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19/05/2025

A little british story

Mi chiamo Massimo, ho ormai quarant’anni, insegno sociologia. Origini working class, come si dice qui.

Mio padre era operaio specializzato in una vecchia fabbrica di macchine da scrivere, sulla Doganella, poi chiusa, nonostante un’eroica occupazione finale. Prepensionato baby, un regalo dell’innovazione tecnologica e della primissima digitalizzazione ad inizio anni ’80. Mia madre, lavorava in una delle tante fabbriche abusive di borse e guanti del mio quartiere; pelletteria di qualità, ma nei sottoscala. Prima che arrivassero le filiere produttive globali. Io, il primo a laurearsi in famiglia.

Quando, dopo il dottorato, e qualche anno di precarietà in giro per l’Inghilterra, nel 2012, mi offrono un contratto da lecturer all’università di Sheffield, decido di non affittare un appartamento in centro. Voglio stare vicino a “quelli come me”. Che la feccia liberal dei miei colleghi, quelli che vanno a fare yoga dopo il lavoro, e si bevono il caffelatte da Starbucks (dove io entro solo per andare al bagno), non la sopporto.

A me piace prendermi a cup of coffee – rigorosamente solubile, tanto farebbe schifo lo stesso ovunque – al vecchio Castle Market, 75p, sedermi, e guardare quel mondo di pensionati muniti di carrello, single mothers, migranti di mezza età che mi gira intorno.

Nel cuore proletario della vecchia People’s Republic of South Yorkshire, a poca distanza dalla Town Hall sulla quale, qualche decennio prima, ogni Primo Maggio sventolava la bandiera rossa. Faccio anche la spesa lì, tra banchi di frutta e verdura, improbabili pescivendoli (che non sanno mai dirmi da dove arrivi la loro merce) e venditori di offal (le nostre frattaglie, si trova pure ‘o pere e ‘o musso, che sciccheria), nonostante tutti, al lavoro, mi consiglino di andare da Waitrose, fornitore ufficiale della Royal Family. “You can find real pasta there”, mi dicono. Ma a me non serve, me la porto da Napoli ogni volta che scendo e risalgo. Quella liscia, the real one, uso Gragnano, non si trova manco nel Nord Italia, figuriamoci qui.

Mi stabilisco, quindi, in un vecchio council estate a Manor Park. Numero due nella lista di suburbs snocciolata da Jarvis Cocker in Sheffield Sex City, a un tiro di schioppo dalla sua Intake e da Stanhope Road. Mi sembra anche per questo una scelta felice, anche se di council ci è rimasto poco, sempre sia maledetta Maggie col suo right-to-buy.

Ma è comunque a buon mercato, vicino al centro. Case bi-familiari, a due piani, forse un poco umide, ma belle grandi, con giardini ampi anche se non sempre curati e qualche volta ridotti male assai. Il primo a darmi il benvenuto è Philip, il mio vicino di casa. Sessantenne, pensionato, magro, barba sfatta, sguardo acceso. Mi dice subito, con orgoglio, di essere stato candidato per dieci anni al consiglio comunale per i Verdi. Mai eletto, ma “convinzione ferrea”.

“Labour these days are just red Tories, mate. We deserve something better, reyt?”. Va a piedi ovunque, al limite in bicicletta, nonostante abbia l’abbonamento gratuito per il bus, e coltiva pure l’insalata nel retro. Le Fred Perry d’ordinanza, un po’ usurate, con cui si veste, le compra nei charity shop, un mondo di riuso e riciclo cui mi introduce. E gliene sarò per sempre grato.

Mi redarguisce per la mia simpatia per il Wednesday, ricordandomi che la working class, a Sheffield, tifa United. “And, that Paolo Di Canio was a fascist thug, how can you like the owls?”. Vaglielo a spiegare, di quel 27 Marzo 1994, del San Paolo che sembrava la Bombonera, coi coriandoli sul prato, e di quella serpentina che farebbe perdonare qualsiasi saluto romano.

Nonostante le insormontabili divergenze calcistiche, parliamo spesso, quando ci incontriamo sull’uscio di casa. Di decrescita, reddito di base, trasporti gratuiti. Dell’ultima infamia imposta dal governo conservatore, la bedroom tax, che obbliga chi ha una council house con una stanza vuota ad una decurtazione dei benefit.

Mi fornisce consigli utilissimi su come risparmiare sul riscaldamento, visto che d’inverno le bollette mordono forte. Hot water bottles (le borse dell’acqua calda, un’ossessione tutta inglese), keep your curtains open when there is sun and closed at night; use radiator foils, they make miracles. A me, che mi occupo, per lavoro, anche di indagini sulla povertà energetica, sembrano parole che raccontano, meglio di tante delle mie regressioni lineari, le condizioni delle classi popolari britanniche. Un’inchiesta quotidiana, senza neppure bisogno di ethics approval.

Philip mi invita anche a una riunione del comitato di quartiere al community centre. Età media alta, e ci sono più torte fatte in casa che proposte. Ma a me va bene. Mi piace stare lì. Mi sembra di aver trovato una bolla resistente. Tutti sono gentili. Mi iscrivo come volontario al litter picking group; gli spazzini ormai non esistono più, mi spiegano, il Council ha subito troppi tagli. E quindi dobbiamo fare da noi, per tenere le strade pulite. Mi forniscono anche tutto l’equipaggiamento necessario, incluso un gilet giallo, quando non era ancora di moda.

Di sabato, organizzano anche serate Northern Soul, ma, sinceramente, it’s not my cup of tea, dico a Phil. “I’m a post-punk guy”, dichiaro fieramente: il mio cuore batte tutto across the Pennines, per le band mancuniane a marchio Factory Records, e questo, qui a Sheffield, è un problema. Ci ridiamo su, è comunque solidarietà, vera, scampata alla Thatcher e agli anni rampanti del Blairismo, che hanno a loro volta aperto la strada ad un nuovo inverno di tagli ed austerità conservatrice.

Quando dico ai colleghi che abito a Manor Park, restano spiazzati: “Bloody hell, Massimo, are you staying there for an ethnographic project?”; “How do you cope with all those chavs?”. Chavs, li chiamano così, ormai, i proletari, qui. Suona un po’ come tamarri.

Lo scopro grazie a un bel libro di Owen Jones.

Ma loro mica lo sanno che io vengo da Secondigliano, che sono nato in una specie di basso a Piazza Zanardelli, ‘mmiezo all’arco, e che in ufficio, quella musica che ascolto di pomeriggio e che a volte sentono, a forza, pure i miei vicini di stanza, è di Franco Ricciardi.

Poi arriva la primavera del 2016. Una mattina, porto mia figlia all’asilo. Sul muro, di fronte, è all’improvviso spuntato un murales enorme: bandiera Union Jack, faccia sovrapposta di Boris Johnson, e la scritta in vernice fresca: “Vote Leave – #BREXIT”. Mi fermo. Scatto una foto. Mi sembra di stare in un sogno sbagliato. In un quartiere dove, alle ultime elezioni locali, il Labour aveva preso il 70%; i Tories il 6%.

Vado all’università, partecipo a una riunione su futuri progetti di ricerca. Coordina il mio mentore. Uno dei pochi in quel posto a capirci qualcosa; un cavallo di razza diventato Professor senza dottorato, che doveva iniziare a lavorare presto, e forgiatosi nell’inferno delle post-'92. Inizia, e dice, secco: “We are heading towards a Brexit, so we need to change our approach to fund-raising”.

Niente più finanziamenti europei? Gli altri dieci astanti, tutti chiusi nelle proprie bolle middle-class, convinti remainers per poter andare a svernare in Toscana senza visto, sbiancano. Io dico: “I hear you, I know what you mean, Colin. Really”. E penso al faccione di Boris apparso, nottetempo, in un council estate. Altro che le previsioni di pollsters e bookmakers. Noi sì, che abbiamo il polso della situazione.

Quello che Colin capisce è che la Brexit non è un voto. Al di là del cinismo di Farage e dell’ultra-destra conservatrice, è un grido. Un urlo di chi si sente lasciato indietro e non sa più a chi rivolgersi, ed è determinato ad utilizzare quel referendum, l’unica occasione disponibile in cui ogni voto vale per quello che è, senza distorsioni elettorali, per un sincero “fuck off”.

I miei colleghi, con le loro analisi e i loro progetti di ricerca, non lo vedono. Ma io sì. Io lo vedo ogni giorno al mercato, al community centre, nelle case umide di Manor Park. Gente stanca, alienata, che si sente tradita da tutto: dai sindacati, dai politici, dai professori come me. “Brexit is coming”, dice Colin. Ma non sta arrivando: è già qui, e io sono forse l’unico in questa stanza a saperlo.

A pomeriggio inoltrato, torno a casa. Philip, il mio vicino verde, ha appeso un cartello fuori casa.

Cartone grezzo, pennarello nero: “LEAVE NOW”. Lo guardo. Lui mi guarda. Mi dice: “It’s not what you think. Nothing against you. We’ll still be great friends”. E rientra. Io rimango lì, immobile, con mia figlia per mano, passaporto britannico (dalla nascita, mica per naturalizzazione!), Sheffield accent bello cattivo, ma ancora troppo piccola per capire, e soprattutto per decidere. Con la sensazione che la storia stia compiendosi, mentre siamo in pochi a capirlo.

Resto lì, fedele alla classe, anche se la classe non c’è (almeno per ora, almeno per sé).

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