Lunedì il governo ha approvato un nuovo disegno di legge per la riforma del reclutamento dei docenti universitari. Dopo il tanto discusso e osteggiato ddl 1240, ora il Ministero dell’Università interviene su un altro degli annosi problemi degli atenei italiani, arrivando persino a peggiorare la situazione.
Con la nuova normativa, infatti, si vuole sostituire l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), introdotta nel 2010 dalla riforma Gelmini. Si tratta di un titolo di idoneità all’assunzione al primo gradino della docenza universitaria – quello di professore associato – che viene rilasciato da una commissione nazionale.
Ovviamente, ottenere l’Abilitazione non significa automaticamente diventare docente: ci sono poi da vincere i concorsi organizzati dai vari atenei. Oltre a varie storture del sistema che qui non ripercorreremo, il più palese scompenso di questo meccanismo è quello che si è venuto a creare tra il numero degli abilitati e quello di chi, effettivamente, assume un ruolo stabile nell’università.
E allora, la ministra Bernini ha fatto quello che è sempre riuscito meglio a questa classe dirigente priva di qualsiasi visione del futuro: ha preso un problema strutturale del paese, ne ha ribaltato i rapporti causali, e ha promosso una riforma che andrà a smantellare l’istruzione universitaria e la ricerca accademica.
In un paese che, stando a dati dell’OCSE del 2020, ha un numero di professori accademici in relazione agli studenti inferiore a quello della media generale e nettamente più basso di quello di Germania e Spagna, invece di stabilizzare chi ha già conseguito l’ASN, aumentando così gli organici e garantendo un’istruzione migliore, si cancella l’ASN per far scomparire questa asimmetria.
Lo ribadiamo: il sistema dell’Abilitazione aveva già di per sé molti difetti, ma non è eliminandolo che si risolve il nodo di un’università che manca di professori che però non vuole aprire le porte a un gran numero di studiosi ultraformati, piano piano espulsi dall’accademia e, spesso, persi nell’emigrazione a cui si trovano costretti per mancanza di opportunità in Italia.
Ma c’è di più. Il nuovo meccanismo introdotto da Bernini si fonda su di un’autocertificazione da parte del singolo aspirante docente (o singoli ricercatore a tempo determinato, perché varrà anche per loro), che assicura di avere i requisti minimi nazionali per l’assunzione. Ogni ateneo bandirà poi il concorso che gli interessa, in un processo che va a rafforzare l’autonomia universitaria.
Chi mastica un poco l’argomento, sa benissimo che in questo settore autonomia significa la polarizzazione della qualità dell’offerta formativa, e la facilitazione della penetrazione degli interessi privati nell’università. A ciò aiuterà anche il sistema di valutazione del lavoro dei docenti, che avverrà ogni due anni.
Essa consisterà, innanzitutto, nel giudizio sulla produttività, e dunque sul numero di pubblicazioni – la logica del publish or perish che, come è facile immaginare, spinge a prediligere la quantità sulla qualità del lavoro. Chi vanterà i risultati migliori riceverà più fondi: rimane dunque intatta la logica premiale dell’assegnazione delle risorse, che non fa che cristallizzare le storture esistenti.
È facile poi immaginare che, per vincere in questa competizione, in molti si metteranno maggiormente a disposizione del privato, per avere in cambio più soldi, strutture, possibilità, e dunque a sua volta finirà col ricevere anche più fondi pubblici. Una spirale di distruzione dell’istruzione pubblica di cui, a lungo andare, ne sta evidentemente risentendo anche il sistema-paese.
La mancanza di qualsiasi visione strategica e la mortificazione continua delle menti e dei talenti dei giovani è confermata anche dalla quasi contemporanea approvazione dell’emendamento Occhiuto-Cattaneo al decreto PNRR Scuola. Il provvedimento introduce l’incarico di ricerca e l’incarico post-doc, per evitare innanzitutto una figuraccia con l’esclusione di molti studiosi dai progetti europei.
Si tratta in entrambi i casi di contratti a tempo determinato, da uno a tre anni, la cui selezione sarà definita dalle singole istituzioni. In pratica, la prateria del baronato e del nepotismo. Non solo: sono finanziabili dalle università, ma anche da enti terzi. È il colpo definitivo all’istruzione pubblica, e il totale asservimento della ricerca agli interessi privati (e di guerra).
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