partite iva e padroncini hanno sempre rappresentato, per la destra di governo, una irrinunciabile base di consenso. Il guaio è che questo italianissimo capitalismo “dei piccoli” è alquanto inefficiente. La sua sopravvivenza è garantita proprio da quelli che ora si usa definire «dazi interni».

Vale a dire, una complicata miscela di sussidi, prebende, aiuti e ostacoli alla concorrenza. Se non fosse per questo coacervo di protezioni statali, larga parte dei piccoli padroni italiani sarebbe già stata spazzata via dall’assalto di imprese più grandi e più solide, molte delle quali provenienti da altri paesi dell’Ue.

In effetti, Draghi e gli altri nemici dei «dazi interni» non hanno mai nascosto questa implicazione. Togliere le barriere legali ai commerci e creare finalmente un vero mercato unico significa favorire una più ferrea competizione tra capitali in Europa.

Con la conseguenza che i pesci più grossi e più forti mangiano i pesci più piccoli e più deboli. In sostanza: pura centralizzazione del capitale nel senso di Marx. Con buona pace della vecchia ideologia italiota del «piccolo è bello».

Quando Meloni gioca a fare la draghiana, si guarda bene dal rivelare che togliere i «dazi interni» significa suonare la campana a morto per buona parte del suo elettorato di riferimento. Non la si può biasimare. In fondo, la platea confindustriale ha plaudito la premier con entusiasmo. I grossi proprietari avranno correttamente pensato: la presidente è finalmente diventata dei nostri. Eppure, lì in mezzo ci sono ancora un bel po’ di rappresentanti del piccolo capitale nazionale.

Nell’accodarsi al giubilo generale non devono aver capito che si invocava il loro funerale.

A quanto pare, le mascherate di Meloni funzionano non soltanto con le classi subalterne ma anche coi piccoli padroni che la osannano. Finché il gioco di finzioni dura, non c’è motivo di smettere.

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La “profilazione razziale” nell’ordine pubblico è un problema serio

Uno studio europeo dice quello che è davanti agli occhi di tutti in qualsiasi stazione ferroviaria o strada e... apriti cielo.

“La nostra raccomandazione verso il governo italiano è che conduca al più presto uno studio indipendente sul fenomeno della profilazione razziale nelle sue forze di polizia, per poter valutare la situazione”. Ad affermarlo è Bertil Cottier, il presidente della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (Ecri) presentando il rapporto.

La vicepresidente dello stesso organismo, Tena Simonovic Einwalter, ha sottolineato che: “È un fenomeno crescente in molti Paesi europei, agenti di polizia fermano le persone basandosi sulla base del colore della pelle, o sulla loro presunta identità o religione, tutto ciò viola i valori europei”.

“Nel nostro report annuale 2024 non citiamo Paesi nello specifico, ma basandoci sui report paese già pubblicati in passato, tra cui quello sull’Italia, possiamo certamente dire che il problema della profilazione razziale nell’operato delle forze dell’ordine è un problema che si riscontra frequentemente in Italia e Francia”, ha aggiunto Tena Simonovic Einwalter.

Lo stesso rapporto indica invece una lieve controtendenza in uno dei paesi in cui il fenomeno negli anni scorsi è stato assai pesante e denunciato sistematicamente: la Gran Bretagna.

Fin qui lo studio segnala un fattore circoscritto invitando a studiarlo per riparare i danni, ma poi allarga la sfera del problema estendendola anche alla politica che in Italia critica i giudici sui processi che riguardano i migranti, ai politici che fanno dichiarazioni omofobe e razziste, etc. con argomentazioni piuttosto consuete ma che battono sui nervi dei partiti di destra oggi al governo in Italia.

Questo secondo aspetto del rapporto della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa è stato meno pubblicizzato, preferendo dare risalto alle osservazioni sui comportamenti delle forze dell’ordine. Da qui la levata di scudi di tutti i ministri, i sottosegretari, i funzionari, gli uscieri della destra a difesa “degli uomini e delle donne in divisa”.

Ma a questo atteggiamento della destra si è allineato anche il Presidente della Repubblica Mattarella, che solo fino a ieri ci ha ripetuto un giorno si e un giorno pure che bisogna essere sempre allineati e obbedienti all’Europa, ai suoi valori e alle sue istituzioni.

Ma c’è veramente qualcosa di inedito, non veritiero o scandaloso nel rapporto del Consiglio d’Europa? Se un qualsiasi osservatorio indipendente “italiano” monitorasse quanto avviene nelle stazioni e nelle strade italiane giungerebbe alle medesime conclusioni. È forse sfuggito a molti quanto accade e quanto è accaduto nei mesi invernali davanti agli Uffici Stranieri delle Questure dove si rinnovano i permessi di soggiorno? Era alla luce al sole. Eppure sarebbe bastato un minimo di organizzazione e bendisposizione in più per evitare file vergognose e perfino alcuni decessi in strada.

Il fatto che la marginalità e l’illegalità vedano spesso coinvolti cittadini stranieri – spesso abbandonati in un limbo a vagare per le strade senza vedere alcuna luce in fondo al tunnel dopo essere riusciti ad arrivare qui – già darebbe una cornice oggettiva a comportamenti soggettivi. Ma quando è la stessa politica istituzionale a fomentare comportamenti scorretti o arbitrari da parte di “uomini e donne in divisa”, è chiaro che prima e o poi la contraddizione balza agli occhi. Anche in quelli di organismi europei adorati da alcuni e detestati da altri, a seconda delle circostanze.

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L’Unione Europea incassa il suo bottino di guerra

L’UE ha stanziato fino a 150 miliardi di euro per l’acquisto congiunto di armamenti. Il provvedimento è entrato in vigore giovedì dopo che mercoledì, a seguito di due mesi di negoziati, era stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale comunitaria.

Si tratta del regolamento “che istituisce lo strumento ‘Misure di sicurezza per l’Europa (SAFE) attraverso il rafforzamento dell’industria europea della difesa’”, adottato il giorno prima dai cosiddetti ministri europei per l’Europa.

Lo stesso giorno, il cancelliere Friedrich Merz (CDU) ha dichiarato in occasione della consegna del Premio Carlo Magno di Aquisgrana alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Dovremo sviluppare ulteriormente il progetto di pace europeo, che ha avuto così tanto successo all’interno, in un progetto di pace anche all’esterno”. L’Ue-Europa deve diventare così forte “da poter riportare la pace nel nostro continente e garantire la libertà a lungo termine”.

Von der Leyen ha presentato SAFE il 4 marzo come parte del suo piano “Riarmare l’Europa” in cinque punti. Per giustificare ciò, ha detto che “Siamo in un’epoca di riarmo”. Il piano potrebbe consentire ai paesi dell’UE di investire fino a 800 miliardi di euro nel settore della difesa entro il 2030. All’epoca, ha spiegato che si trattava “dell’urgenza a breve termine” di sostenere l’Ucraina e di “soddisfare la necessità a lungo termine di assumersi molte più responsabilità per la nostra sicurezza europea”.

SAFE fornisce fondi per progetti di armamenti sotto forma di prestiti garantiti dal bilancio dell’UE. Secondo von der Leyen, sarà disponibile per “difesa aerea e missilistica, sistemi di artiglieria, missili e droni, munizioni, nonché sistemi anti-drone, ma anche difesa informatica e mobilità militare”.

Il ministro polacco per l’Europa Adam Szłapka ha dichiarato martedì a nome dell’attuale presidenza del Consiglio dell’UE del suo paese: “Questo è uno strumento senza precedenti che rafforzerà le nostre capacità di difesa e sosterrà la nostra industria della difesa”.

Di conseguenza, l’emittente Euronews aveva già celebrato la decisione SAFE a livello di ambasciatori il 21 maggio con “L’Europa prende le armi”. Martedì, la Frankfurther Allgemeine Zeitung ha proseguito: “Finalmente procuratevi le armi insieme”. Il documento analizzava che SAFE dovrebbe “produrre la prossima generazione di sistemi d’arma europei” ed essere “la leva più importante per consolidare l’industria europea degli armamenti, e quindi ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti”. Qui sta la sua importanza strategica.

Il programma è quindi orientato a livello globale: oltre ai 27 Stati dell’UE, sono ammessi a partecipare i quattro Stati dell’Associazione europea di libero scambio – Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein – e l’Ucraina. È inoltre aperto a tutti i paesi candidati all’adesione all’UE e ai paesi con i quali l’UE ha un partenariato in materia di sicurezza: Giappone, Corea del Sud e Regno Unito. Secondo le informazioni della FAZ, sono in corso colloqui anche con l’Australia e l’India.

Accettando il Premio Carlo Magno, von der Leyen ha ribadito l’affermazione globale: “Un nuovo ordine internazionale emergerà prima della fine di questo decennio”. Deve essere plasmato dall'“Europa”: “La nostra missione è l’indipendenza europea” Diverse centinaia di manifestanti hanno protestato contro i piani di riarmo ad Aquisgrana giovedì.

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Panama il governo dichiara lo Stato di emergenza nella provincia nord orientale di Bocas del Toro

La struttura economica e sociale postcoloniale dei paesi latinoamericani causa scatenante delle cicliche ondate di proteste che scuotono tutt’oggi il subcontinente

A seguito dell’approvazione, da parte del parlamento controllato dalla destra, della legge 462 di riforma del Fondo di previdenza sociale che ha introdotto significativi tagli alle pensioni, il 28 aprile scorso il principale sindacato, il Suntracs, ha indetto uno sciopero ad oltranza al quale hanno aderito, oltre a insegnanti, edili, medici ed altre categorie, soprattutto i braccianti delle piantagioni di banane.

Per circa un mese il paese è stato attraversato da proteste, manifestazioni e blocchi stradali anche con scontri con la polizia che ha attuato la repressione dei manifestanti.

La crisi è andata avvitandosi in uno scontro frontale sempre più aspro in quanto la multinazionale statunitense Chiquita, proprietaria di numerose piantagioni nel paese, ha disposto il licenziamento di 4.800 lavoratori giornalieri su un totale di 7.000 dipendenti.

Il Tribunale del Lavoro ha dichiarato illegale lo sciopero autorizzando anche l’allontanamento dei raccoglitori dal posto di lavoro.

Il sindacato di categoria dei bananieri, Sitraibana, ha reagito duramente alla decisione del Tribunale dichiarando perfettamente legale lo sciopero e addossando tutte le responsabilità delle proteste alla maggioranza parlamentare e al presidente José Raul Mulino, entrambi di destra. Quest’ultimo ha inoltre preso le parti della multinazionale statunitense ed ha definito “intransigente e ingiustificato lo sciopero” minacciando lo Stato di emergenza nella provincia di Bocas del Toro, epicentro delle proteste, in caso di prosecuzione delle stesse.

Provvedimento che ha poi realmente adottato il 28 maggio a carico della suddetta provincia aprendo scenari imprevedibili alla crisi in atto.

Lo stato di Panama sta attraversando una fase storica delicata a causa delle rivendicazioni di Trump sull’omonimo Canale, delle forti proteste sociali che lo stanno scuotendo all’interno e delle ricadute negative sulla propria economia.

Lo stato istmico è il 13° esportatore mondiale di banane e gli introiti derivanti, pari a 273 milioni di $ annui, costituiscono la seconda voce di ingresso di valuta pregiata nel paese, dopo i pedaggi del Canale. Secondo quanto dichiarato dalla Chiquita, la ex United Fruit Company, gli scioperi avrebbero causato danni irreversibili per 75 milioni di $.

La vicenda in corso a Panama è frutto delle caratteristiche economiche e sociali dei paesi latinoamericani, in particolare di quelli dell’area centrale, nei quali le oligarchie postcoloniali al potere saldano storicamente i loro interessi a quelli delle multinazionali estere, a discapito della grande maggioranza della popolazione vessata da forti disuguaglianze interne e marcate ingiustizie sociali.

Un caso paradigmatico, quello in corso a Panama, della realtà latinoamericana nella quale la struttura economica e sociale risulta, nella maggior parte dei suoi paesi, ancora oggi quella ereditata dal colonialismo, determinando così le condizioni strutturali affinché proteste, scontri e repressioni si ripresentano ciclicamente a tutte le sue latitudini.

L’inizio della penetrazione economica degli Stati Uniti in America Latina

L’imprenditore statunitense Henri Meiggs nel 1881 ottenne dal governo del Costa Rica la concessione per la costruzione di una ferrovia. Il nipote di quest’ultimo, Minor C. Keith, proseguendo l’opera dello zio decise di piantare alberi di banano lungo la ferrovia per nutrire i lavoratori; e quando lo stato del Costa Rica non fu più in grado di finanziare i lavori, propone di completarli in cambio di un’ampia porzione di territorio lungo la ferrovia che avrebbe collegato le due coste del Paese. Keith ottenne così più di 3.000 km2 di terreno esentasse e il diritto di gestire la ferrovia fra San Josè, la capitale, e Puerto Limon, sulla costa caraibica, per 99 anni e, una volta completata la ferrovia, iniziò a esportare banane verso gli Stati Uniti e l’Europa. Divenendo gli affari sempre più propizi, Keith imbastì una proficua collaborazione con Andrew Preston, proprietario della Boston Fruit Company, e Lorenzo Dow Baker che portò alla fondazione nel 1899 della United Fruit Company (Ufco), considerata la prima multinazionale contemporanea. Società abile a costruirsi un vero e proprio impero bananiero sulle coste atlantiche dell’America istmica e su quelle del Venezuela, della Colombia e dell’Ecuador.

Agli inizi del ‘900 la United Fruit Company ottenne un vasto territorio sulla costa pacifica del Guatemala per la coltivazione di banane e il diritto esclusivo di gestione del servizio postale fra il Paese centramericano e gli Stati Uniti. Inoltre, fondò la “Guatemalan Railroad Company” per la realizzazione della ferrovia fra Città del Guatemala e Puerto Barros sulla costa atlantica, previo contratto di utilizzo gratuito per 99 anni. Successivamente, la United Fruit sottoscrisse contratti analoghi anche con altri Paesi latinoamericani dell’area tropicale che prevedevano la costruzione di linee ferroviarie in cambio di grandi superfici di territorio, nelle quali vennero create enormi piantagioni monocolturali di banani, impiantate, a danno delle foreste pluviali, in prossimità delle coste atlantiche del Centro e del Sud America, a pochi giorni di navigazione dagli Stati Uniti.

Il successo economico della United Fruit provocò consistenti danni ambientali e socio-economici a svantaggio dei Paesi che le concedevano i territori, le cui strutture politiche all’inizio del ‘900 risultavano instabili, autoritarie, facile preda della corruzione e con un’economia incentrata sul settore primario, con scarsità di capitali, infrastrutture e servizi, non che con la maggioranza della popolazione in stato di povertà. Presentando le condizioni ottimali per la penetrazione della United Fruit, questi Paesi vennero, proprio in quel periodo, beffardamente definiti Repubbliche delle banane, intendendo con tale termine un “finto regime repubblicano dell’America Latina il cui potere è detenuto da un’oligarchia corrotta o da un leader che usa metodi dittatoriali” asservito agli interessi degli Stati Uniti.

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La scienza cieca: perché stiamo perdendo la capacità di vedere (e con essa, la comprensione)

Nel mondo della ricerca scientifica contemporanea, produciamo più immagini e dati visivi di quanti siamo in grado di comprendere. Pubblicazioni che si moltiplicano, preprint ovunque, microscopi sempre più sofisticati, algoritmi che generano grafici e heatmap a velocità crescente. Eppure, diminuisce la capacità, e forse anche la volontà, di guardare davvero. Propongo una riflessione su una crisi che è insieme epistemologica, tecnica e culturale: la perdita della capacità di “vedere” in senso pieno, e con essa l’indebolimento della nostra facoltà di interpretare, contestualizzare, persino dubitare. Dalla marginalizzazione della morfologia alla sfida delle immagini sintetiche generate dall’intelligenza artificiale, passando per gli errori della pandemia, ci troviamo oggi davanti a una scienza che rischia di diventare cieca nella sua stessa accelerazione.

Ed è proprio per questo che, paradossalmente, serve tornare a guardare: con occhi umani, lenti e consapevoli.

Una crisi globale della visione scientifica

La scienza moderna deve gran parte dei suoi trionfi alla capacità di vedere oltre i limiti naturali dei nostri sensi. Dalla lente di Galileo che rivelò nuovi astri al microscopio di Hooke che svelò l’esistenza delle cellule, l’osservazione diretta ha illuminato territori sconosciuti, ampliando la comprensione del mondo [1].

Oggi, però, nell’era dei big data e delle analisi automatizzate, si profila un paradosso inquietante: disponiamo di strumenti di osservazione sempre più potenti, eppure stiamo perdendo la capacità di vedere nel senso più profondo del termine. Questa “cecità” della scienza non è ovviamente una mancanza di vista fisica, ma il sintomo di un progressivo smarrimento dell’intuizione visiva e concettuale che collega i dati alla comprensione della realtà. A livello globale, l’attività scientifica sta vivendo una crescita esponenziale nella produzione di risultati. Ogni anno vengono pubblicati oltre 2,5 milioni di articoli scientifici nel mondo, una mole impressionante se paragonata ai circa 800 mila di inizio millennio e ancor più ai circa 200 mila degli anni ’70. Questa abbondanza informativa, tuttavia, non si è tradotta in un equivalente avanzamento della conoscenza profonda. Al contrario, diversi studi segnalano un rallentamento del progresso in settori chiave della scienza [2]. Un’analisi bibliometrica su decine di milioni di lavori scientifici ha mostrato che le ricerche davvero dirompenti, quelle capaci di aprire nuove strade e rivoluzionare i paradigmi esistenti, sono proporzionalmente sempre più rare [2]. Oggi è statisticamente meno probabile rispetto alla metà del Novecento che un singolo studio “cambi il corso” di un intero campo scientifico. Questo declino nella visione innovativa della scienza è emerso trasversalmente in tutti i settori ed è così marcato da aver suscitato un diffuso “esame di coscienza” nella comunità scientifica internazionale. Ci si interroga sulle cause profonde di tale tendenza: perché, nonostante più scienziati che mai lavorino e pubblichino, stiamo assistendo a una sorta di miopia collettiva che impedisce di cogliere scoperte di grande portata?

Una delle spiegazioni avanzate riguarda l’iperspecializzazione e l’eccesso di informazioni. Man mano che la conoscenza si accumula, i ricercatori tendono a focalizzarsi su ambiti sempre più ristretti, attingendo a un corpus limitato di letteratura precedente. Uno studio recente ha collegato il calo di scoperte dirompenti proprio al progressivo restringimento dell’orizzonte bibliografico [2]. In questo modo, il sapere scientifico procede con il paraocchi, avanzando in profondità su binari già tracciati ma perdendo di vista visioni laterali potenzialmente rivoluzionarie.

A ciò si aggiunge la sovrabbondanza di dati: paradossalmente, l’oceano di risultati disponibile rischia di sommergere la capacità umana di discernimento. Orientarsi in mezzo a migliaia di articoli anche solo nel proprio micro-settore diventa arduo; figuriamoci mantenere una visione d’insieme. Come osservano in molti, i ricercatori di oggi devono leggere (e spesso recensire) un numero enorme di lavori, ma il tempo per riflettere e vedere oltre le evidenze immediate è sempre più scarso. Un ulteriore segnale di questa “cecità” emergente è la crisi di comprensione che porta a errori e inciampi nel metodo scientifico stesso. Negli ultimi anni si parla diffusamente di crisi della replicazione: molti studi, specie in biomedicina e psicologia, si sono rivelati non riproducibili quando altri gruppi hanno cercato di replicarne i risultati [3]. Questo fenomeno indica che a volte si pubblicano conclusioni senza averle comprese a fondo, magari affidandosi a elaborazioni statistiche o software sofisticati senza un controllo empirico diretto.

Il caso COVID-19: quando l’immagine tradisce

La crisi di interpretazione visiva nella scienza non è un’astrazione teorica. Ha avuto, anzi, un’espressione concreta e drammatica proprio durante la pandemia da COVID-19.

Riporto qui un esempio che mi ha riguardato da vicino. Nella corsa sfrenata a pubblicare risultati e comprendere il nuovo virus, numerosi studi affermarono di aver identificato SARS-CoV-2 nei tessuti umani tramite microscopia elettronica. Ma molti di quei lavori furono successivamente messi in discussione: quello che si credeva virus era, in realtà, altro: vescicole, strutture intracellulari normali, artefatti di preparazione. I lavori di Dittmayer, Bullock e Hopfer hanno documentato l’ampiezza di queste interpretazioni errate [4–6], segnalando una verità scomoda: l’ultrastruttura non mente, ma chi la legge può sbagliare. Nel nostro gruppo, abbiamo analizzato tessuti polmonari di pazienti deceduti per COVID-19 tramite “cryobiopsie” post-mortem. Il nostro studio ha mostrato una dissociazione tra il danno alveolare e la presenza virale osservabile al microscopio elettronico, suggerendo che la patologia era più complessa e meno riconducibile a una semplice “presenza del virus nei tessuti” [7]. È stato un esempio lampante di quanto la qualità dell’immagine non basti, se manca la capacità di interpretarla nel contesto biologico ed esperienziale.

La nuova minaccia: immagini sintetiche e automatismi ciechi

Oggi, la sfida si è spostata ancora più avanti. Le immagini scientifiche non sono più solo suscettibili di errori umani: possono essere interamente generate artificialmente.

Con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa, è ormai possibile creare immagini fotorealistiche e biologicamente plausibili senza alcun esperimento reale a monte.

Se già l’integrità visiva era sotto pressione (con ritrattazioni legate a manipolazioni di immagini), oggi ci troviamo di fronte a un rischio più profondo: che la scienza visiva diventi simulacro, e non più testimonianza [8–9]. Strumenti come Proofig o ImageTwin, nati per verificare la correttezza delle immagini, sono ormai fondamentali [https://www.proofig.com; https://imagetwin.ai]. Ma nessun algoritmo può sostituire lo sguardo critico di chi conosce davvero la biologia delle strutture. Per questo motivo si moltiplicano gli appelli a costruire modelli di governance per l’uso dell’AI in scienza, incentrati sul principio del “human-in-the-loop” [10–11].

Una cultura della visione per il futuro

Di fronte a questi scenari, non bastano più controlli, checklist o software. Serve un cambio di paradigma: ricostruire una cultura della visione che tenga insieme forma, contesto e significato. Una cultura che riconosca che il “vedere” in scienza è un atto cognitivo, situato, interpretativo. Alcune iniziative internazionali vanno in questa direzione: i protocolli di QUAREP-LiMi [https://quarep.org/], i metadati nei repository, i corsi di image ethics.

Ma senza una figura capace di interpretare ciò che si vede, anche il miglior protocollo è vuoto. Quella figura è il morfologo. O meglio, come mi piacerebbe definirlo, lo “scienziato visivo”. Questa figura ha bisogno di riconoscimento istituzionale: non può essere relegata al ruolo di tecnico, né ai margini dei progetti. Ha bisogno di carriera, di spazi, di voce. E ha bisogno di essere formata, non improvvisata. Perché vedere bene non è un’abilità automatica, ma una competenza che si apprende nel tempo, con esperienza e guida. La scienza ha bisogno, oggi più che mai, di chi sa guardare anche quando tutto sembra perfettamente digitalizzato. Perché se la scienza smette di vedere, smette anche, lentamente, di capire.

Riferimenti

  1. Belknap, K. (2019). 150 years of scientific illustration. Nature, 576(7785), S60–S61. https://doi.org/10.1038/d41586-019-03306-9
  2. Park, M., Leahey, E., & Funk, R. J. (2023). Papers and patents are becoming less disruptive over time. Nature, 613, 138–144. https://doi.org/10.1038/s41586-022-05543-x
  3. Ioannidis, J. P. A. (2022). Correction: Why Most Published Research Findings Are False. PLOS Medicine, 19(8): e1004085. https://doi.org/10.1371/journal.pmed.1004085
  4. Dittmayer, C., et al. (2020). Why misinterpretation of electron micrographs in SARS-CoV-2-infected tissue goes viral. The Lancet, 396(10260), e64–e65. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)32160-8
  5. Bullock, H. A., Goldsmith, C. S., Zaki, S. R., Martines, R. B., & Miller, S. E. (2021). Difficulties in Differentiating Coronaviruses from Subcellular Structures in Human Tissues by Electron Microscopy. Emerging Infectious Diseases, 27(4), 1023–1031. https://doi.org/10.3201/eid2704.204337
  6. Hopfer, H., et al. (2021). Hunting coronavirus by transmission electron microscopy—a guide to SARS-CoV-2-associated ultrastructural pathology in COVID-19 tissues. Histopathology, 78(3), 358–370. https://doi.org/10.1111/his.14264
  7. Cortese, K., et al. (2022). Ultrastructural examination of lung “cryobiopsies” from a series of fatal COVID-19 cases hardly revealed infected cells. Virchows Archiv, 480(5), 967–977. https://doi.org/10.1007/s00428-022-03308-5
  8. Bucci, E. M., & Parini, A. (2025). The Synthetic Image Crisis in Science. American Journal of Hematology. https://doi.org/10.1002/ajh.27697
  9. Bik, E. M., Casadevall, A., & Fang, F. C. (2022). Insights into image integrity: a machine-learning perspective. Patterns, 3(9), 100520. https://doi.org/10.1016/j.patter.2022.100520
  10. Thorp, H. H. (2024). Genuine images in 2024. Science, 383(6678), 7. https://doi.org/10.1126/science.adn7530
  11. Vasconcelos, S., & Marušić, A. (2025). Gen AI and research integrity: Where to now? EMBO Reports. https://doi.org/10.1038/s44319-025-00424-6

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29/05/2025

Frusciante al Cinema: I colori dell'anima - The colors within (2024) di Naoko Yamada

La Germania di Merz corre alla guerra

“La Germania è tornata!”, aveva affermato trionfante Fridrich Merz, a marzo, dopo l’accordo sulla riforma costituzionale, ottenuta facendo votare un Parlamento già sciolto (le elezioni si erano tenute il 23 febbraio, ma nel nuovo non avrebbe ottenuto la maggioranza dei due terzi).

Ma pochi – noi fra questi – avevano colto in quelle sue parole una minaccia implicita al resto d’Europa, nonché ovviamente alla Russia.

Neanche due mesi dopo, varando il maxi-piano di riarmo tedesco, ha promesso una svolta, per rilanciare la stanca economia tedesca e per fare dell’esercito «la più potente forza armata convenzionale d’Europa», la Bundeswehr avrà «tutte le risorse finanziare di cui avrà bisogno».

Anche in questo caso pochi hanno fatto caso alla non piccola differenza tra “fare un grande esercito europeo” (che è per ora la linea ufficiale della UE secondo la dottrina Draghi-von der Leyen) e “fare l’esercito più potente d’Europa”, come direbbe un camerata di Orbàn o Le Pen. Quasi un addio alle pratiche sovranazionali che passano da Bruxelles per progettare un futuro da nuovo Reich dominante su un continente. Con nemico principale la Russia, come sempre, ma dopo aver ridotto all’obbedienza i partner perditempo e indebitati (che insomma non possono fare investimenti in armi così colossali come prevede Berlino).

E non sembra un dettaglio che questo “potente riarmo tedesco” sarà di fatto operativo – le armi vanno costruite o comprate, ci vogliono tempi non brevi – quando probabilmente il primo partito di Germania sarà la neonazista AfD, che va conquistando consensi proprio grazie ai bassi salari, i diritti del lavoro in ritirata, il welfare tagliato, ecc. (se spendi per la armi, dice pure quel poco di buono di Mark Rutte – neosegretario della Nato – “devi tagliare la spesa sociale”).

Un risultato davvero molto “democratico”: una Germania nuovamente nazista e debitamente riarmata... 

Per portarsi aventi col lavoro, Merz ha deciso anche di superare i vecchi limiti di utilizzo dei missili tedeschi Taurus da parte dell’Ucraina. Poi ha fatto marcia indietro nella retorica (dalla Russia erano filtrate le parole “Oreshnik” – i nuovi missili ipersonici non ancora intercettabili – e “Berlino”, insieme e con intenti non esattamente benevoli), ma è andato avanti nella pratica.

Nella sua prima visita ufficiale in Germania dopo le elezioni, Zelenskij ha infatti incassato la promessa di 5 miliardi di ulteriori aiuti e la costruzione in Ucraina della prima fabbrica d’armi tedesca, anche per assemblare i Taurus a più lunga gittata, esplicitamente mirati a «indebolire la macchina di guerra di Mosca».

«D’ora in poi non ci sarà più alcuna restrizione di gittata per le armi tedesche. In questo modo l’Ucraina sarà in grado di difendersi completamente, anche contro obiettivi militari situati al di fuori del suo territorio», riassume il cancelliere.

Non ci vuole un genio per capire che anche soltanto dire una cosa del genere – per tre anni evitata persino da Biden, che questo conflitto l’aveva voluto – significa dichiarare guerra, sia pure per interposto esercito. Anche perché tutti gli esperti di cose militari sanno che per guidare missili confezionati da altri – i tedeschi, nel caso dei Taurus – serve personale tecnico militare del “fabbricante”. Ossia la Germania.

Cosa peraltro ammessa dallo stesso comandante della Luftwaffe, il tenente generale Ingo Gerhartz, quando ha confermato che i dati di puntamento per i missili Taurus avrebbero dovuto essere programmati direttamente dallo staff tedesco.

Auguri per la fabbrica, dunque, visto come stanno andando le cose sul terreno. Appare molto probabile che non sfornerà mai il missile “numero uno”, diventando assai prima un bersaglio privilegiato dei migliori missili che i russi hanno a disposizione.

La reazione ufficiale di Mosca, affidata al ministro degli esteri Lavrov, è stata infatti secca: «Azione irresponsabile. Non è altro che un tentativo per costringere gli ucraini a continuare a combattere. Così la Germania affossa gli sforzi per trovare una soluzione diplomatica al conflitto».

Quella non ufficiale, come sempre, è stata affidata a figure meno note, ma non proprio di secondo piano.

Il presidente russo del Comitato di difesa della Duma di Stato, Andrey Kartapolov, ha osservato che la Russia potrebbe potenzialmente colpire non solo le postazioni di lancio dei Taurus, ma persino “qualunque sia il luogo da cui i Taurus vengono portati”. Vago, ma proprio perciò molto ruvido... 

Resta perciò la domanda: quanto può essere stupido un governante che si muove in questo modo – praticamente da solo in Europa, visto che anche i “volenterosi” stanno per ora “marcando visita”, e proprio quando la superpotenza Usa si va sfilando, se non altro, da un incremento di forniture per Kiev – contro una potenza nucleare dotata di quasi 6.000 testate?

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