Le ultime statistiche aggiornate e diffuse da parte dell’Istat per ciò che riguarda l’inflazione del mese di aprile mostrano come sia spesso necessario saper leggere i dati per capire dove sta ‘la fregatura’. Ad esempio, quelli sugli aumenti di prezzi devono essere ben compresi per capire quali settori sociali ne subiscono gli effetti peggiori.
Ad esempio, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, è aumentato dello 0,1% su base mensile, ma su base annuale è rimasta stabile rispetto a marzo (+1,9%). Questo valore è stato salutato come un segnale positivo, poiché è un dato leggermente inferiore rispetto alle stime preliminari (+2%).
Sia chiaro: l’inflazione è comunque in positivo e le retribuzioni, nonostante i recenti rinnovi di vari contratti nazionali, non riescono a stare assolutamente al passo dei prezzi. A febbraio 2025 i salari reali del settore privato non agricolo risultavano ancora inferiori dell’8% rispetto ai livelli del 2021, mentre l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha segnalato che l’Italia è il paese del G20 ad aver subito la perdita più marcata in termini di potere d’acquisto dal 2008.
Ma se inoltre andiamo a scomporre il dato sull’inflazione e osserviamo le varie voci che lo compongono, notiamo che gli alimentari passano dal +2,4% al +3% e i servizi relativi ai trasporti schizzano da +1,6% a +4,4%. Anche l’inflazione di fondo, l’indice che fotografa l’andamento dei prezzi senza i prodotti alimentari ed energetici – più volatili – passa dal +1,7% di marzo al +2,1% di aprile.
Chiudiamo con il ‘carrello della spesa’, ovvero i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona, e dunque la spesa tipica di una famiglia, che ha registrato l’aumento del tasso tendenziale di variazione, da +2,1% a +2,6%. È chiaro che questo tipo di acquisti impattano in maniera più pesante sui redditi da lavoro, cioè sulla maggioranza della popolazione.
Ricordiamo che, sempre secondo l’Istat, nel 2024 si finiva entro il rischio di povertà con un reddito netto di circa 1.030 euro al mese, e nel 2022 l’ente di statistica calcolava che uno stipendio su tre tra i lavoratori dipendenti del privato rimaneva sotto i mille euro lordi mensili. Fa ancora più arrabbiare, dunque, la rivendicazione da parte di Giorgia Meloni degli ottimi risultati del comparto turistico.
Intervenendo alla 75esima assemblea di Federalberghi, dove è stata accolta con entusiasmo la notizia del superamento della Francia per il numero di presenze nel 2024 (458 milioni), la presidente del Consiglio ha parlato del settore come “uno dei motori trainanti dell’economia italiana”.
Tutti sanno che la turistificazione non solo ha portato alla trasformazione delle città in una merce, in cui ogni spazio deve essere messo a valore, e in cui i servizi ai cittadini invece peggiorano continuamente. Il turismo è anche uno dei settori in cui il lavoro è spesso precario e malpagato, e che quindi più di tutti contribuisce ai bassi salari che strozzano la gente comune.
Considerarlo uno dei motori dell’economia significa piuttosto dimostrare di non aver alcun piano strategico per lo sviluppo del paese. Intanto, i portafogli di lavoratori e pensionati continuano a soffrire la crisi.
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