Il ceto medio in Italia è stato per decenni il corpaccione sociale della stabilità, ma anni di austerity e misure regressive su salari e domanda interna ne hanno sgretolato le fondamenta, anche se non ancora la perceziona di sè.
Quello che si percepisce come ceto medio, viene ritenuto troppo ricco per poter usufruire del welfare, ma poi si scopre troppo povero per poterne fare a meno e investire sul futuro. Due italiani su tre – quelli che per il socialdemocratico tedesco Peter Glotz definivano la società dei due terzi – si possono inserire in questa categoria, ma più della metà teme che in futuro i propri figli staranno peggio dei loro genitori. Non solo. Il ceto medio italiano non definisce se stesso attraverso il reddito, ma attraverso la cultura e i titoli di studio. Il 66% degli italiani si riconosce così nel ceto medio, e per oltre il 90% ciò che conta davvero è il sapere, il livello di istruzione, le competenze acquisite, anche se ammette che questi valori non trovano più riscontro nella realtà economica.
È questo il ritratto del ceto medio italiano emerso dal 2° rapporto Cida-Censis “Rilanciare l’Italia dal ceto medio. Riconoscere competenze e merito, ripensare fisco e welfare”, commissionato da CIDA, la Confederazione Italiana dei Dirigenti e delle Alte Professionalità.
Negli ultimi anni, più del 50% degli italiani che rappresentano il corpo sociale centrale del Paese ha visto i propri redditi fermarsi, e addirittura più di uno su quattro lo ha visto diminuire. Solo il 20% dichiara di aver registrato un miglioramento del proprio reddito.
Anche le capacità di risparmio stanno scricchiolando, il 46% ha ridotto la capacità di accantonare risorse, e il 44% prevede un peggioramento nei prossimi tre anni. Una delle conseguenze di questo ferreo blocco dell’ascensore sociale, è che il 50% dei genitori – tra coloro che si ritengono ceto medio – ritengono che i propri figli staranno economicamente peggio di loro e auspica che vadano a cercare opportunità all’estero.
Il 67% delle famiglie di ceto medio con figli conviventi sostiene spese straordinarie per garantire un futuro ai figli, mentre oltre il 41% aiuta economicamente figli e nipoti, confermandosi come primo ammortizzatore sociale del Paese. Tra i pensionati, il 47% aiuta regolarmente figli o nipoti, e il 66% ha finanziato o finanzierà almeno una spesa straordinaria.
Solo il 52% degli intervistati si sente protetto dagli strumenti del welfare, gli altri oscillano tra ansia, incertezza e vera e propria insicurezza. Di fronte a questa percezione di inadeguatezza, cresce la corsa al welfare integrativo: il 45% possiede una polizza sanitaria o un fondo pensione e circa il 36% vorrebbe che il contratto collettivo del settore in cui lavora prevedesse la sanità integrativa. Anche lavorare di più non conviene perchè salire nelle fasce di reddito significa perdere i benefici del welfare.
Il 70% degli italiani chiede poi meno tasse sui redditi lordi, e oltre l’80% denuncia un grave squilibrio tra ciò che si versa e ciò che si riceve in termini di servizi pubblici. La pressione fiscale viene percepita come eccessiva e iniqua, soprattutto per chi lavora, produce, risparmia, investe.
Il Rapporto Cida-Censis non ci presenta sorprese straordinarie. Di crisi dei ceti medi si parla ormai da almeno un paio di decenni, ma quella che ieri era una tendenza oggi è diventata una realtà, non solo materialmente ma anche nella percezione dei soggetti in questione, il che produce comportamenti politici conseguenti, alimentando l’astensionismo elettorale o il voto per vendetta piuttosto che quello per consenso. Fallite le aspettative del 2013-2019 sul M5S, al momento sembra la destra quella attrezzata ideologicamente meglio per intercettarlo. E questo è un serio problema per il futuro di questo paese.
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