Presentazione
Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
08/12/2025
La storia dell’ACNA, la fabbrica di esplosivi e coloranti che ha avvelenato il fiume Bormida
Fondata verso la fine dell’Ottocento a Cengio, in provincia di Savona, l’ACNA (acronimo di Azienda Coloranti Nazionali e Affini) per decenni ha ricoperto un ruolo centrale nell’economia italiana, producendo prima gli esplosivi impiegati in guerra e poi coloranti per l’industria tessile. Fu uno dei centri di produzione chimica più importanti del Paese. La sua attività è durata più di un secolo (fino al 1999) nel corso del quale ha riversato enormi quantità di inquinanti nelle acque superficiali (tra cui quelle del fiume Bormida) e sotterranee, nel suolo e nell’aria. Verso la fine della sua attività, l'azienda produceva ogni anno qualcosa come 30.000 tonnellate di intermedi organici, soprattutto derivati del benzene e della naftalina. Come se non bastasse l'inquinamento ambientale, anche le conseguenze sulla salute degli operai sono state terribili. Nonostante ciò, l’ACNA è stata obbligata a chiudere solo nel 1999, dopo numerosissime battaglie da parte della popolazione. Dietro di sé ha lasciato una contaminazione enorme che ha richiesto una lunga bonifica, ancora in atto.
Origine e sviluppo dello stabilimento
La storia dell’ACNA comincia nel 1882 a Cengio, un tranquillo borgo agricolo dell’entroterra ligure, al confine con il Piemonte: qui, su un’ansa del fiume Bormida, viene costruito il Dinamitificio Barbieri, una fabbrica di dinamite. Il luogo è ideale per lo sviluppo industriale: il fiume fornisce una grande quantità di acqua, la ferrovia rappresenta un collegamento fondamentale con il porto di Savona e la manodopera è a basso costo. Circa dieci anni dopo la sua fondazione, il dinamitificio viene rilevato dalla SIPE (Società Italiana Prodotti Esplodenti) e si espande molto rapidamente. La richiesta di esplosivi infatti è altissima: servono per le guerre, prima quelle del colonialismo italiano e poi quelle mondiali. Nel 1918 nella fabbrica lavorano 6000 operai e si producono enormi quantità di acido solforico concentrato, acido nitrico, fenolo, tritolo, binitronaftalina, acido picrico, balistite e nitrocotone. Ogni giorno si fabbricano ben 100 tonnellate di esplosivi.
Nel primo dopoguerra lo stabilimento comincia a produrre anche coloranti per l’industria tessile, in particolari prodotti a base di catrame di carbone, utilizzabili per preparare sia esplosivi sia colori sintetici. Poi però subentra una crisi, per cui nel 1925 il dinamitificio viene rilevato da Italgas. Nel 1929 lo stabilimento di Cengio, insieme a quelli di Rho e Cesano Maderno, diventa ACNA e nel 1931 passa alla Montecatini e alla tedesca IG Farben.
L’impatto su ambiente e lavoratori
A lungo gli abitanti di Cengio e dei territori circostanti, fino ad allora perlopiù contadini, vedono nella fabbrica una grande opportunità lavorativa. Nel tempo, però, sale la preoccupazione per l'inquinamento delle acque del Bormida: sono giallo-rossicce, contaminate dagli scarichi dello stabilimento per circa 70 km a valle, in territorio piemontese, e inutilizzabili per irrigare i campi. Anche l'inquinamento delle acque sotterranee diventa preoccupante, al punto che già nel 1909 si vieta l’utilizzo dei pozzi a valle della fabbrica. I rifiuti solidi vengono accumulati sul greto del fiume o in buche scavate nel terreno. Dalle ciminiere fuoriescono fumi tossici che danno origine a una costante nebbia: le sue particelle si depositano sul terreno, avvelenando le coltivazioni e il bestiame, mentre la popolazione manifesta malesseri di varia natura. Ma non è tutto: gli operai, che lavorano a contatto con sostanze velenose e respirano polveri e vapori, cominciano ad ammalarsi di cancro e di molte altre patologie.
A partire dagli anni Quaranta le proteste degli agricoltori si moltiplicano, tra manifestazioni e blocchi stradali. Dureranno decenni, mentre i tecnici dell’ACNA continueranno a negare la pericolosità della contaminazione e denunce e processi si concluderanno con un nulla di fatto. Negli anni Settanta la Legge Merli stabilisce limiti precisi per le emissioni di inquinanti: il risultato è che l’ACNA comincia a seppellire di notte i rifiuti nei terreni circostanti e ad adottare altri accorgimenti per superare i controlli. Intanto, il fiume Bormida viene dichiarato da una Commissione ministeriale “biologicamente morto”.
Dalle proteste alla chiusura dell’ACNA
Solo nel 1987 la val Bormida viene dichiarata “Area ad elevato rischio di crisi ambientale”. Ma la contaminazione dell’ACNA, ormai passata sotto il controllo della Montedison, continua: particolarmente significativo è l’episodio dell’enorme nube bianca che nel 1988 intossica la popolazione. Negli anni Ottanta e Novanta le proteste si intensificano: gli attivisti manifestano legati e imbavagliati davanti alla stazione di Cengio, si incatenano alla sede della regione Liguria e bloccano perfino il Giro d’Italia. Il caso diventa di interesse mediatico.
Intanto, la situazione economica dell’ACNA peggiora drasticamente e nel 1991 l’azienda viene assorbita da Enichem, la società petrolchimica del gruppo Eni. Bisognerà aspettare il 1999 perché l’ACNA venga chiusa e perché sia dichiarato lo stato di emergenza socio-ambientale per il sito.
L'ACNA di Cengio oggi: la difficile bonifica
Finalmente, nel 2006 viene approvato e affidato a Eni Rewind un progetto di bonifica. Negli anni successivi una grande quantità di rifiuti è stata rimossa, mentre una parte è stata soltanto messa in sicurezza in modo permanente. Oggi le acque del Bormida sono pulite, vengono di nuovo utilizzate per irrigare i campi ed è anche permesso pescare. La bonifica, però, è ancora in corso e presenta numerose criticità: per esempio, un’area esterna al sito presenta ancora alti livelli di inquinanti, mentre la tenuta delle barriere di contenimento dei rifiuti è oggetto di dibattito e ci sono perplessità sul possibile riutilizzo del sito.
Sitografia
La riqualificazione di uno stabilimento produttivo centenario
Acna di Cengio
ACNA di Cengio-Saliceto
Ex ACNA di Cengio
Fonte
Origine e sviluppo dello stabilimento
La storia dell’ACNA comincia nel 1882 a Cengio, un tranquillo borgo agricolo dell’entroterra ligure, al confine con il Piemonte: qui, su un’ansa del fiume Bormida, viene costruito il Dinamitificio Barbieri, una fabbrica di dinamite. Il luogo è ideale per lo sviluppo industriale: il fiume fornisce una grande quantità di acqua, la ferrovia rappresenta un collegamento fondamentale con il porto di Savona e la manodopera è a basso costo. Circa dieci anni dopo la sua fondazione, il dinamitificio viene rilevato dalla SIPE (Società Italiana Prodotti Esplodenti) e si espande molto rapidamente. La richiesta di esplosivi infatti è altissima: servono per le guerre, prima quelle del colonialismo italiano e poi quelle mondiali. Nel 1918 nella fabbrica lavorano 6000 operai e si producono enormi quantità di acido solforico concentrato, acido nitrico, fenolo, tritolo, binitronaftalina, acido picrico, balistite e nitrocotone. Ogni giorno si fabbricano ben 100 tonnellate di esplosivi.
Nel primo dopoguerra lo stabilimento comincia a produrre anche coloranti per l’industria tessile, in particolari prodotti a base di catrame di carbone, utilizzabili per preparare sia esplosivi sia colori sintetici. Poi però subentra una crisi, per cui nel 1925 il dinamitificio viene rilevato da Italgas. Nel 1929 lo stabilimento di Cengio, insieme a quelli di Rho e Cesano Maderno, diventa ACNA e nel 1931 passa alla Montecatini e alla tedesca IG Farben.
L’impatto su ambiente e lavoratori
A lungo gli abitanti di Cengio e dei territori circostanti, fino ad allora perlopiù contadini, vedono nella fabbrica una grande opportunità lavorativa. Nel tempo, però, sale la preoccupazione per l'inquinamento delle acque del Bormida: sono giallo-rossicce, contaminate dagli scarichi dello stabilimento per circa 70 km a valle, in territorio piemontese, e inutilizzabili per irrigare i campi. Anche l'inquinamento delle acque sotterranee diventa preoccupante, al punto che già nel 1909 si vieta l’utilizzo dei pozzi a valle della fabbrica. I rifiuti solidi vengono accumulati sul greto del fiume o in buche scavate nel terreno. Dalle ciminiere fuoriescono fumi tossici che danno origine a una costante nebbia: le sue particelle si depositano sul terreno, avvelenando le coltivazioni e il bestiame, mentre la popolazione manifesta malesseri di varia natura. Ma non è tutto: gli operai, che lavorano a contatto con sostanze velenose e respirano polveri e vapori, cominciano ad ammalarsi di cancro e di molte altre patologie.
A partire dagli anni Quaranta le proteste degli agricoltori si moltiplicano, tra manifestazioni e blocchi stradali. Dureranno decenni, mentre i tecnici dell’ACNA continueranno a negare la pericolosità della contaminazione e denunce e processi si concluderanno con un nulla di fatto. Negli anni Settanta la Legge Merli stabilisce limiti precisi per le emissioni di inquinanti: il risultato è che l’ACNA comincia a seppellire di notte i rifiuti nei terreni circostanti e ad adottare altri accorgimenti per superare i controlli. Intanto, il fiume Bormida viene dichiarato da una Commissione ministeriale “biologicamente morto”.
Dalle proteste alla chiusura dell’ACNA
Solo nel 1987 la val Bormida viene dichiarata “Area ad elevato rischio di crisi ambientale”. Ma la contaminazione dell’ACNA, ormai passata sotto il controllo della Montedison, continua: particolarmente significativo è l’episodio dell’enorme nube bianca che nel 1988 intossica la popolazione. Negli anni Ottanta e Novanta le proteste si intensificano: gli attivisti manifestano legati e imbavagliati davanti alla stazione di Cengio, si incatenano alla sede della regione Liguria e bloccano perfino il Giro d’Italia. Il caso diventa di interesse mediatico.
Intanto, la situazione economica dell’ACNA peggiora drasticamente e nel 1991 l’azienda viene assorbita da Enichem, la società petrolchimica del gruppo Eni. Bisognerà aspettare il 1999 perché l’ACNA venga chiusa e perché sia dichiarato lo stato di emergenza socio-ambientale per il sito.
L'ACNA di Cengio oggi: la difficile bonifica
Finalmente, nel 2006 viene approvato e affidato a Eni Rewind un progetto di bonifica. Negli anni successivi una grande quantità di rifiuti è stata rimossa, mentre una parte è stata soltanto messa in sicurezza in modo permanente. Oggi le acque del Bormida sono pulite, vengono di nuovo utilizzate per irrigare i campi ed è anche permesso pescare. La bonifica, però, è ancora in corso e presenta numerose criticità: per esempio, un’area esterna al sito presenta ancora alti livelli di inquinanti, mentre la tenuta delle barriere di contenimento dei rifiuti è oggetto di dibattito e ci sono perplessità sul possibile riutilizzo del sito.
Sitografia
La riqualificazione di uno stabilimento produttivo centenario
Acna di Cengio
ACNA di Cengio-Saliceto
Ex ACNA di Cengio
Fonte
Lo “Zio Sam” ora ha altro da fare...
La nuova “Strategia di sicurezza nazionale” statunitense va presa per quello che è: l’atteggiamento Usa nei confronti del resto del Mondo. Indipendentemente dal considerarsi “nemici”, alleati o competitori, quella diventa la mappa concettuale che ogni non-americano deve aver presente quando dovrà misurare i propri passi tenendo conto di quella presenza incombente.
Fa ridere, insomma, la protesta-lamentela “europeista” che ne parla come di un “attacco all’Europa”, anzi “uno scontro”: perché non coglie l’essenziale. È un abbandono, una svalutazione, quella che in termini finanziari alcuni chiamerebbero un “sottopesare” l’investimento nel Vecchio Continente.
E fa ridere anche, ridicolo fin nella postura, il soprassalto “nazionalistico” dei partiti di destra che si dicono “pronti” a farne a meno, senza neanche saper dire se in chiave “unitaria” (assumendo dunque un “europeismo” che non hanno mai nutrito) oppure ognun per sé. Crosetto docet...
L’asset strategico di cui “l’Europa” non dispone è l’arsenale nucleare, in piccola parte presente solo per Gran Bretagna e Francia. E senza quello, nel mondo delle superpotenze, è meglio muoversi con grande cautela e bon ton diplomatico.
Proprio quello che non ha fatto l’Unione Europea in questi anni quando, sposando senza riserve la guerra in Ucraina perché sorretta dalla “copertura” Usa, si è costruita l’illusione di riuscire presto ad ottenere – senza neanche combattere direttamente – il potere di disporre almeno in parte dei territori e delle risorse naturali russe.
Ovvio che la perdita delle vecchie coordinate geostrategiche provochi disorientamento. Il pensiero di chiunque deve ora interrogarsi in forma dubitativa su punti di riferimento che prima erano così scontati da costituire “l’ambiente naturale”, il paesaggio e le corsie preferenziali. È come ritrovarsi a vivere in campagna invece che al centro della metropoli, o giocare in un campionato di serie B dopo aver annusato il profumo della Champions.
Basti pensare a cosa sarà della Nato dal 2027 che, secondo la nuova “dottrina”, non si espanderà più ad est all’infinito e non avrà più gli Usa alla guida, forse neanche in posizione preminente e quindi, con molta probabilità, assai meno “generosi” nel garantire l’attuale livello di copertura militare e nucleare. Non se ne andranno da tutte le basi in territorio europeo, ci mancherebbe, ma “dimagriranno” il numero degli effettivi e forse anche dei dispositivi.
E sarà ancora più evidente quando una pace in Ucraina sarà finalmente raggiunta, in forme che certamente non saranno soddisfacenti per i sogni e le ambizioni mal riposte.
Ma comunque sarà una pace che spiazzerà in primo luogo i “volenterosi” che ancora in questi giorni si sbattono come pazzi per prolungare la guerra garantendo con quello che non hanno, mentre fingono che “droni russi” scorazzino allegramente su tutti noi, a migliaia di chilometri dall’ipotetica base di lancio (o magari diranno che sono i “putiniani” nostrani che li fanno partire dal terrazzo...).
Per gestire gli equilibri della pace servono altre teste, altre competenze, altre visioni e capacità relazionali. L’Europa delle Kallas e dei Macron non può offrire nulla di credibile, si dovranno trovare altri attori.
E gli Stati Uniti sanno bene a chi rivolgersi. Le destre estreme, o malamente travestite da “moderate”, troveranno alla Casa Bianca finanziamenti e sponde per arrivare al potere. Poi basterà lasciarle al loro destino, con un riarmo disordinato ma già avviato che – come sempre – servirà più a regolare eventuali conti col vicino debole che non a “difendersi” da una superpotenza che neanche ti calcola...
Fa ridere, insomma, la protesta-lamentela “europeista” che ne parla come di un “attacco all’Europa”, anzi “uno scontro”: perché non coglie l’essenziale. È un abbandono, una svalutazione, quella che in termini finanziari alcuni chiamerebbero un “sottopesare” l’investimento nel Vecchio Continente.
E fa ridere anche, ridicolo fin nella postura, il soprassalto “nazionalistico” dei partiti di destra che si dicono “pronti” a farne a meno, senza neanche saper dire se in chiave “unitaria” (assumendo dunque un “europeismo” che non hanno mai nutrito) oppure ognun per sé. Crosetto docet...
L’asset strategico di cui “l’Europa” non dispone è l’arsenale nucleare, in piccola parte presente solo per Gran Bretagna e Francia. E senza quello, nel mondo delle superpotenze, è meglio muoversi con grande cautela e bon ton diplomatico.
Proprio quello che non ha fatto l’Unione Europea in questi anni quando, sposando senza riserve la guerra in Ucraina perché sorretta dalla “copertura” Usa, si è costruita l’illusione di riuscire presto ad ottenere – senza neanche combattere direttamente – il potere di disporre almeno in parte dei territori e delle risorse naturali russe.
Ovvio che la perdita delle vecchie coordinate geostrategiche provochi disorientamento. Il pensiero di chiunque deve ora interrogarsi in forma dubitativa su punti di riferimento che prima erano così scontati da costituire “l’ambiente naturale”, il paesaggio e le corsie preferenziali. È come ritrovarsi a vivere in campagna invece che al centro della metropoli, o giocare in un campionato di serie B dopo aver annusato il profumo della Champions.
Basti pensare a cosa sarà della Nato dal 2027 che, secondo la nuova “dottrina”, non si espanderà più ad est all’infinito e non avrà più gli Usa alla guida, forse neanche in posizione preminente e quindi, con molta probabilità, assai meno “generosi” nel garantire l’attuale livello di copertura militare e nucleare. Non se ne andranno da tutte le basi in territorio europeo, ci mancherebbe, ma “dimagriranno” il numero degli effettivi e forse anche dei dispositivi.
E sarà ancora più evidente quando una pace in Ucraina sarà finalmente raggiunta, in forme che certamente non saranno soddisfacenti per i sogni e le ambizioni mal riposte.
Ma comunque sarà una pace che spiazzerà in primo luogo i “volenterosi” che ancora in questi giorni si sbattono come pazzi per prolungare la guerra garantendo con quello che non hanno, mentre fingono che “droni russi” scorazzino allegramente su tutti noi, a migliaia di chilometri dall’ipotetica base di lancio (o magari diranno che sono i “putiniani” nostrani che li fanno partire dal terrazzo...).
Per gestire gli equilibri della pace servono altre teste, altre competenze, altre visioni e capacità relazionali. L’Europa delle Kallas e dei Macron non può offrire nulla di credibile, si dovranno trovare altri attori.
E gli Stati Uniti sanno bene a chi rivolgersi. Le destre estreme, o malamente travestite da “moderate”, troveranno alla Casa Bianca finanziamenti e sponde per arrivare al potere. Poi basterà lasciarle al loro destino, con un riarmo disordinato ma già avviato che – come sempre – servirà più a regolare eventuali conti col vicino debole che non a “difendersi” da una superpotenza che neanche ti calcola...
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Per il resto del mondo la chiave interpretativa più autentica della “nuova dottrina” Usa è stata forse fornita da quel semplicione di Pete Hegseth, “ministro della guerra” trumpiano, che l’ha sintetizzata così davanti al Reagan Defense Forum: “Fuori l’utopismo idealistico, dentro il realismo spietato”.
Gli Stati Uniti in versione “Maga” non si faranno più distrarre “dalla costruzione della democrazia, dall’interventismo, da guerre indefinite, dal cambio di regime, dal cambiamento climatico, dalla moralizzazione woke e dalla inefficace costruzione di nazioni. Metteremo invece al primo posto gli interessi pratici e concreti della nostra nazione”.
Del resto, come dice l’assai più esperto Thomas Barrack – altro immobiliarista, inviato di Trump per la Siria – “I cambiamenti di regime in realtà non hanno mai funzionato. Dal 1946 a oggi... in tutti questi anni, con l’intervento degli Stati Uniti, ci sono stati 93 colpi di Stato o cambiamenti di regime. Tutti sono falliti. Per questo i miei capi, il Segretario di Stato Rubio e il Presidente Trump, sono contrari ai cambiamenti di regime”.
In pratica, gli Stati Uniti prendono atto di non essere più in grado di governare il mondo (“unipolarismo”) e cercano di salvarsi dal declino (produttivo, culturale, demografico, persino militare) scegliendo di volta in volta il teatro su cui impegnarsi. Brutalmente, ovvio...
Fine della narrazione hollywoodiana sulla “più grande democrazia del mondo”, fine del “nuovo secolo americano” in cui si fingeva di voler affermare valori universali e regole comuni, fine degli organismi sovranazionali cui affidare apparentemente almeno un minimo di legislazione internazionale.
Avanti con la politica fondata sugli interessi e gli affari, usando la forza ma stando ben attenti nel valutare la potenza altrui, per non farsi troppo male. Si chiamavano “sfere di influenza”, non stupivano nessuno.
Uno spostamento radicale: dalla narrazione falsaria che verniciava di “princìpi” l’irruzione violenta nella vita degli altri popoli (“l’ingerenza umanitaria” che ha accompagnato tutte le guerre asimmetriche degli ultimi 40 anni) all’affermazione nuda e cruda del proprio interesse materiale prevalente su quelli altrui. Se abbastanza deboli, ovvio... Affari con quasi tutti, amici di nessuno, qualche rapina se non costa troppo.
L’assalto promesso al Venezuela è forse la prima esibizione di questa nuova “dottrina”, anche se la retorica ufficiale ancora arranca, perseguendo di fatto un “cambio di regime” pur sapendo che “non hanno mai funzionato” e cercando qualche giustificazione vecchio stile (la “guerra al narcotraffico”, invece dei “diritti umani”), anche perché all’interno dell’America la stretta del governo non è del tutto completata.
*****
Per noi comunisti, diciamo la verità, non c’è quasi nulla di davvero sorprendente. Abbiamo sempre cercato di analizzare le cose senza farci troppo distrarre dalla retorica “buonista”. Non perché i diritti umani non siano davvero importantissimi, ma perché vedevamo – e vediamo – che valgono a seconda dei soggetti in campo (per i lavoratori, come per i palestinesi, non c’è neanche il diritto alla vita, figuriamoci gli altri che ne derivano).
E quindi sentire gli “amerikani” dire che si muoveranno ora soltanto in base agli interessi loro – hanno multinazionali che toccano quasi ogni paese, non è che si rinchiudono in casa – è come scoprire l’acqua calda. Anzi, si semplifica il lavoro, riducendo gli sforzi di “decodificazione”...
Per i liberal-liberisti invece è una catastrofe. Intanto sul piano della “narrazione”, mentre tracollano uno dopo l’altro i castelli delle favole costruiti per nascondere la cruda realtà (due anni di genocidio in diretta avevano già destabilizzato parecchio la presa del “pensiero unico” sulle popolazioni).
La guerra è un orrore, lo sfruttamento anche, il capitalismo fa schifo e non ha alcuna morale, tanto meno “superiore”. Ma si nutre di suprematismo. Che poi sia aziendale, razziale, religioso, etnico o d’altra natura... sempre suprematismo – cioè fascismo – è. Inutile abbellire il palcoscenico...
I più devastati, anche se ancora tacciono o berciano un po’ più “a sinistra” dei liberal-liberisti, sono i riformisti di tutte le sfumature (tipo Avs, diciamo).
Avevano investito tutto sul “capitalismo dal volto umano”, sulla “transizione energetica” fatta senza disturbare le imprese, sull’ecologia ridotta a giardinaggio, sul “terzo settore” come correttivo dei tagli alla spesa sociale, sull’“Europa” che avrebbe cancellato i nazionalismi… Sui cerotti da mettere sulle piaghe più purulente, insomma.
Ora devono ricostruirsi da zero una funzione sociale e politica. Ma il tempo è poco e il terremoto è grande.
Fonte
Ecco il vero politicamente scorretto: criticare il proprio posto di lavoro
di Giuliano Granato
Cosa si può dire e cosa, al contrario, non si può dire nel dibattito pubblico? Negli ultimi anni l’ultradestra ha fatto passare l’idea che, tanto a livello internazionale, quanto a livello italiano, si sia imposta una forma di censura informale, il “politicamente corretto”. In sintesi, ci sarebbero opinioni, idee e parole che non possono più essere né pensate né proferite, perché invise ai “poteri forti”, pena l’emarginazione se non il silenziamento nel dibattito pubblico.
Fin qui siamo di fronte a una delle caratteristiche dell’ultradestra internazionale: spacciarsi per vittima, per quella “parte” schiacciata da una maggioranza di bigotti e “buonisti” quando, al contrario, il “politicamente scorretto” che professa è una sorta di nuovo mainstream, accolto e spesso ben retribuito, tanto dal potere politico quanto da quello mediatico.
A sostenere la tesi della dittatura del “politicamente corretto” infatti sono solitamente personaggi che godono di enorme spazio mediatico sui principali canali mainstream, da quelli TV a quelli radio. E che, quindi, quelle idee e quelle parole le pronunciano con forza davanti a milioni e milioni di persone che le ascoltano quotidianamente.
Vannacci e Cruciani sono solo due degli esempi di un “politicamente scorretto” che si spaccia per minoranza vessata e che, al contrario, gode di piena cittadinanza, offerta tanto dal potere politico – un partito politico di governo come la Lega che consegna a Vannacci una candidatura prima e una vice-segreteria federale poi – quanto da quello mediatico ed economico (La Zanzara va in onda quotidianamente su Radio24, organo della Confindustria).
Questo non significa, però, che tutte le opinioni, idee e parole possano essere liberamente espresse. La censura esiste, solo che non risiede lì dove l’ultradestra vorrebbe indirizzare i nostri sguardi. Ci sono cioè ambiti in cui ognuna e ognuno di noi è considerato cittadina e cittadino e, in quanto tale, titolare di diritti che può esercitare in determinati luoghi: la propria casa, la strada, finanche i social network. Esistono però altri luoghi fisici in cui smettiamo di essere cittadini, in cui un diritto costituzionalmente garantito come la libertà di espressione troppo spesso non arriva: i posti di lavoro.
Non perché ci siano norme che vietano formalmente l’esercizio dei nostri diritti, sulla carta rimangono. Ma è come se la Costituzione formale si fermasse ai cancelli delle fabbriche e all’interno dei luoghi di lavoro vigessero altre leggi.
Il licenziamento di Michele Madonna, operaio della ex Jabil di Marcianise (CE), oggi TMA, e dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), testimonia proprio la distanza tra leggi formali e leggi “reali”.
Michele è stato licenziato il 24 novembre perché, sostiene l’impresa TMA, si sarebbe “interrotto il rapporto fiduciario”. A far venire meno la fiducia – termine scelto dal Vocabolario della lingua italiana Treccani come parola dell’anno 2025 – sarebbero state le dichiarazioni che Michele ha rilasciato in diverse occasioni (riportate nella lettera di contestazione dell’11 novembre), criticando la cessione dello stabilimento di Marcianise e dei suoi 406 dipendenti, già superstiti di precedenti spacchettamenti, dalla multinazionale statunitense Jabil alla piccola TMA. Un’operazione che una sindacalista della Fiom aveva così descritto: “È come voler far entrare un sottomarino in una scatoletta di tonno”.
Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione, osando criticare una cessione aziendale e avanzando dubbi sulla possibilità di tenuta sul lungo termine di produzioni e occupazione. Se il dissenso è il sale della democrazia, è evidente che c’è chi concepisce le fabbriche come caserme in cui l’unica espressione consentita è “signorsì signore”.
Criticare l’impresa, ecco il “politicamente scorretto” che per davvero è sottoposto a censura e addirittura a licenziamento. E, guarda caso, è la libertà dell’operaio di criticare la propria azienda che non viene difesa dall’ultradestra che pure si sgola all’urlo “libertà, libertà, libertà”.
Essere oggi al fianco di Michele Madonna non significa solamente difendere la possibilità di un lavoratore di mantenere il proprio reddito e il proprio posto di lavoro; significa difendere un’idea di democrazia sostanziale e, al contempo, rifiutare quella di una democrazia formale che si arresta sulla soglia dei luoghi di lavoro.
Significa rivendicare l’idea – questa sì “politicamente scorretta” – che le imprese non siano piccoli Staterelli in cui vige una sorta di Ancient Regime, un modello, cioè, in cui la volontà del padrone è paragonabile a quella del Re Sole, una volontà che si fa legge e che si impone al di sopra della Costituzione formale.
E, ancora, essere al fianco di Michele, così come di Pasquale Zeno – vittima di licenziamento disciplinare ad agosto, a pochi giorni dall’arrivo della nuova proprietà – e degli operai TMA (ex Jabil) che hanno ricevuto lettere di contestazione significa non arrendersi al destino di desertificazione industriale che un’intera classe dominante – di destra, centro, sinistra – ci regala da decenni come “destino manifesto” e che viene accompagnato da un’emigrazione che tra il 2011 e il 2024 ha visto partire dalla sola Campania addirittura 158mila giovani tra i 18 e i 34 anni (dati CNEL).
Martedì essere in piazza a Caserta per il corteo convocato da USB alle 11:00 significa riconoscere nelle parole e nelle azioni di Michele Madonna la difesa della libertà di espressione, della dignità dei lavoratori, del presente e futuro occupazionale di un intero territorio contro l’autoritarismo imprenditoriale e il rischio di un’ulteriore impoverimento produttivo che contribuirebbe a fare della nostra terra sempre più un “deserto di lavoro” laddove avevamo “terra di lavoro”.
Fonte
Cosa si può dire e cosa, al contrario, non si può dire nel dibattito pubblico? Negli ultimi anni l’ultradestra ha fatto passare l’idea che, tanto a livello internazionale, quanto a livello italiano, si sia imposta una forma di censura informale, il “politicamente corretto”. In sintesi, ci sarebbero opinioni, idee e parole che non possono più essere né pensate né proferite, perché invise ai “poteri forti”, pena l’emarginazione se non il silenziamento nel dibattito pubblico.
Fin qui siamo di fronte a una delle caratteristiche dell’ultradestra internazionale: spacciarsi per vittima, per quella “parte” schiacciata da una maggioranza di bigotti e “buonisti” quando, al contrario, il “politicamente scorretto” che professa è una sorta di nuovo mainstream, accolto e spesso ben retribuito, tanto dal potere politico quanto da quello mediatico.
A sostenere la tesi della dittatura del “politicamente corretto” infatti sono solitamente personaggi che godono di enorme spazio mediatico sui principali canali mainstream, da quelli TV a quelli radio. E che, quindi, quelle idee e quelle parole le pronunciano con forza davanti a milioni e milioni di persone che le ascoltano quotidianamente.
Vannacci e Cruciani sono solo due degli esempi di un “politicamente scorretto” che si spaccia per minoranza vessata e che, al contrario, gode di piena cittadinanza, offerta tanto dal potere politico – un partito politico di governo come la Lega che consegna a Vannacci una candidatura prima e una vice-segreteria federale poi – quanto da quello mediatico ed economico (La Zanzara va in onda quotidianamente su Radio24, organo della Confindustria).
Questo non significa, però, che tutte le opinioni, idee e parole possano essere liberamente espresse. La censura esiste, solo che non risiede lì dove l’ultradestra vorrebbe indirizzare i nostri sguardi. Ci sono cioè ambiti in cui ognuna e ognuno di noi è considerato cittadina e cittadino e, in quanto tale, titolare di diritti che può esercitare in determinati luoghi: la propria casa, la strada, finanche i social network. Esistono però altri luoghi fisici in cui smettiamo di essere cittadini, in cui un diritto costituzionalmente garantito come la libertà di espressione troppo spesso non arriva: i posti di lavoro.
Non perché ci siano norme che vietano formalmente l’esercizio dei nostri diritti, sulla carta rimangono. Ma è come se la Costituzione formale si fermasse ai cancelli delle fabbriche e all’interno dei luoghi di lavoro vigessero altre leggi.
Il licenziamento di Michele Madonna, operaio della ex Jabil di Marcianise (CE), oggi TMA, e dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), testimonia proprio la distanza tra leggi formali e leggi “reali”.
Michele è stato licenziato il 24 novembre perché, sostiene l’impresa TMA, si sarebbe “interrotto il rapporto fiduciario”. A far venire meno la fiducia – termine scelto dal Vocabolario della lingua italiana Treccani come parola dell’anno 2025 – sarebbero state le dichiarazioni che Michele ha rilasciato in diverse occasioni (riportate nella lettera di contestazione dell’11 novembre), criticando la cessione dello stabilimento di Marcianise e dei suoi 406 dipendenti, già superstiti di precedenti spacchettamenti, dalla multinazionale statunitense Jabil alla piccola TMA. Un’operazione che una sindacalista della Fiom aveva così descritto: “È come voler far entrare un sottomarino in una scatoletta di tonno”.
Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione, osando criticare una cessione aziendale e avanzando dubbi sulla possibilità di tenuta sul lungo termine di produzioni e occupazione. Se il dissenso è il sale della democrazia, è evidente che c’è chi concepisce le fabbriche come caserme in cui l’unica espressione consentita è “signorsì signore”.
Criticare l’impresa, ecco il “politicamente scorretto” che per davvero è sottoposto a censura e addirittura a licenziamento. E, guarda caso, è la libertà dell’operaio di criticare la propria azienda che non viene difesa dall’ultradestra che pure si sgola all’urlo “libertà, libertà, libertà”.
Essere oggi al fianco di Michele Madonna non significa solamente difendere la possibilità di un lavoratore di mantenere il proprio reddito e il proprio posto di lavoro; significa difendere un’idea di democrazia sostanziale e, al contempo, rifiutare quella di una democrazia formale che si arresta sulla soglia dei luoghi di lavoro.
Significa rivendicare l’idea – questa sì “politicamente scorretta” – che le imprese non siano piccoli Staterelli in cui vige una sorta di Ancient Regime, un modello, cioè, in cui la volontà del padrone è paragonabile a quella del Re Sole, una volontà che si fa legge e che si impone al di sopra della Costituzione formale.
E, ancora, essere al fianco di Michele, così come di Pasquale Zeno – vittima di licenziamento disciplinare ad agosto, a pochi giorni dall’arrivo della nuova proprietà – e degli operai TMA (ex Jabil) che hanno ricevuto lettere di contestazione significa non arrendersi al destino di desertificazione industriale che un’intera classe dominante – di destra, centro, sinistra – ci regala da decenni come “destino manifesto” e che viene accompagnato da un’emigrazione che tra il 2011 e il 2024 ha visto partire dalla sola Campania addirittura 158mila giovani tra i 18 e i 34 anni (dati CNEL).
Martedì essere in piazza a Caserta per il corteo convocato da USB alle 11:00 significa riconoscere nelle parole e nelle azioni di Michele Madonna la difesa della libertà di espressione, della dignità dei lavoratori, del presente e futuro occupazionale di un intero territorio contro l’autoritarismo imprenditoriale e il rischio di un’ulteriore impoverimento produttivo che contribuirebbe a fare della nostra terra sempre più un “deserto di lavoro” laddove avevamo “terra di lavoro”.
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Mezzo milione di giovani sono emigrati all’estero in tredici anni. Così viene meno il futuro
Un Rapporto del Cnel presentato il 4 dicembre scorso descrive in termini estremamente preoccupanti i dati sull’emigrazione giovanile dal nostro paese verso altri paesi europei. Il Rapporto intendeva in realtà analizzare l’attrattività dell’Italia per i giovani di altri paesi ma il riscontro è stato sia negativo che pesante. Tra l’altro i risultati sono impietosi anche analizzando il fattore umano sia in termini di “capitale umano” che di valore perduto vero e proprio.
Solo nel 2024 sono stati 78mila i giovani che hanno lasciato l’Italia. Rispetto agli ingressi di giovani immigrati – provenienti però da altre economie avanzate della fascia d’età 18-34 anni – il saldo è decisamente negativo: -61mila.
Il Rapporto del Cnel allarga poi lo sguardo ad un periodo che va – significativamente – dal 2011 al 2024. Il 2011 è infatti l’anno della crisi del debito. In questi tredici anni sono emigrati dall’Italia in 630mila – di cui il 49% dalle regioni del Nord e il 35% dal Meridione –, il che corrisponde al 7% dei giovani residenti in Italia. Anche in questo caso il saldo migratorio è negativo di 441mila giovani.
Lo studio ha poi quantificato anche il valore del capitale umano emigrato dal nostro Paese nel periodo 2011-2024 e il valore perduto ammonta a 159,5 miliardi di euro, stimato sul saldo migratorio e come costo sostenuto dalle famiglie e, per la sola istruzione, dal settore pubblico, per crescere ed educare i giovani italiani che sono poi emigrati all’estero.
In termini di Pil, il valore del capitale umano uscito nell’arco temporale 2011-2024 è pari al 7,5%. Il paradosso è che con la denatalità – nel 2025 toccheremo un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia probabilmente scendendo sotto i 350mila neonati – e con il progressivo invecchiamento della popolazione, i giovani sono da considerare una risorsa che rischia di scarseggiare per ogni ipotesi di sviluppo futuro del Paese.
C’è poi il dato del capitale umano e qui, analizzando la platea di chi ha lasciato l’Italia tra i giovani emigrati nel triennio 2022-2024, emerge che il 42,1% è composto da laureati, in aumento rispetto al 33,8% dell’intero periodo 2011-2024. Ragione per cui non è un paradosso che punte più alte di questa emigrazione “di valore” si registrino nelle regioni più ricche come Trentino (50,7%), Lombardia (50,2%), Friuli-Venezia Giulia (49,8%), Emilia-Romagna (48,5%) e Veneto (48,1%).
Nei tredici anni del periodo 2011-2024 ci sono stati solo 55mila arrivi in Italia di giovani dalle prime dieci economie avanzate verso cui invece emigrano i giovani italiani (Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svizzera e Usa). Nello stesso periodo ben 486mila giovani italiani sono emigrati in quei Paesi.
La prima destinazione rimane il Regno Unito (26,5%), seguito da Germania (21,2%), Svizzera (13%), Francia (10,9%) e Spagna (8,2%).
Per quanto riguarda la migrazione interna al nostro paese, nel 2011-2024 si sono trasferiti dal Meridione al Centro-Nord 484mila giovani italiani. Tra loro 240mila sono andati nelle regioni del Nord Ovest, 163mila nel Nord-Est e 80mila nel Centro. Il deflusso record è quello dalla Campania, pari a 158mila, seguita da Sicilia con 116mila e Puglia con 103mila. L’afflusso maggiore riguarda la Lombardia con 192mila ingressi, alla quale seguono Emilia-Romagna (106mila) e Piemonte (41mila).
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Solo nel 2024 sono stati 78mila i giovani che hanno lasciato l’Italia. Rispetto agli ingressi di giovani immigrati – provenienti però da altre economie avanzate della fascia d’età 18-34 anni – il saldo è decisamente negativo: -61mila.
Il Rapporto del Cnel allarga poi lo sguardo ad un periodo che va – significativamente – dal 2011 al 2024. Il 2011 è infatti l’anno della crisi del debito. In questi tredici anni sono emigrati dall’Italia in 630mila – di cui il 49% dalle regioni del Nord e il 35% dal Meridione –, il che corrisponde al 7% dei giovani residenti in Italia. Anche in questo caso il saldo migratorio è negativo di 441mila giovani.
Lo studio ha poi quantificato anche il valore del capitale umano emigrato dal nostro Paese nel periodo 2011-2024 e il valore perduto ammonta a 159,5 miliardi di euro, stimato sul saldo migratorio e come costo sostenuto dalle famiglie e, per la sola istruzione, dal settore pubblico, per crescere ed educare i giovani italiani che sono poi emigrati all’estero.
In termini di Pil, il valore del capitale umano uscito nell’arco temporale 2011-2024 è pari al 7,5%. Il paradosso è che con la denatalità – nel 2025 toccheremo un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia probabilmente scendendo sotto i 350mila neonati – e con il progressivo invecchiamento della popolazione, i giovani sono da considerare una risorsa che rischia di scarseggiare per ogni ipotesi di sviluppo futuro del Paese.
C’è poi il dato del capitale umano e qui, analizzando la platea di chi ha lasciato l’Italia tra i giovani emigrati nel triennio 2022-2024, emerge che il 42,1% è composto da laureati, in aumento rispetto al 33,8% dell’intero periodo 2011-2024. Ragione per cui non è un paradosso che punte più alte di questa emigrazione “di valore” si registrino nelle regioni più ricche come Trentino (50,7%), Lombardia (50,2%), Friuli-Venezia Giulia (49,8%), Emilia-Romagna (48,5%) e Veneto (48,1%).
Nei tredici anni del periodo 2011-2024 ci sono stati solo 55mila arrivi in Italia di giovani dalle prime dieci economie avanzate verso cui invece emigrano i giovani italiani (Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svizzera e Usa). Nello stesso periodo ben 486mila giovani italiani sono emigrati in quei Paesi.
La prima destinazione rimane il Regno Unito (26,5%), seguito da Germania (21,2%), Svizzera (13%), Francia (10,9%) e Spagna (8,2%).
Per quanto riguarda la migrazione interna al nostro paese, nel 2011-2024 si sono trasferiti dal Meridione al Centro-Nord 484mila giovani italiani. Tra loro 240mila sono andati nelle regioni del Nord Ovest, 163mila nel Nord-Est e 80mila nel Centro. Il deflusso record è quello dalla Campania, pari a 158mila, seguita da Sicilia con 116mila e Puglia con 103mila. L’afflusso maggiore riguarda la Lombardia con 192mila ingressi, alla quale seguono Emilia-Romagna (106mila) e Piemonte (41mila).
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La controriforma della giustizia. La posta in gioco
“Questa riforma è un grimaldello – afferma la già Magistrato Maria Longo, durante la sua esposizione online – per far saltare tutto l’assetto istituzionale dello Stato e il suo assetto democratico”.
Dopo l’azione del ministro Calderoli di far rientrare dalla finestra la sua legge per l’Autonomia Differenziata, procedendo nonostante l’illegittimità dichiarata della Corte Costituzionale e l’annullamento dalla Consulta, questo Governo procede nel suo progetto rifondativo dell’ordinamento della Repubblica (1).
Questa, non a caso, è stata definita una Contro-Riforma. Va conosciuta e compresa come tale, anche in previsione del referendum di primavera, indetto per la prima volta da un Governo della Repubblica e non dalla sua opposizione assopita e sbandante.
È infatti Antonio Madera del Comitato Emilia Romagna per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata ad affermare che: “Senza una posizione chiara anche sull’Autonomia Differenziata (2), da parte di quella opposizione che si rifà ai nostri valori, certamente si perdono anche le prossime elezioni”.
La ricerca, da parte della Presidente del Consiglio (smettiamola di chiamarla Premier) è un mandato popolare indiscusso. Ottenere la libertà di poter agire indiscutibilmente, in cielo in terra ed in ogni luogo, per il bene degli italiani. Magari, come già avviene con la stampa, esautorando anche il lavoro parlamentale.
Il Governo Meloni in realtà, è alla ricerca di una maggioranza plebiscitaria popolare, per lo più inconsapevole del pericolo non solo istituzionale, che sta correndo.
Per illustrare i principi della Contro-Riforma e a sostegno della sua pericolosità, vi proponiamo questo confronto informato, tenuto tra noi che non essendo la classica spiegazione tecnica e didattica, abbiamo deciso di rendere pubblico. Vi proponiamo, inoltre, questo video animato che ne riassume i punti guida.
“La relazione della già magistrato Maria Longo” – 1° parte
Riteniamo sia nostro dovere rendere reale ciò che, impropriamente, viene enunciato dal ministro Carlo Nordio come la Riforma che velocizzerà i tempo processuali; impedirà ingerenze della magistratura nelle sfere politiche; ridurrà la pressione delle correnti interne al CSM, ed altre amenità. In realtà sono tutti principi finalizzati a nascondere la volontà di controllare uno dei tre principali ordinamenti democratici dello Stato Costituzionale.
Un tentativo, che a fatica era già stato respinto e sogno del pluri-indagato Silvio Berlusconi, graziato soprattutto per scadenza dei termini dei tempi processuali. Un progetto, tassello fondamentale, del Piano Solo elaborato dalla P2 di Licio Gelli(3) che altro aveva in mente al rispetto e riconoscimento della Democrazia Costituzionale nata dalla lotta di liberazione.
Nell’attuare questa riforma della Giustizia, il Governo non ha neanche il coraggio politico di dire apertamente che è un’azione attuata contro la magistratura e contro la loro indipendenza e autonomia. E che la velocizzazione dell’iter processuale, in realtà è una falsità. Al contrario, lo renderà ancora più farraginoso e lento.
“Dubbie perplessità a confronto” – 2° Parte
La posta in gioco è molto alta per la tenuta della nostra Repubblica Costituzionale e senza mezze parole la già Magistrato, dott.sa Maria Longo, ci ricorda che: “Qui abbiamo un esecutivo che ha disposto una modifica costituzionale, esorbitando dai propri poteri, esautorandone totalmente il Parlamento. Non un emendamento è stato preso in considerazione e ha inciso e vuole incidere, in modo estremo sull’autonomia ed indipendenza della magistratura”.
Bisogna essere consapevoli che l’Autonomia Differenziata, la Giustizia e il Premierato, rappresentano le tre riforme decisive attuate da questa maggioranza Trumpiana, per scardinare l’attuale ordinamento Costituzionale.
Obiettivo infatti, di questa azione contro la magistratura, è anche rafforzare, con la possibile vittoria al referendum, la propria posizione in previsione della prossima riforma sul Premierato, tanto voluta da Giorgia Meloni. Un progetto che ridurrà la figura del Presidente della Repubblica, organo supremo di controllo dei principi costituzionali.
Rendendo innocui i suoi principi, si otterrebbe così definitivamente sotto controllo della maggioranza di Governo, i tre organi fondativi ed indipendenti della Repubblica nata dopo la liberazione dalla dittatura antidemocratica e anticostituzionale.
Un processo attivo e spudorato, che mira ad instaurare un sistema politico illiberale, adatto e tollerato soltanto da chi dimostrerà fedeltà alla nuova linea a-democratica. Un progetto tutt’altro che rispettoso, anche del principio nazionalista e liberal-democratico, che la stessa Meloni ha per anni rivendicato e che gli ha permesso di giungere sino al Governo del nostro paese.
Riassumendo: oltre al Super Poliziotto come PM, si avranno reati che saranno perseguiti ed altri no e per di più con un’azione penale non più di fatto obbligatoria. Ovviamente si farà riferimento a reati contro il patrimonio (furti, scippi etc.), ma ad esempio, con difficoltà se non mai avranno priorità reati riguardante la corruzione o il coinvolgimento di membri del Governo e ad esso legati. In pratica non avremo più una legge uguale per tutti.
“Con questa Riforma, ci siamo giocati il fatto – conclude la ex Magistrato Maria Longo – che per i giudici, soggetti soltanto alla legge, la loro pronuncia di sentenza non potrà che essere condizionato da un’indagine sbilanciata”.
Dato che questo referendum non prevede il raggiungimento del quorum, si riuscirà a far comprendere la sua pericolosità a tutti i cittadini che si recheranno alle urne a votare?
Note
1 – https://www.affariregionali.it/it/il-ministro/comunicati/autonomia-ministro-calderoli-pubblica-le-pre-intese-con-le-4-regioni/
2 – https://alkemianews.it/2025/11/19/sanita-emilia-romagna-stop-ai-pazienti-da-fuori/
3 – https://www.piolatorre.it/public/r/l-ombra-della-p2-di-gelli-su-riforme-e-democrazia-illiberale-1-4195/
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Dopo l’azione del ministro Calderoli di far rientrare dalla finestra la sua legge per l’Autonomia Differenziata, procedendo nonostante l’illegittimità dichiarata della Corte Costituzionale e l’annullamento dalla Consulta, questo Governo procede nel suo progetto rifondativo dell’ordinamento della Repubblica (1).
Questa, non a caso, è stata definita una Contro-Riforma. Va conosciuta e compresa come tale, anche in previsione del referendum di primavera, indetto per la prima volta da un Governo della Repubblica e non dalla sua opposizione assopita e sbandante.
È infatti Antonio Madera del Comitato Emilia Romagna per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata ad affermare che: “Senza una posizione chiara anche sull’Autonomia Differenziata (2), da parte di quella opposizione che si rifà ai nostri valori, certamente si perdono anche le prossime elezioni”.
La ricerca, da parte della Presidente del Consiglio (smettiamola di chiamarla Premier) è un mandato popolare indiscusso. Ottenere la libertà di poter agire indiscutibilmente, in cielo in terra ed in ogni luogo, per il bene degli italiani. Magari, come già avviene con la stampa, esautorando anche il lavoro parlamentale.
Il Governo Meloni in realtà, è alla ricerca di una maggioranza plebiscitaria popolare, per lo più inconsapevole del pericolo non solo istituzionale, che sta correndo.
Per illustrare i principi della Contro-Riforma e a sostegno della sua pericolosità, vi proponiamo questo confronto informato, tenuto tra noi che non essendo la classica spiegazione tecnica e didattica, abbiamo deciso di rendere pubblico. Vi proponiamo, inoltre, questo video animato che ne riassume i punti guida.
“La relazione della già magistrato Maria Longo” – 1° parte
Riteniamo sia nostro dovere rendere reale ciò che, impropriamente, viene enunciato dal ministro Carlo Nordio come la Riforma che velocizzerà i tempo processuali; impedirà ingerenze della magistratura nelle sfere politiche; ridurrà la pressione delle correnti interne al CSM, ed altre amenità. In realtà sono tutti principi finalizzati a nascondere la volontà di controllare uno dei tre principali ordinamenti democratici dello Stato Costituzionale.
Un tentativo, che a fatica era già stato respinto e sogno del pluri-indagato Silvio Berlusconi, graziato soprattutto per scadenza dei termini dei tempi processuali. Un progetto, tassello fondamentale, del Piano Solo elaborato dalla P2 di Licio Gelli(3) che altro aveva in mente al rispetto e riconoscimento della Democrazia Costituzionale nata dalla lotta di liberazione.
Nell’attuare questa riforma della Giustizia, il Governo non ha neanche il coraggio politico di dire apertamente che è un’azione attuata contro la magistratura e contro la loro indipendenza e autonomia. E che la velocizzazione dell’iter processuale, in realtà è una falsità. Al contrario, lo renderà ancora più farraginoso e lento.
“Dubbie perplessità a confronto” – 2° Parte
La posta in gioco è molto alta per la tenuta della nostra Repubblica Costituzionale e senza mezze parole la già Magistrato, dott.sa Maria Longo, ci ricorda che: “Qui abbiamo un esecutivo che ha disposto una modifica costituzionale, esorbitando dai propri poteri, esautorandone totalmente il Parlamento. Non un emendamento è stato preso in considerazione e ha inciso e vuole incidere, in modo estremo sull’autonomia ed indipendenza della magistratura”.
Bisogna essere consapevoli che l’Autonomia Differenziata, la Giustizia e il Premierato, rappresentano le tre riforme decisive attuate da questa maggioranza Trumpiana, per scardinare l’attuale ordinamento Costituzionale.
Obiettivo infatti, di questa azione contro la magistratura, è anche rafforzare, con la possibile vittoria al referendum, la propria posizione in previsione della prossima riforma sul Premierato, tanto voluta da Giorgia Meloni. Un progetto che ridurrà la figura del Presidente della Repubblica, organo supremo di controllo dei principi costituzionali.
Rendendo innocui i suoi principi, si otterrebbe così definitivamente sotto controllo della maggioranza di Governo, i tre organi fondativi ed indipendenti della Repubblica nata dopo la liberazione dalla dittatura antidemocratica e anticostituzionale.
Un processo attivo e spudorato, che mira ad instaurare un sistema politico illiberale, adatto e tollerato soltanto da chi dimostrerà fedeltà alla nuova linea a-democratica. Un progetto tutt’altro che rispettoso, anche del principio nazionalista e liberal-democratico, che la stessa Meloni ha per anni rivendicato e che gli ha permesso di giungere sino al Governo del nostro paese.
Riassumendo: oltre al Super Poliziotto come PM, si avranno reati che saranno perseguiti ed altri no e per di più con un’azione penale non più di fatto obbligatoria. Ovviamente si farà riferimento a reati contro il patrimonio (furti, scippi etc.), ma ad esempio, con difficoltà se non mai avranno priorità reati riguardante la corruzione o il coinvolgimento di membri del Governo e ad esso legati. In pratica non avremo più una legge uguale per tutti.
“Con questa Riforma, ci siamo giocati il fatto – conclude la ex Magistrato Maria Longo – che per i giudici, soggetti soltanto alla legge, la loro pronuncia di sentenza non potrà che essere condizionato da un’indagine sbilanciata”.
Dato che questo referendum non prevede il raggiungimento del quorum, si riuscirà a far comprendere la sua pericolosità a tutti i cittadini che si recheranno alle urne a votare?
Note
1 – https://www.affariregionali.it/it/il-ministro/comunicati/autonomia-ministro-calderoli-pubblica-le-pre-intese-con-le-4-regioni/
2 – https://alkemianews.it/2025/11/19/sanita-emilia-romagna-stop-ai-pazienti-da-fuori/
3 – https://www.piolatorre.it/public/r/l-ombra-della-p2-di-gelli-su-riforme-e-democrazia-illiberale-1-4195/
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Tutte le azioni della Nato contro la Russia
di Jeffrey Sachs
Dall’indipendenza di Kiev in poi, gli Stati Uniti&Co. hanno fatto fallire ogni tentativo di accordo tra i due Stati ex-Urss, pur di strappare l’ex Repubblica sovietica all’influenza del Cremlino
La guerra in Ucraina è il culmine di un crollo trentennale dell’ordine di sicurezza europeo.
Lungi dall’essere inevitabile o predeterminata, è nata da uno smantellamento sistematico dei principi che hanno radicato l’accordo post Guerra Fredda: la neutralità degli Stati posizionati tra blocchi militari, l’impegno di USA e Germania a non espandere la NATO verso Est, nell’ex sfera Sovietica, e la dottrina dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) secondo cui la sicurezza deve esser indivisibile, ovvero che nessuno Stato può rafforzare la propria sicurezza a scapito di un altro.
Contrariamente alle narrazioni occidentali dominanti che descrivono la Russia come l’aggressore unilaterale, è assodato che le amministrazioni statunitensi successive al crollo dell'URSS, supportate nei momenti chiave dall’Unione Europea, hanno allontanato l’Ucraina dalla sua neutralità costituzionalmente sancita, trascinandola in uno scontro geopolitico. In diversi momenti, dal 1990, 1994, 2008, 2014, 2015, 2021 e 2022 fino a oggi, sono esistite esplicite vie diplomatiche (exit ramps) che avrebbero potuto garantire la sovranità dell’Ucraina, proteggere la sicurezza europea e impedire la guerra. Ogni volta, sono state respinte dall’Occidente.
Quando l’Ucraina ottenne l’indipendenza nel 1991, la neutralità fu un pilastro dell’accordo politico. La Dichiarazione di Sovranità Statale del 1990 affermava che il Paese intendeva esser uno “Stato permanentemente neutrale” che non si sarebbe unito a blocchi militari. Tale principio divenne legge: l’articolo 18 della Costituzione del 1996, impegna lo Stato alla neutralità e al non allineamento. L’opinione pubblica ucraina rafforzò tale posizione. Dagli anni '90 fino a inizi 2014, la maggioranza s’è sempre opposta all’adesione alla NATO.
Dal 1989 al 1991, i leader occidentali hanno ripetutamente assicurato ai funzionari sovietici che la NATO non si sarebbe espansa verso Est se Mosca avesse accettato la riunificazione tedesca, come ben documentato in archivi declassificati. Il 9 febbraio 1990, il Segretario di Stato americano Baker disse a Gorbaciov: “La giurisdizione della NATO non si sposterà di un pollice verso Est”. Il Ministro degli Esteri tedesco Genscher dichiarò nel gennaio 1990: “Non ci sarà un’espansione del territorio della Nato verso Est”.
L’Atto finale di Helsinki (1975) e la Carta di Parigi (1990) stabilivano che la sicurezza in Europa doveva esser collettiva, non a somma zero. La Carta per la sicurezza europea dell’OSCE del 1999 riaffermò: “Nessuno Stato accrescerà la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Stati”. L’allargamento NATO, in particolare in Ucraina, violava tale principio.
Nel 1994, l’Ucraina restituì alla Russia il controllo dell’arsenale nucleare di epoca sovietica in base al Memorandum di Budapest, in un contesto di sicurezza definito da tre condizioni:
1) l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale;
2) la NATO non si sarebbe espansa verso l’Ucraina;
3) la sicurezza europea si sarebbe basata sui principi dell’OSCE, non sulla politica di blocco.
La tragedia è che, col passare degli anni ’90, la strategia statunitense s’è conformata alla logica articolata da Brzezinski ne La grande scacchiera (1997): “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico”. “Se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina la Russia riacquista i mezzi per diventare un potente Stato imperiale”. Tale pensiero ha da allora plasmato la prospettiva strategica statunitense. L’obiettivo era quindi quello d’incorporare l’Ucraina nella NATO.
Nel 2004, USA e Unione Europea sostennero la Rivoluzione Arancione, fornendo assistenza finanziaria a gruppi della società civile attraverso il Fondo Nazionale per la Democrazia, USAID e varie fondazioni. Poi, nel 2008, al vertice NATO di Bucarest, e nonostante la forte opposizione di Germania e Francia, gli USA costrinsero la NATO a dichiarare: “Ucraina e Georgia diventeranno membri”. La Cancelliera tedesca Merkel ammise poi: “Dal punto di vista ucraino, questa sarebbe stata una dichiarazione di guerra per Putin”. Ma l’opinione pubblica rimase in larga maggioranza contraria all’adesione: il candidato presidenziale Viktor Yanukovich vinse le elezioni del 2009/10 su una piattaforma di neutralità e la sua amministrazione approvò una legge che codificava l’Ucraina come Stato non appartenente ad alcun blocco.
Tuttavia, le forze pro-NATO in Ucraina e Occidente videro l’opportunità quando nel 2013 Yanukovich rinviò la firma d’un accordo d’associazione con l’Unione Europea, che scatenò proteste di massa alimentate dagli USA. L’apparato statunitense per il Cambio di Regime entrò in azione.
Il 21 febbraio 2014 l’Unione Europea mediò un accordo con Yanukovich, basato su riforme costituzionali, governo d’unità nazionale ed elezioni anticipate. Invece, nel giro di poche ore, gruppi armati occuparono edifici governativi e Yanukovich fuggì, ma certo non si dimise. Il Parlamento lo rimosse senza procedure costituzionali e gli USA diedero il sostegno al Regime di fatto: l’Unione Europea rimase in silenzio e lasciò che il deep State (Stato Occulto) statunitense prendesse il comando.
Il nuovo governo adottò politiche nazionaliste e dichiarò un’operazione militare “antiterrorismo” contro le proteste nelle regioni orientali etnicamente russe. Ciò militarizzò una disputa politica e rese impossibile un compromesso. La nuova classe politica iniziò a parlare d’espellere la Russia dalla sua base navale in Crimea. Alla fine, la Russia s’impossessò della Crimea, adducendo preoccupazioni per la sicurezza nazionale relative alla Flotta del Mar Nero.
Per fermare i combattimenti a Est, la Russia contribuì a mediare l’accordo di Minsk II. Tale intesa, approvata all’unanimità dalla Risoluzione 2202 del Consiglio di Sicurezza ONU, prevedeva un cessate il fuoco, l’autonomia (“status speciale”) per Donetsk e Lugansk, riforme costituzionali per proteggere la minoranza etnica russa e il ritiro delle armi pesanti. L’Ucraina si rifiutò di attuare l’accordo, soprattutto l’autonomia per il Donbass. La Merkel ammise poi che l’accordo aveva lo scopo di “dare tempo all’Ucraina” per rafforzare la propria forza militare.
Tra il 2015 e il 2021, l’Ucraina è divenuta di fatto un alleato NATO, grazie a esercitazioni congiunte, nuove strutture di comando conformi agli standard dell’Alleanza, missioni di addestramento con USA e Regno Unito, integrazione dell’intelligence e, soprattutto, miliardi di dollari in trasferimenti di armi. Nel 2021, l’Ucraina aveva il più grande esercito d’Europa al di fuori della Russia.
Nel dicembre 2021, la Russia ha presentato due bozze di trattato, una per gli USA e l’altra per l’Unione Europea, invitando l’Occidente a rinunciare all’adesione dell’Ucraina alla NATO, ritirare le armi NATO dai confini russi, tornare ai livelli di dispiegamento del 1997 e ripristinare i principi di sicurezza indivisibili dell’OSCE.
Gli USA si sono rifiutati di negoziare con la Russia sull’allargamento sostenendo che la “politica delle porte aperte” della NATO non fosse affar suo. Il fallimento del tentativo ha portato la Russia a lanciare l’Operazione Militare Speciale. Nel 2023, il Segretario Generale NATO Stoltenberg ha così riassunto la situazione: “Il contesto era che Putin, nell’autunno 2021, aveva dichiarato, e di fatto inviato, una bozza di trattato che voleva che la NATO firmasse, di promettere che non ci sarebbe stato un ulteriore allargamento. Era una precondizione per non invadere l’Ucraina. Ovviamente non l’abbiamo firmato. Così è andato in guerra per impedire alla NATO di avvicinarsi ai suoi confini. Ha ottenuto l’esatto opposto”.
In breve, la guerra in Ucraina non è stata il risultato di antichi odi o un improvviso atto d’aggressione, bensì il risultato prevedibile d’una serie di decisioni di USA e UE che hanno smantellato la neutralità ucraina, respinto la diplomazia con la Russia e subordinato la sicurezza dell’Ucraina a una fallimentare strategia geopolitica occidentale. Una soluzione duratura alla guerra richiede un ritorno ai principi che hanno guidato il periodo successivo alla Guerra Fredda: la neutralità dell’Ucraina, la sicurezza indivisibile dell’Europa e una vera diplomazia tra Unione Europea e Russia.
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Dall’indipendenza di Kiev in poi, gli Stati Uniti&Co. hanno fatto fallire ogni tentativo di accordo tra i due Stati ex-Urss, pur di strappare l’ex Repubblica sovietica all’influenza del Cremlino
La guerra in Ucraina è il culmine di un crollo trentennale dell’ordine di sicurezza europeo.
Lungi dall’essere inevitabile o predeterminata, è nata da uno smantellamento sistematico dei principi che hanno radicato l’accordo post Guerra Fredda: la neutralità degli Stati posizionati tra blocchi militari, l’impegno di USA e Germania a non espandere la NATO verso Est, nell’ex sfera Sovietica, e la dottrina dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) secondo cui la sicurezza deve esser indivisibile, ovvero che nessuno Stato può rafforzare la propria sicurezza a scapito di un altro.
Contrariamente alle narrazioni occidentali dominanti che descrivono la Russia come l’aggressore unilaterale, è assodato che le amministrazioni statunitensi successive al crollo dell'URSS, supportate nei momenti chiave dall’Unione Europea, hanno allontanato l’Ucraina dalla sua neutralità costituzionalmente sancita, trascinandola in uno scontro geopolitico. In diversi momenti, dal 1990, 1994, 2008, 2014, 2015, 2021 e 2022 fino a oggi, sono esistite esplicite vie diplomatiche (exit ramps) che avrebbero potuto garantire la sovranità dell’Ucraina, proteggere la sicurezza europea e impedire la guerra. Ogni volta, sono state respinte dall’Occidente.
Quando l’Ucraina ottenne l’indipendenza nel 1991, la neutralità fu un pilastro dell’accordo politico. La Dichiarazione di Sovranità Statale del 1990 affermava che il Paese intendeva esser uno “Stato permanentemente neutrale” che non si sarebbe unito a blocchi militari. Tale principio divenne legge: l’articolo 18 della Costituzione del 1996, impegna lo Stato alla neutralità e al non allineamento. L’opinione pubblica ucraina rafforzò tale posizione. Dagli anni '90 fino a inizi 2014, la maggioranza s’è sempre opposta all’adesione alla NATO.
Dal 1989 al 1991, i leader occidentali hanno ripetutamente assicurato ai funzionari sovietici che la NATO non si sarebbe espansa verso Est se Mosca avesse accettato la riunificazione tedesca, come ben documentato in archivi declassificati. Il 9 febbraio 1990, il Segretario di Stato americano Baker disse a Gorbaciov: “La giurisdizione della NATO non si sposterà di un pollice verso Est”. Il Ministro degli Esteri tedesco Genscher dichiarò nel gennaio 1990: “Non ci sarà un’espansione del territorio della Nato verso Est”.
L’Atto finale di Helsinki (1975) e la Carta di Parigi (1990) stabilivano che la sicurezza in Europa doveva esser collettiva, non a somma zero. La Carta per la sicurezza europea dell’OSCE del 1999 riaffermò: “Nessuno Stato accrescerà la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Stati”. L’allargamento NATO, in particolare in Ucraina, violava tale principio.
Nel 1994, l’Ucraina restituì alla Russia il controllo dell’arsenale nucleare di epoca sovietica in base al Memorandum di Budapest, in un contesto di sicurezza definito da tre condizioni:
1) l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale;
2) la NATO non si sarebbe espansa verso l’Ucraina;
3) la sicurezza europea si sarebbe basata sui principi dell’OSCE, non sulla politica di blocco.
La tragedia è che, col passare degli anni ’90, la strategia statunitense s’è conformata alla logica articolata da Brzezinski ne La grande scacchiera (1997): “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico”. “Se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina la Russia riacquista i mezzi per diventare un potente Stato imperiale”. Tale pensiero ha da allora plasmato la prospettiva strategica statunitense. L’obiettivo era quindi quello d’incorporare l’Ucraina nella NATO.
Nel 2004, USA e Unione Europea sostennero la Rivoluzione Arancione, fornendo assistenza finanziaria a gruppi della società civile attraverso il Fondo Nazionale per la Democrazia, USAID e varie fondazioni. Poi, nel 2008, al vertice NATO di Bucarest, e nonostante la forte opposizione di Germania e Francia, gli USA costrinsero la NATO a dichiarare: “Ucraina e Georgia diventeranno membri”. La Cancelliera tedesca Merkel ammise poi: “Dal punto di vista ucraino, questa sarebbe stata una dichiarazione di guerra per Putin”. Ma l’opinione pubblica rimase in larga maggioranza contraria all’adesione: il candidato presidenziale Viktor Yanukovich vinse le elezioni del 2009/10 su una piattaforma di neutralità e la sua amministrazione approvò una legge che codificava l’Ucraina come Stato non appartenente ad alcun blocco.
Tuttavia, le forze pro-NATO in Ucraina e Occidente videro l’opportunità quando nel 2013 Yanukovich rinviò la firma d’un accordo d’associazione con l’Unione Europea, che scatenò proteste di massa alimentate dagli USA. L’apparato statunitense per il Cambio di Regime entrò in azione.
Il 21 febbraio 2014 l’Unione Europea mediò un accordo con Yanukovich, basato su riforme costituzionali, governo d’unità nazionale ed elezioni anticipate. Invece, nel giro di poche ore, gruppi armati occuparono edifici governativi e Yanukovich fuggì, ma certo non si dimise. Il Parlamento lo rimosse senza procedure costituzionali e gli USA diedero il sostegno al Regime di fatto: l’Unione Europea rimase in silenzio e lasciò che il deep State (Stato Occulto) statunitense prendesse il comando.
Il nuovo governo adottò politiche nazionaliste e dichiarò un’operazione militare “antiterrorismo” contro le proteste nelle regioni orientali etnicamente russe. Ciò militarizzò una disputa politica e rese impossibile un compromesso. La nuova classe politica iniziò a parlare d’espellere la Russia dalla sua base navale in Crimea. Alla fine, la Russia s’impossessò della Crimea, adducendo preoccupazioni per la sicurezza nazionale relative alla Flotta del Mar Nero.
Per fermare i combattimenti a Est, la Russia contribuì a mediare l’accordo di Minsk II. Tale intesa, approvata all’unanimità dalla Risoluzione 2202 del Consiglio di Sicurezza ONU, prevedeva un cessate il fuoco, l’autonomia (“status speciale”) per Donetsk e Lugansk, riforme costituzionali per proteggere la minoranza etnica russa e il ritiro delle armi pesanti. L’Ucraina si rifiutò di attuare l’accordo, soprattutto l’autonomia per il Donbass. La Merkel ammise poi che l’accordo aveva lo scopo di “dare tempo all’Ucraina” per rafforzare la propria forza militare.
Tra il 2015 e il 2021, l’Ucraina è divenuta di fatto un alleato NATO, grazie a esercitazioni congiunte, nuove strutture di comando conformi agli standard dell’Alleanza, missioni di addestramento con USA e Regno Unito, integrazione dell’intelligence e, soprattutto, miliardi di dollari in trasferimenti di armi. Nel 2021, l’Ucraina aveva il più grande esercito d’Europa al di fuori della Russia.
Nel dicembre 2021, la Russia ha presentato due bozze di trattato, una per gli USA e l’altra per l’Unione Europea, invitando l’Occidente a rinunciare all’adesione dell’Ucraina alla NATO, ritirare le armi NATO dai confini russi, tornare ai livelli di dispiegamento del 1997 e ripristinare i principi di sicurezza indivisibili dell’OSCE.
Gli USA si sono rifiutati di negoziare con la Russia sull’allargamento sostenendo che la “politica delle porte aperte” della NATO non fosse affar suo. Il fallimento del tentativo ha portato la Russia a lanciare l’Operazione Militare Speciale. Nel 2023, il Segretario Generale NATO Stoltenberg ha così riassunto la situazione: “Il contesto era che Putin, nell’autunno 2021, aveva dichiarato, e di fatto inviato, una bozza di trattato che voleva che la NATO firmasse, di promettere che non ci sarebbe stato un ulteriore allargamento. Era una precondizione per non invadere l’Ucraina. Ovviamente non l’abbiamo firmato. Così è andato in guerra per impedire alla NATO di avvicinarsi ai suoi confini. Ha ottenuto l’esatto opposto”.
In breve, la guerra in Ucraina non è stata il risultato di antichi odi o un improvviso atto d’aggressione, bensì il risultato prevedibile d’una serie di decisioni di USA e UE che hanno smantellato la neutralità ucraina, respinto la diplomazia con la Russia e subordinato la sicurezza dell’Ucraina a una fallimentare strategia geopolitica occidentale. Una soluzione duratura alla guerra richiede un ritorno ai principi che hanno guidato il periodo successivo alla Guerra Fredda: la neutralità dell’Ucraina, la sicurezza indivisibile dell’Europa e una vera diplomazia tra Unione Europea e Russia.
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Proteste ad Oslo per il “Nobel” alla Machado
Diverse organizzazioni pacifiste norvegesi hanno annunciato una manifestazione a Oslo per il 9 dicembre, poche ore prima che la leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado riceva il Premio Nobel per la Pace.
L’appello alla protesta è stato diffuso in una dichiarazione che esorta la popolazione a rifiutare il premio conferito a Machado, accusandola di non rappresentare i valori di pace sociale richiesti dal premio.
Le organizzazioni sostengono che il Premio Nobel abbia ignorato, a loro avviso, il principio di autodeterminazione dei popoli latinoamericani e affermano che la decisione è motivata da interessi politici esterni.
“Mi preoccupa che tu non abbia dedicato il Nobel al tuo popolo, ma all’aggressore del Venezuela” ha scritto il Premio Nobel per la Pace Perez D’Esquivel in una lettera aperta inviata il 13 ottobre scorso alla Machado. “Penso, Corina, che tu debba analizzare e capire dove ti trovi, se sei solo un'altra pedina del colonialismo degli Stati Uniti, sottomessa ai suoi interessi di dominio, il che non potrà mai essere per il bene del tuo popolo. Come oppositrice del governo di Maduro, le tue posizioni e scelte generano molta incertezza; ricorri al peggio quando chiedi che gli Stati Uniti invadano il Venezuela” afferma Perez D’Esquivel.
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L’appello alla protesta è stato diffuso in una dichiarazione che esorta la popolazione a rifiutare il premio conferito a Machado, accusandola di non rappresentare i valori di pace sociale richiesti dal premio.
Le organizzazioni sostengono che il Premio Nobel abbia ignorato, a loro avviso, il principio di autodeterminazione dei popoli latinoamericani e affermano che la decisione è motivata da interessi politici esterni.
“Mi preoccupa che tu non abbia dedicato il Nobel al tuo popolo, ma all’aggressore del Venezuela” ha scritto il Premio Nobel per la Pace Perez D’Esquivel in una lettera aperta inviata il 13 ottobre scorso alla Machado. “Penso, Corina, che tu debba analizzare e capire dove ti trovi, se sei solo un'altra pedina del colonialismo degli Stati Uniti, sottomessa ai suoi interessi di dominio, il che non potrà mai essere per il bene del tuo popolo. Come oppositrice del governo di Maduro, le tue posizioni e scelte generano molta incertezza; ricorri al peggio quando chiedi che gli Stati Uniti invadano il Venezuela” afferma Perez D’Esquivel.
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07/12/2025
Cartoline cinesi ep. 1 – Ferro e led
di Jack Orlando
Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.
Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.
Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.
Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.
La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.
Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose. Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.
Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.
L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati. La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.
L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.
Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.
Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali. Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.
È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.
Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.
Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.
Fonte
Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.
Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.
Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.
Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.
La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.
Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose. Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.
Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.
L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati. La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.
L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.
Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.
Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali. Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.
È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.
Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.
Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.
Fonte
Giochi di guerra italiani nel deserto del Qatar
di Antonio Mazzeo
Il 20 novembre scorso si sé conclusa presso il poligono di Al Qalayil l’esercitazione militare internazionale “Ferocious Falcon 6”, condotta dal ministero della Difesa italiano con personale di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, insieme alle forze armate di Francia, Gran Bretagna, Qatar, Stati Uniti e Turchia.
“Giunta alla sesta edizione, l’esercitazione è stata organizzata dalle autorità militari del Qatar e, per l’Italia, dal Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI)”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. “L’obiettivo è stato quello di incrementare l’integrazione, l’interoperabilità e la capacità di risposta congiunta nell’area del Golfo”.
I war games sono consistiti in operazioni di “integrazione dei posti di comando” e attività addestrative a fuoco. Nello specifico, uomini e mezzi della Brigata Meccanizzata “Aosta” (con comando e sede in Sicilia) hanno svolto esercitazioni di combattimento in ambiente desertico, con l’impiego di piattaforme terrestri di nuova generazione. In parallelo, l’Aeronautica Militare ha simulato attacchi impiegando i cacciabombardieri “Eurofighter” e i grandi aerei cargo KC-767A per il rifornimento in volo.
“Ferocious Falcon 6” si è conclusa con un seminario internazionale dedicato alle principali sfide militari contemporanee; gli ufficiali italiani sono intervenuti nel panel sulla Guerra Elettronica, “illustrando gli strumenti per la protezione dello spettro elettromagnetico”.
Alla giornata finale erano presenti i vertici delle forze armate qatarine e le delegazioni militari dei Paesi partecipanti (per l’Italia il vicecomandante del COVI, l’ammiraglio Giacinto Sciandra). Ospite d’onore il ministro della Difesa Guido Crosetto, in visita ufficiale in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti per rafforzare la cooperazione nel settore militare.
A Doha, Crosetto ha incontrato lo sceicco Saoud bin Abdulrahman Al Thani, vice premier e ministro della Difesa del Qatar.
“Il Qatar è un mediatore che ha svolto un ruolo di primo piano nella crisi di Gaza e sta attualmente mediando in altre crisi, confermandosi un partner capace e affidabile nei processi di dialogo e di de-escalation, in grado di fornire un contributo significativo alla stabilità regionale”, ha enfatizzato Guido Crosetto a conclusione del meeting con Al Thani. “È emersa una comune volontà di consolidare i già profondi legami di amicizia, di lavorare insieme per la pace in Medio Oriente e di rafforzare l’eccellente cooperazione in corso tra le nostre forze armate e l’industria della difesa”.
Ancora più complessa l’esercitazione bilaterale “NASR 2025” condotta nelle prime due settimane di novembre dall’Esercito Italiano e dalle Qatar Emiri Land Forces, ancora una volta nel poligono desertico di Al Qalayil.
La “NASR 2025”, sotto la supervisione dello Stato Maggiore dell’Esercito, ha visto la partecipazione di oltre 500 militari della Brigata Meccanizzata “Aosta” e di altri reparti provenienti da tutta Italia.
“L’attività addestrativa è culminata con un’esercitazione di Gruppo Tattico pluriarma in un contesto warfighting a guida 6° Reggimento bersaglieri, con l’impiego delle nuove piattaforme blindo “Centauro 2” del 6° Reggimento Lancieri di “Aosta”, col supporto di fuoco dei Reggimenti di Artiglieria 8° “Pasubio” e 52° “Torino”, del 4° Guastatori e 6° Pionieri, del 185° Reggimento Paracadutisti e degli aeromobili a pilotaggio remoto (droni) del 3° Reggimento Supporto Targeting “Bondone””, riporta in nota lo Stato Maggiore dell’Esercito.
I war games con le forze terrestri dell’Emirato sono state un’importante occasione per testare e proporre al florido mercato del Medio Oriente alcuni dei nuovi sistemi d’arma prodotti dalle aziende leader del comparto militare industriale nazionale.
“Durante tutto il periodo di permanenza in Qatar è stata condotta, a cura del Comando Valutazione e Innovazione dell’Esercito (COMVIE), un’intensa attività di sperimentazione sul campo di una serie di tecnologie attualmente ritenute di forte interesse per l’incremento delle capacità operative della Forza Armata”, spiegano i vertici dell’Esercito.
In particolare, in occasione delle esercitazioni a fuoco sono stati impiegati, oltre ai blindo da combattimento 8×8 “Centauro 2” del Consorzio CIO (IVECO-Oto Melara), i nuovi munizionamenti di artiglieria a lunga gittata per obici da 155mm “Vulcano”, prodotti negli stabilimenti di Leonardo SpA. “Organizzata dal IV Reparto Logistico dell’Esercito, l’attività di validazione ha messo in luce l’efficacia del munizionamento, che può attingere obiettivi posti a oltre settanta chilometri di distanza”, aggiunge lo Stato Maggiore. “Nella versione a guida GPS a lungo raggio, il “Vulcano” ha messo in evidenza l’eccezionale precisione sui punti determinati da un Team di Forze Speciali del 185° Reggimento Acquisizione Obiettivi”.
In occasione di “NASR 2025” sono stati massicciamente impiegati pure i nuovi obici semoventi PZH 2000 da 155/52mm, che l’Esercito italiano ha acquistato dal consorzio tedesco formato dalle aziende Krauss-Maffei Weggmann e Rheinmetall. Verificata sul campo di battaglia anche “l’efficacia” dello scambio rapido delle informazioni e l’integrazione dei sistemi di Comando e Controllo (C2) e di gestione del fuoco di diversa tipologia, schierati in Qatar, a Bracciano (Roma) e nel poligono di Monte Romano (Viterbo), grazie ai collegamenti satellitari digitali realizzati dal 2° Reggimento Trasmissioni Alpino di stanza a Bolzano.
Anche la Marina Militare italiana ha rafforzato la propria presenza in Qatar nel corso dell’ultimo anno. A metà giugno, la fregata missilistica “Antonio Marceglia” (unità del progetto multi-missione italo-francese FREMM, realizzata da Fincantieri SpA) ha effettuato una sosta tecnico-logistica nel porto di Doha. “L’importanza di questo passaggio in Qatar è cruciale: tra i Paesi europei, l’Italia è il primo partner commerciale dell’emirato, dove le aziende tricolori sono protagoniste da tempo”, scrive con malcelata enfasi lo Stato Maggiore della Marina.
La sosta nella capitale qatarina si è rivelata strategica per promuovere obici e cannoni navali, sistemi radar e tecnologie elettroniche Made in Italy. “Questa nave è ambasciatrice di tecnologia, know how, eccellenza del Sistema-Paese Italia”, ha dichiarato Paolo Toschi, ambasciatore d’Italia in Qatar, in visita alla fregata missilistica. “Il confronto tra il mondo militare italiano e quello qatariano è una costante della crescita del legame fra i due Paesi, con un percorso unito di interscambi, esercitazioni, confronti, programmi educativi e, naturalmente, progetti industriali di rilievo”.
A marzo 2025 era stata un’altra fregata multi-missione FREMM – la “Luigi Rizzo” – ad approdare a Doha. “La sosta di Nave Rizzo è un’importante occasione per favorire lo scambio di esperienze, rafforzare i legami istituzionali e promuovere un dialogo costruttivo sui temi della difesa e della sicurezza”, riportava con l’immancabile enfasi il Comando della Marina Militare italiana. “La presenza della Fregata in Qatar è parte delle attività di cooperazione internazionale della Difesa. L’obiettivo è rafforzare la sinergia con le forze armate del Qatar nelle operazioni di sicurezza marittima, con particolare attenzione alla protezione delle rotte commerciali e alla stabilità regionale”.
Fonte
Il 20 novembre scorso si sé conclusa presso il poligono di Al Qalayil l’esercitazione militare internazionale “Ferocious Falcon 6”, condotta dal ministero della Difesa italiano con personale di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, insieme alle forze armate di Francia, Gran Bretagna, Qatar, Stati Uniti e Turchia.
“Giunta alla sesta edizione, l’esercitazione è stata organizzata dalle autorità militari del Qatar e, per l’Italia, dal Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI)”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. “L’obiettivo è stato quello di incrementare l’integrazione, l’interoperabilità e la capacità di risposta congiunta nell’area del Golfo”.
I war games sono consistiti in operazioni di “integrazione dei posti di comando” e attività addestrative a fuoco. Nello specifico, uomini e mezzi della Brigata Meccanizzata “Aosta” (con comando e sede in Sicilia) hanno svolto esercitazioni di combattimento in ambiente desertico, con l’impiego di piattaforme terrestri di nuova generazione. In parallelo, l’Aeronautica Militare ha simulato attacchi impiegando i cacciabombardieri “Eurofighter” e i grandi aerei cargo KC-767A per il rifornimento in volo.
“Ferocious Falcon 6” si è conclusa con un seminario internazionale dedicato alle principali sfide militari contemporanee; gli ufficiali italiani sono intervenuti nel panel sulla Guerra Elettronica, “illustrando gli strumenti per la protezione dello spettro elettromagnetico”.
Alla giornata finale erano presenti i vertici delle forze armate qatarine e le delegazioni militari dei Paesi partecipanti (per l’Italia il vicecomandante del COVI, l’ammiraglio Giacinto Sciandra). Ospite d’onore il ministro della Difesa Guido Crosetto, in visita ufficiale in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti per rafforzare la cooperazione nel settore militare.
A Doha, Crosetto ha incontrato lo sceicco Saoud bin Abdulrahman Al Thani, vice premier e ministro della Difesa del Qatar.
“Il Qatar è un mediatore che ha svolto un ruolo di primo piano nella crisi di Gaza e sta attualmente mediando in altre crisi, confermandosi un partner capace e affidabile nei processi di dialogo e di de-escalation, in grado di fornire un contributo significativo alla stabilità regionale”, ha enfatizzato Guido Crosetto a conclusione del meeting con Al Thani. “È emersa una comune volontà di consolidare i già profondi legami di amicizia, di lavorare insieme per la pace in Medio Oriente e di rafforzare l’eccellente cooperazione in corso tra le nostre forze armate e l’industria della difesa”.
Ancora più complessa l’esercitazione bilaterale “NASR 2025” condotta nelle prime due settimane di novembre dall’Esercito Italiano e dalle Qatar Emiri Land Forces, ancora una volta nel poligono desertico di Al Qalayil.
La “NASR 2025”, sotto la supervisione dello Stato Maggiore dell’Esercito, ha visto la partecipazione di oltre 500 militari della Brigata Meccanizzata “Aosta” e di altri reparti provenienti da tutta Italia.
“L’attività addestrativa è culminata con un’esercitazione di Gruppo Tattico pluriarma in un contesto warfighting a guida 6° Reggimento bersaglieri, con l’impiego delle nuove piattaforme blindo “Centauro 2” del 6° Reggimento Lancieri di “Aosta”, col supporto di fuoco dei Reggimenti di Artiglieria 8° “Pasubio” e 52° “Torino”, del 4° Guastatori e 6° Pionieri, del 185° Reggimento Paracadutisti e degli aeromobili a pilotaggio remoto (droni) del 3° Reggimento Supporto Targeting “Bondone””, riporta in nota lo Stato Maggiore dell’Esercito.
I war games con le forze terrestri dell’Emirato sono state un’importante occasione per testare e proporre al florido mercato del Medio Oriente alcuni dei nuovi sistemi d’arma prodotti dalle aziende leader del comparto militare industriale nazionale.
“Durante tutto il periodo di permanenza in Qatar è stata condotta, a cura del Comando Valutazione e Innovazione dell’Esercito (COMVIE), un’intensa attività di sperimentazione sul campo di una serie di tecnologie attualmente ritenute di forte interesse per l’incremento delle capacità operative della Forza Armata”, spiegano i vertici dell’Esercito.
In particolare, in occasione delle esercitazioni a fuoco sono stati impiegati, oltre ai blindo da combattimento 8×8 “Centauro 2” del Consorzio CIO (IVECO-Oto Melara), i nuovi munizionamenti di artiglieria a lunga gittata per obici da 155mm “Vulcano”, prodotti negli stabilimenti di Leonardo SpA. “Organizzata dal IV Reparto Logistico dell’Esercito, l’attività di validazione ha messo in luce l’efficacia del munizionamento, che può attingere obiettivi posti a oltre settanta chilometri di distanza”, aggiunge lo Stato Maggiore. “Nella versione a guida GPS a lungo raggio, il “Vulcano” ha messo in evidenza l’eccezionale precisione sui punti determinati da un Team di Forze Speciali del 185° Reggimento Acquisizione Obiettivi”.
In occasione di “NASR 2025” sono stati massicciamente impiegati pure i nuovi obici semoventi PZH 2000 da 155/52mm, che l’Esercito italiano ha acquistato dal consorzio tedesco formato dalle aziende Krauss-Maffei Weggmann e Rheinmetall. Verificata sul campo di battaglia anche “l’efficacia” dello scambio rapido delle informazioni e l’integrazione dei sistemi di Comando e Controllo (C2) e di gestione del fuoco di diversa tipologia, schierati in Qatar, a Bracciano (Roma) e nel poligono di Monte Romano (Viterbo), grazie ai collegamenti satellitari digitali realizzati dal 2° Reggimento Trasmissioni Alpino di stanza a Bolzano.
Anche la Marina Militare italiana ha rafforzato la propria presenza in Qatar nel corso dell’ultimo anno. A metà giugno, la fregata missilistica “Antonio Marceglia” (unità del progetto multi-missione italo-francese FREMM, realizzata da Fincantieri SpA) ha effettuato una sosta tecnico-logistica nel porto di Doha. “L’importanza di questo passaggio in Qatar è cruciale: tra i Paesi europei, l’Italia è il primo partner commerciale dell’emirato, dove le aziende tricolori sono protagoniste da tempo”, scrive con malcelata enfasi lo Stato Maggiore della Marina.
La sosta nella capitale qatarina si è rivelata strategica per promuovere obici e cannoni navali, sistemi radar e tecnologie elettroniche Made in Italy. “Questa nave è ambasciatrice di tecnologia, know how, eccellenza del Sistema-Paese Italia”, ha dichiarato Paolo Toschi, ambasciatore d’Italia in Qatar, in visita alla fregata missilistica. “Il confronto tra il mondo militare italiano e quello qatariano è una costante della crescita del legame fra i due Paesi, con un percorso unito di interscambi, esercitazioni, confronti, programmi educativi e, naturalmente, progetti industriali di rilievo”.
A marzo 2025 era stata un’altra fregata multi-missione FREMM – la “Luigi Rizzo” – ad approdare a Doha. “La sosta di Nave Rizzo è un’importante occasione per favorire lo scambio di esperienze, rafforzare i legami istituzionali e promuovere un dialogo costruttivo sui temi della difesa e della sicurezza”, riportava con l’immancabile enfasi il Comando della Marina Militare italiana. “La presenza della Fregata in Qatar è parte delle attività di cooperazione internazionale della Difesa. L’obiettivo è rafforzare la sinergia con le forze armate del Qatar nelle operazioni di sicurezza marittima, con particolare attenzione alla protezione delle rotte commerciali e alla stabilità regionale”.
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Ritirare l’Italia da Eurovision 2026: USB Rai lancia la raccolta firme
La “tregua” di Trump ha mostrato da tempo la sua vera natura: una trappola attraverso cui imbrigliare Gaza in uno stillicidio continuo di attacchi, mentre oltre la metà della Striscia torna sotto occupazione, con i palestinesi che non possono nemmeno reagire senza incappare nell’accusa di violazione del cessate il fuoco. Intanto, in Cisgiordania continuano gli omicidi extragiudiziali, la colonizzazione, la costruzione di barriere per rubare più territori, frammentare e annettere de facto la regione.
Eppure, tutta la classe dirigente sionista e filosionista a livello internazionale ha approfittato di questa parvenza di pace per organizzare un feroce contrattacco alle mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese. Da una parte, il tentativo di cancellare ogni dissenso verso le politiche israeliane con l’equiparazione per legge tra antisionismo e antisemitismo. Dall’altra, l’ulteriore normalizzazione del genocidio attraverso la legittimazione di Israele in eventi sportivi e culturali internazionali.
I solidali con la Palestina hanno risposto con campagne come “Show Israel the Red Card” e con lettere aperte per l’esclusione di Israele dalla UEFA, ad esempio. Sul lato delle manifestazioni culturali, l’assemblea generale dello European Broadcasting Union ha deciso di non escludere Israele dall’Eurovision Song Contest. La Rai ha persino sostenuto la partecipazione dell’emittente pubblica israeliana KAN alla prossima edizione.
È evidente l’impegno del governo italiano nello zittire la voce di chi sostiene il popolo palestinese nella propria resistenza. Per questo, dopo le defezioni di alcuni paesi, il boicottaggio della partecipazione italiana fino all’esclusione della compagine israeliana sarebbe un duro colpo all’opera di mistificazione dei sionisti.
L’Unione Sindacale di Base – Coordinamento Rai ha lanciato una petizione online proprio con questo obiettivo. Riportiamo il testo di lancio qui sotto, insieme alla risposta di adesione all’appello scritta dal Circolo Gap di Roma. Qui la petizione.
Eppure, tutta la classe dirigente sionista e filosionista a livello internazionale ha approfittato di questa parvenza di pace per organizzare un feroce contrattacco alle mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese. Da una parte, il tentativo di cancellare ogni dissenso verso le politiche israeliane con l’equiparazione per legge tra antisionismo e antisemitismo. Dall’altra, l’ulteriore normalizzazione del genocidio attraverso la legittimazione di Israele in eventi sportivi e culturali internazionali.
I solidali con la Palestina hanno risposto con campagne come “Show Israel the Red Card” e con lettere aperte per l’esclusione di Israele dalla UEFA, ad esempio. Sul lato delle manifestazioni culturali, l’assemblea generale dello European Broadcasting Union ha deciso di non escludere Israele dall’Eurovision Song Contest. La Rai ha persino sostenuto la partecipazione dell’emittente pubblica israeliana KAN alla prossima edizione.
È evidente l’impegno del governo italiano nello zittire la voce di chi sostiene il popolo palestinese nella propria resistenza. Per questo, dopo le defezioni di alcuni paesi, il boicottaggio della partecipazione italiana fino all’esclusione della compagine israeliana sarebbe un duro colpo all’opera di mistificazione dei sionisti.
L’Unione Sindacale di Base – Coordinamento Rai ha lanciato una petizione online proprio con questo obiettivo. Riportiamo il testo di lancio qui sotto, insieme alla risposta di adesione all’appello scritta dal Circolo Gap di Roma. Qui la petizione.
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Spagna, Irlanda, Slovenia e Paesi Bassi hanno preso una decisione coraggiosa: non parteciperanno alla 70esima edizione del Eurovision Song Contest, che si terrà a Vienna a maggio 2026. Questi paesi, inoltre, hanno scelto di non trasmettere la finale sui loro canali televisivi nazionali: la loro decisione è stata presa in seguito alla conferma della partecipazione di Israele da parte dell’EBU.
È giunto il momento che anche l’Italia prenda una posizione forte e simbolica contro il genocidio ancora in corso in Palestina attraverso la RAI. Come USB – Coordinamento RAI riteniamo che ritirare l’Italia da Eurovision 2026 manderebbe un chiaro segnale di dissenso, unendo la nostra nazione al gruppo crescente di paesi che scelgono di dissociarsi pubblicamente dalle azioni del governo israeliano.
Israele è stato recentemente al centro di numerose critiche internazionali riguardanti le sue azioni genocide nei confronti della popolazione palestinese. In questo contesto, partecipare a un evento che continua a ospitare Israele equivarrebbe ad un tacito assenso a queste politiche.
Ritirando l’Italia da Eurovision e decidendo di non trasmettere la manifestazione, la RAI non solo prenderebbe una posizione eticamente ed empaticamente giustificabile, ma fornirebbe anche un esempio da leader morale sulla scena internazionale. Un gesto di questo tipo dimostrerebbe quanto l’Italia tenga ai valori di dignità umana, uguaglianza e giustizia per tutti i popoli. Faremmo risuonare la nostra voce a livello globale, dimostrando che non chiudiamo gli occhi di fronte alle ingiustizie.
Chiediamo pertanto alla RAI di ritirare l’Italia dal Eurovision Song Contest 2026 e di unirsi agli altri paesi che si sono già dissociati. Firma questa petizione e facciamo sentire la nostra voce per un cambiamento significativo ed etico.
USB – Coordinamento Rai
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Israele parteciperà all’Eurovision: RITIRARE L’ITALIA DAL FESTIVAL!
Parte il boicottaggio: Spagna, Irlanda, Paesi Bassi e Slovenia si ritirano dalla competizione musicale dopo l’ammissione di Israele.
Come circolo culturale GAP, non possiamo tacere. L’Eurovision si presenta da sempre come un grande rituale di inclusività, fratellanza e libertà, ma in realtà riproduce la logica dell’industria culturale: spettacolo senza conflitto, diversità estetizzata e depoliticizzata, musica trasformata in brand identity. Un evento che neutralizza ogni forma di dissenso e trasforma la cultura in un prodotto perfettamente compatibile con gli interessi economici e geopolitici dominanti.
In questo contesto, la partecipazione di Israele non è un semplice “dettaglio tecnico”: è la prova che la neutralità dell’Eurovision è una finzione. La stessa European Broadcasting Union che ha escluso altri paesi per motivi politici continua a fare eccezione per Israele, nonostante le violazioni documentate del diritto internazionale, il genocidio in Palestina e la repressione sistematica del popolo palestinese.
Anche in Italia la situazione è grave. L’assenza di segnali di dissenso da parte del governo Meloni e anzi appoggio tramite scelte politiche chiare come quelle dei continui tagli alla cultura per finanziare la guerra, il riarmo e il genocidio, la normalizzazione della presenza israeliana e la mozione del PD che equipara antisionismo ad antisemitismo, rendono il nostro paese complice dei crimini israeliani. Un esempio recente è il Festival di Sanremo, dove la partecipazione di cantanti israeliane — una di origini palestinesi — ha contribuito ad una mistificazione che in alcun modo condanna Israele e il suo regime di Apartheid e Genocidio.
Le mobilitazioni e gli scioperi iniziati il 22 settembre lo hanno dimostrato chiaramente: non vogliamo che l’Italia continui a legittimare questi crimini anche nei luoghi della cultura e dello spettacolo. Per questo, come circolo GAP, aderiamo e rilanciamo l’appello lanciato da USB RAI che chiede il ritiro del nostro paese dall’Eurovision finché Israele sarà presente come concorrente. Non un centimetro di spazio a chi porta sul palco la bandiera di un genocidio, anche dietro la retorica dell’intrattenimento “neutrale”.
Per noi, la cultura non è neutra. È responsabilità e scelta. Non può farsi complice di ingiustizie o di genocidi. La musica, il teatro, il cinema e tutti i luoghi di cultura devono essere spazi di consapevolezza, critica e denuncia.
Continueremo a farlo: dalla parte della Palestina, dalla parte di una cultura popolare, critica ed emancipatoria. Firmiamo e diffondiamo l’appello: ritirare l’Italia dall’Eurovision finché Israele sarà tra i concorrenti.
Circolo Gap
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Chi garantisce per i “soldi russi” da girare all’Ucraina? Nessuno…
L’impressione di essere guidati – come Unione Europea e governanti nazionali – da un branco di incompetenti per quanto riguarda le questioni strategiche era già fortissima. Appena temperata dalla insana fiducia instillata nelle opinioni pubbliche circa la loro capacità di controllare le questioni economiche e finanziarie, ben rappresentate dai vincoli inseriti nei trattati che definiscono il “pilota automatico” dell’austerità sui conti pubblici.
Ora anche questa deve crollare davanti all’evidenza.
Sentiamo tutti i giorni che i vertici europei stanno da tempo pensando di sequestrare i fondi russi depositati in banche europee, per una cifra sempre un po’ ballerina ma stabilmente sopra i 140 miliardi per quanto riguarda il solo Belgio, e forse 210 in totale, o di più. Soldi che verrebbero utilizzati per sostenere la guerra dell’Ucraina contro la Russia e, se poi ne avanzano, anche per la ricostruzione dei territori che resteranno a Kiev.
Dal punto di vista commerciale e legale, si tratta di un vero e proprio furto che – fra l’altro – mette in discussione la “difesa della proprietà privata” nell’area del pianeta che più ha fatto di quest’ultima l’unica “libertà” che conti. Per non parlare del rischio che altri paesi, resi edotti dal comportamento piratesco dei poteri europei, portino via i loro soldi verso porti più sicuri (in Europa sono depositati soldi e beni di circa 90 paesi).
Ma, si potrebbe dire, cosa volete che sia un furto davanti ad una guerra e ai suoi orrori...
Sia pure, ma almeno bisogna saper fare i ladri, no?
E invece quegli svalvolati al vertice della UE – von der Leyen, Kallas, Dombrovskis, ecc. – ogni giorni se ne inventano una nuova per arrivare al punto, man mano che scoprono i problemi che rendono un azzardo quell’idea.
Dopo aver deciso di prendersi quei fondi e farne quel che avevano in mente, si sono accorti che Euroclear Bank, il braccio finanziario dell’istituzione belga, è alquanto restia a farsi togliere i 140 miliardi russi che amministra con profitto (mica crederete che quei soldi stiano fermi in una cassaforte invece di essere investiti da qualche parte, no?).
Si sta andando verso una trattativa di pace – è l’argomento – anche se alla UE non piace il come questo possa avvenire. E nella trattativa c’è naturalmente anche la questione delle sanzioni alla Russia, che potrebbero subito dopo essere cancellate. A quel punto il “legale proprietario” potrebbe richiederli indietro e non ci sarebbe alcuna possibilità di negarglieli. Pena il chiudere i mercati finanziari europei ai “foresti”...
Se la UE se li prende per pagare il conto in Ucraina, quando bisognerà restituirli saranno però i belgi a doverglieli dare. E per l’economia di quel piccolo paese 140 miliardi sono una cifra che può metterlo in ginocchio. Quindi chiede una “garanzia europea” che copra il rischio di una causa internazionale persa in partenza.
Ok, dicono i grandi pensatori al vertice della UE. Chiediamo alla Banca Centrale Europea (la Bce, presieduta da quell’anima buona sempre disponibile di Christine Lagarde) di fare da “prestatore di ultima istanza”, tanto è lì che si stampano gli euro...
Ma l’istituto di Francoforte spiega subito sottovoce che “la proposta della Commissione europea viola il suo mandato”. Non che non vorrebbe, insomma. È che proprio non può, non è previsto dalla legge (dal trattato europeo fondativo) – sarebbe un finanziamento diretto degli Stati, cosa vietatissima secondo i criteri dell’“austerità” ordoliberista.
È qui che i superbi geniacci dell’Unione Europea – quelli che manco conoscono i trattati che dovrebbero applicare – cominciano a somigliare a pugili suonati, quelli che dopo un ko si rialzano e vogliono riprendere il combattimento, ma inciampano nella nebbia.
E va beh, dicono subito, allora la garanzia la metteranno tutti e 27 i paesi membri. Cosa volete che siano 140 miliardi divisi tra loro? Al massimo ci dice “no” solo Orbàn, che ne dovrebbe mettere al massimo uno o due...
Ma prima sarebbe bene che ascoltassero le perplessità degli altri ventisei. Sebbene i governi europei siano aperti a garantire una cifra predeterminata, infatti – secondo la confessione fatta qualche giorno fa a POLITICO sotto anonimato – sono però riluttanti a sottoscrivere quella che descrivono come una “carta bianca”. Qualche miliardo va bene, ma 140 proprio no. Perché, semplicemente, metterebbe la sostenibilità finanziaria del loro paese alla mercé di una sentenza giudiziaria, esponendoli potenzialmente a rimborsi per miliardi di euro anche per anni dopo la fine della guerra in Ucraina.
“Se le garanzie sono infinite e senza limiti, allora in cosa ci stiamo cacciando?”, ha sintetizzato un ministro finanziario rimasto anonimo.
“Per molti Stati membri, è politicamente difficile dare questa carta bianca”, ha detto un altro. Vagli a spiegare, poi, alla popolazione che devono stringere la cinghia perché bisogna ridare i soldi ai russi che hanno vinto la guerra e, come tutti i vincitori, non scuciono un centesimo...
Per assicurarsi il consenso politico, la Commissione ha mostrato ad alcuni ambasciatori UE alcune sezioni della sua proposta giuridica, ma l’importo specifico delle garanzie è stato lasciato in bianco. Ti piace la macchina? Meglio che non ti dica quanto ti può costare...
L’alternativa sarebbe allora emettere altro debito UE per coprire il deficit di bilancio dell’Ucraina. Ma l’idea è impopolare tra la maggior parte dei governi UE, perché anche questa ovviamente implica l’uso di denaro dei contribuenti. Che è già risucchiato nel riarmo e nel servizio del debito...
Un ulteriore ostacolo è l’opposizione di qualche paese – non solo l’Ungheria di Orbàn... – perché certe decisioni vanno prese all’unanimità. I furbissimi membri della Commissione – tra un arresto per corruzione e l’altro – hanno scovato un codicillo dei trattati che permetterebbe, su alcune tematiche economiche, di procedere a “maggioranza qualificata”, aggirando i veti.
L’art. 122 dei trattati consentirebbe, secondo alcuni, «di vietare, su base temporanea, qualsiasi trasferimento diretto o indiretto alla Banca centrale di Russia o a suo beneficio» senza richiedere l’unanimità. In pratica è come piazzare una bomba a scoppio ritardato nel processo di costruzione della UE (se posso essere obbligato a fare quello che non voglio, tanto vale che me ne vado alla prima occasione). Ma oltretutto resterebbe comunque il problema del Belgio, sede fisico-legale della maggior parte dei fondi russi.
Un guazzabuglio che von der Leyen & co. vorrebbero comunque mettere in piedi d’autorità, pretendendo “poteri d’emergenza” (in Italia possiamo dare lezioni, in materia...). Ma è più facile far credere che siamo sorvolati tutti i giorni da sciami di “droni russi” piuttosto che realizzare un furto lasciando in brache di tela uno dei tuoi soci...
Nel frattempo la stampa “europeista” e guerrafondaia ha già cominciato a classificare il piccolo paese come “il più valido asset russo”. Con tanto di cancelliere tedesco, Merz, che va direttamente dal premier fiammingo per fornirgli qualche garanzia verbale in più. Ma quello: “niet”, vuole garanzie vere, nero su bianco ed esigibili in caso – ormai inevitabile, dice esplicitamente – che Mosca vinca la guerra e rivoglia tutti i suoi soldi indietro.
Ma se nessuno garantisce niente (al massimo qualche spicciolo) come si fa a portare a termine una rapina con mezzi legali? Il rischio, in una comunità di Stati, deve essere condiviso; non si può scaricare tutto addosso ad uno soltanto (come fatto con l’Ucraina: “vai avanti te, che poi ti copriamo...”). Perché quello, se non è uno stupido o un suprematista esaltato, non ci sta.
Il problema, insomma, non è la resistenza del Belgio, ma l’imbuto in cui si sono cacciati questi super-governanti scelti col manuale Cencelli tra i più obbedienti al “pensiero unico”. E che perciò ogni volta che sono chiamati ad elaborare un pensiero vero, adeguato a risolvere i problemi posti dalla situazione reale, dimostrano una capacità da asilo d’infanzia.
Non perché siano “scemi”, ovviamente. Sono semplicemente le persone sbagliate nei posti sbagliati in un momento molto complicato. Messe lì per difendere banali “interessi di classe” del capitalismo finanziario e multinazionale, al ritmo di un “pilota automatico” fissato in trattati, si ritrovano a ballare musiche che non hanno mai sentito né studiato...
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Ora anche questa deve crollare davanti all’evidenza.
Sentiamo tutti i giorni che i vertici europei stanno da tempo pensando di sequestrare i fondi russi depositati in banche europee, per una cifra sempre un po’ ballerina ma stabilmente sopra i 140 miliardi per quanto riguarda il solo Belgio, e forse 210 in totale, o di più. Soldi che verrebbero utilizzati per sostenere la guerra dell’Ucraina contro la Russia e, se poi ne avanzano, anche per la ricostruzione dei territori che resteranno a Kiev.
Dal punto di vista commerciale e legale, si tratta di un vero e proprio furto che – fra l’altro – mette in discussione la “difesa della proprietà privata” nell’area del pianeta che più ha fatto di quest’ultima l’unica “libertà” che conti. Per non parlare del rischio che altri paesi, resi edotti dal comportamento piratesco dei poteri europei, portino via i loro soldi verso porti più sicuri (in Europa sono depositati soldi e beni di circa 90 paesi).
Ma, si potrebbe dire, cosa volete che sia un furto davanti ad una guerra e ai suoi orrori...
Sia pure, ma almeno bisogna saper fare i ladri, no?
E invece quegli svalvolati al vertice della UE – von der Leyen, Kallas, Dombrovskis, ecc. – ogni giorni se ne inventano una nuova per arrivare al punto, man mano che scoprono i problemi che rendono un azzardo quell’idea.
Dopo aver deciso di prendersi quei fondi e farne quel che avevano in mente, si sono accorti che Euroclear Bank, il braccio finanziario dell’istituzione belga, è alquanto restia a farsi togliere i 140 miliardi russi che amministra con profitto (mica crederete che quei soldi stiano fermi in una cassaforte invece di essere investiti da qualche parte, no?).
Si sta andando verso una trattativa di pace – è l’argomento – anche se alla UE non piace il come questo possa avvenire. E nella trattativa c’è naturalmente anche la questione delle sanzioni alla Russia, che potrebbero subito dopo essere cancellate. A quel punto il “legale proprietario” potrebbe richiederli indietro e non ci sarebbe alcuna possibilità di negarglieli. Pena il chiudere i mercati finanziari europei ai “foresti”...
Se la UE se li prende per pagare il conto in Ucraina, quando bisognerà restituirli saranno però i belgi a doverglieli dare. E per l’economia di quel piccolo paese 140 miliardi sono una cifra che può metterlo in ginocchio. Quindi chiede una “garanzia europea” che copra il rischio di una causa internazionale persa in partenza.
Ok, dicono i grandi pensatori al vertice della UE. Chiediamo alla Banca Centrale Europea (la Bce, presieduta da quell’anima buona sempre disponibile di Christine Lagarde) di fare da “prestatore di ultima istanza”, tanto è lì che si stampano gli euro...
Ma l’istituto di Francoforte spiega subito sottovoce che “la proposta della Commissione europea viola il suo mandato”. Non che non vorrebbe, insomma. È che proprio non può, non è previsto dalla legge (dal trattato europeo fondativo) – sarebbe un finanziamento diretto degli Stati, cosa vietatissima secondo i criteri dell’“austerità” ordoliberista.
È qui che i superbi geniacci dell’Unione Europea – quelli che manco conoscono i trattati che dovrebbero applicare – cominciano a somigliare a pugili suonati, quelli che dopo un ko si rialzano e vogliono riprendere il combattimento, ma inciampano nella nebbia.
E va beh, dicono subito, allora la garanzia la metteranno tutti e 27 i paesi membri. Cosa volete che siano 140 miliardi divisi tra loro? Al massimo ci dice “no” solo Orbàn, che ne dovrebbe mettere al massimo uno o due...
Ma prima sarebbe bene che ascoltassero le perplessità degli altri ventisei. Sebbene i governi europei siano aperti a garantire una cifra predeterminata, infatti – secondo la confessione fatta qualche giorno fa a POLITICO sotto anonimato – sono però riluttanti a sottoscrivere quella che descrivono come una “carta bianca”. Qualche miliardo va bene, ma 140 proprio no. Perché, semplicemente, metterebbe la sostenibilità finanziaria del loro paese alla mercé di una sentenza giudiziaria, esponendoli potenzialmente a rimborsi per miliardi di euro anche per anni dopo la fine della guerra in Ucraina.
“Se le garanzie sono infinite e senza limiti, allora in cosa ci stiamo cacciando?”, ha sintetizzato un ministro finanziario rimasto anonimo.
“Per molti Stati membri, è politicamente difficile dare questa carta bianca”, ha detto un altro. Vagli a spiegare, poi, alla popolazione che devono stringere la cinghia perché bisogna ridare i soldi ai russi che hanno vinto la guerra e, come tutti i vincitori, non scuciono un centesimo...
Per assicurarsi il consenso politico, la Commissione ha mostrato ad alcuni ambasciatori UE alcune sezioni della sua proposta giuridica, ma l’importo specifico delle garanzie è stato lasciato in bianco. Ti piace la macchina? Meglio che non ti dica quanto ti può costare...
L’alternativa sarebbe allora emettere altro debito UE per coprire il deficit di bilancio dell’Ucraina. Ma l’idea è impopolare tra la maggior parte dei governi UE, perché anche questa ovviamente implica l’uso di denaro dei contribuenti. Che è già risucchiato nel riarmo e nel servizio del debito...
Un ulteriore ostacolo è l’opposizione di qualche paese – non solo l’Ungheria di Orbàn... – perché certe decisioni vanno prese all’unanimità. I furbissimi membri della Commissione – tra un arresto per corruzione e l’altro – hanno scovato un codicillo dei trattati che permetterebbe, su alcune tematiche economiche, di procedere a “maggioranza qualificata”, aggirando i veti.
L’art. 122 dei trattati consentirebbe, secondo alcuni, «di vietare, su base temporanea, qualsiasi trasferimento diretto o indiretto alla Banca centrale di Russia o a suo beneficio» senza richiedere l’unanimità. In pratica è come piazzare una bomba a scoppio ritardato nel processo di costruzione della UE (se posso essere obbligato a fare quello che non voglio, tanto vale che me ne vado alla prima occasione). Ma oltretutto resterebbe comunque il problema del Belgio, sede fisico-legale della maggior parte dei fondi russi.
Un guazzabuglio che von der Leyen & co. vorrebbero comunque mettere in piedi d’autorità, pretendendo “poteri d’emergenza” (in Italia possiamo dare lezioni, in materia...). Ma è più facile far credere che siamo sorvolati tutti i giorni da sciami di “droni russi” piuttosto che realizzare un furto lasciando in brache di tela uno dei tuoi soci...
Nel frattempo la stampa “europeista” e guerrafondaia ha già cominciato a classificare il piccolo paese come “il più valido asset russo”. Con tanto di cancelliere tedesco, Merz, che va direttamente dal premier fiammingo per fornirgli qualche garanzia verbale in più. Ma quello: “niet”, vuole garanzie vere, nero su bianco ed esigibili in caso – ormai inevitabile, dice esplicitamente – che Mosca vinca la guerra e rivoglia tutti i suoi soldi indietro.
Ma se nessuno garantisce niente (al massimo qualche spicciolo) come si fa a portare a termine una rapina con mezzi legali? Il rischio, in una comunità di Stati, deve essere condiviso; non si può scaricare tutto addosso ad uno soltanto (come fatto con l’Ucraina: “vai avanti te, che poi ti copriamo...”). Perché quello, se non è uno stupido o un suprematista esaltato, non ci sta.
Il problema, insomma, non è la resistenza del Belgio, ma l’imbuto in cui si sono cacciati questi super-governanti scelti col manuale Cencelli tra i più obbedienti al “pensiero unico”. E che perciò ogni volta che sono chiamati ad elaborare un pensiero vero, adeguato a risolvere i problemi posti dalla situazione reale, dimostrano una capacità da asilo d’infanzia.
Non perché siano “scemi”, ovviamente. Sono semplicemente le persone sbagliate nei posti sbagliati in un momento molto complicato. Messe lì per difendere banali “interessi di classe” del capitalismo finanziario e multinazionale, al ritmo di un “pilota automatico” fissato in trattati, si ritrovano a ballare musiche che non hanno mai sentito né studiato...
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La strategia Usa punta all’America Latina e alla competizione con la Cina
Il documento sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Trump pubblicato venerdì si propone di “ripristinare la preminenza americana nell’emisfero occidentale”, rilanciando esplicitamente la dottrina Monroe, nata per contrastare qualsiasi ingerenza europea nell’emisfero occidentale e in seguito utilizzata per giustificare gli interventi militari statunitensi in America Latina. Contestualmente indica un esplicito bye bye ai vecchi partner europei, anzi li indica quasi esplicitamente come dei competitori.
La frammentazione del mercato mondiale e la riorganizzazione imperialista fondata su blocchi regionali, economici e geopolitici, va prendendo forma piuttosto nitidamente.
Ma se sull’America Latina si torna ad ambizioni egemoniche e linguaggi ottocenteschi, è proprio sull’Europa che il documento di 33 pagine utilizza un linguaggio nuovo definendola a rischio di “cancellazione della civiltà” dovuta al declino economico, alla crisi demografica, alle politiche migratorie permissive e all’erosione della libertà di espressione.
In un paragrafo, appena più rassicurante per i governi europei già andati nel panico, è scritto che “l’Europa resta tuttavia strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti”, ma il rapporto manifesta una visione piuttosto diversa rispetto al passato, sottoposta a giudizi non certo lusinghieri per i partner storici europei finora giudicati affidabili, dal dopoguerra in poi, da ogni amministrazione Usa.
La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale USA indica un quadro del mondo contemporaneo che non lascia margini di ambiguità. Gli Stati Uniti intendono riaffermare la propria centralità e supremazia economica, militare, ideologica e tecnologica, ponendo fine ad ogni istanza multilateralista che – sebbene da sempre subalterna al Washington Consensus – fino a pochi anni fa aveva gestito quella che è stata definita come globalizzazione.
La premessa del documento spiega come oggi la sicurezza nazionale statunitense non nasca soltanto dalla potenza militare, ma dal rafforzamento interno della nazione, dalla ricostruzione del suo apparato industriale, dalla difesa dei confini, dalla salvaguardia dell’identità culturale e dalla protezione delle tecnologie critiche.
Dunque il “contenimento” della Cina e la ridefinizione dei rapporti con l’Europa diventano i pilastri di una strategia che mira a riaffermare le priorità statunitensi, contrastando l’idea di un “declino americano” e rivedendo l’idea che Washington debba sostenere da sola il peso dell’ordine internazionale.
Il passaggio dedicato all’Europa, dalle “nostre parti”, è probabilmente il più indigesto ma significativo del documento. Non vi si trovano più affermazioni di fedeltà alla Nato come un legame quasi sacro. Al contrario, prevale invece un atteggiamento piuttosto disincantato se non apertamente critico.
Washington considera l’Europa come un’area strategicamente importante ma profondamente indebolita dalle contraddizioni interne. Tra queste vengono indicati la stagnazione economica, il declino demografico, l’instabilità politica, le limitazioni alle libertà di espressione e le ondate migratorie verso il vecchio continente. Difficile non ammettere che tali fattori di crisi dell’Europa esistano concretamente, e non occorre certo essere “putiniani” per dirlo.
La stessa guerra in Ucraina viene descritta nel documento come un ulteriore acceleratore di dipendenze (es. quella energetica), di crisi politiche e fragilità economiche che minano la coesione interna europea.
La strategia statunitense, contrariamente ai governi europei, spinge per un rapido ritorno alla stabilità in Europa e a ristabilire i rapporti tra Europa e Russia.
Emblematico il passaggio in cui il futuro della Nato non deve più essere definito dall’espansione continua, bensì dalla capacità europea di assumersi responsabilità e costi molto maggiori sul piano militare.
L’Europa rimane, agli occhi di Washington, un partner ancora utile sul piano commerciale e tecnologico, ma non è più il cuore della strategia statunitense nelle relazioni internazionali.
In questa ridefinizione di priorità, per gli Stati Uniti la Cina appare come la vera sfida del XXI Secolo. Pechino non è più considerata un attore con cui trovare equilibri stabili, ma un competitore sistemico deciso a mettere in discussione la supremazia Usa nel mondo.
Secondo la Strategia per la Sicurezza Nazionale statunitense, i decenni di apertura economica non hanno avvicinato la Cina all’ordine internazionale liberale ma, al contrario, ne hanno accelerato l’ascesa come superpotenza. Le filiere internazionali di produzione sono state ristrutturate in modo da garantire alla Cina un controllo crescente sui mercati emergenti e sulle materie prime critiche. La capacità industriale cinese, abbinata a investimenti massicci in tecnologie come l’intelligenza artificiale, il quantistico, la robotica e lo spazio, costituisce oggi il cuore della competizione con gli Stati Uniti.
Nel documento questi ultimi ammettono apertamente di avere perso terreno e annunciano una controffensiva economica e tecnologica su larga scala di cui la ricostruzione dell’industria nazionale Usa diventa un obiettivo strategico, così come la riduzione delle dipendenze critiche dalle filiere cinesi.
L’obiettivo dichiarato è quello di impedire che la Cina raggiunga una supremazia economica e tecnologica tale da rendere inevitabile la sua leadership globale.
Sul piano militare, la strategia statunitense appare ancora più esplicita. La priorità è contenere la Cina e impedire qualsiasi tentativo di alterare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan.
La competizione non viene più circoscritta alla sola dimensione militare, ma investe l’intero sistema industriale-militare: produzione, innovazione, logistica, resilienza economica. Il documento non contempla scenari concilianti con la Cina e il confronto tra le due potenze si ritiene inevitabile, continuo e strutturale. Gli Stati Uniti considerano indispensabile mantenere un vantaggio qualitativo nelle piattaforme navali, negli assetti spaziali, nei missili di nuova generazione, nelle tecnologie.
Ma se i governi europei sono andati in tilt, a dover essere ancora più preoccupati dovrebbero essere quelli dell’America Latina.
La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti afferma infatti che un “Corollario Trump” sarà applicato alla Dottrina Monroe, quella che a partire dal 1820, consolidò l'egemonia statunitense in America Latina, da allora considerata il “cortile di casa” degli Usa e dal quale tenere lontane le potenze europee. In base a quella dottrina gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente decine di volte contro i paesi centro e latinoamericani o hanno organizzato colpi di stato contro governi non subalterni a Washington.
Quello che stiamo vedendo in queste settimane in Venezuela ma anche in Colombia, Messico, Honduras confermano questo tentativo di ritorno all’egemonismo statunitense sull’America Latina.
A tale scopo, è scritto nel documento, Washington riadatterà la sua “presenza militare globale per affrontare minacce urgenti nel nostro emisfero e si allontanerà da scenari la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è diminuita negli ultimi decenni o anni”.
L’amministrazione Trump vuole anche porre fine alla migrazione di massa e rendere il controllo delle frontiere “l’elemento principale della sicurezza americana” – afferma la nuova strategia per la sicurezza nazionale Usa – “L’era della migrazione di massa deve giungere al termine. La sicurezza di confine è l’elemento principale della sicurezza nazionale”.
La fase storica della concertazione e della globalizzazione è ormai definitivamente alle nostre spalle, siamo entrati pienamente nella fase della competizione globale imperialista fondata su blocchi economici e politici diversi e contrapposti.
Fonte
La frammentazione del mercato mondiale e la riorganizzazione imperialista fondata su blocchi regionali, economici e geopolitici, va prendendo forma piuttosto nitidamente.
Ma se sull’America Latina si torna ad ambizioni egemoniche e linguaggi ottocenteschi, è proprio sull’Europa che il documento di 33 pagine utilizza un linguaggio nuovo definendola a rischio di “cancellazione della civiltà” dovuta al declino economico, alla crisi demografica, alle politiche migratorie permissive e all’erosione della libertà di espressione.
In un paragrafo, appena più rassicurante per i governi europei già andati nel panico, è scritto che “l’Europa resta tuttavia strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti”, ma il rapporto manifesta una visione piuttosto diversa rispetto al passato, sottoposta a giudizi non certo lusinghieri per i partner storici europei finora giudicati affidabili, dal dopoguerra in poi, da ogni amministrazione Usa.
La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale USA indica un quadro del mondo contemporaneo che non lascia margini di ambiguità. Gli Stati Uniti intendono riaffermare la propria centralità e supremazia economica, militare, ideologica e tecnologica, ponendo fine ad ogni istanza multilateralista che – sebbene da sempre subalterna al Washington Consensus – fino a pochi anni fa aveva gestito quella che è stata definita come globalizzazione.
La premessa del documento spiega come oggi la sicurezza nazionale statunitense non nasca soltanto dalla potenza militare, ma dal rafforzamento interno della nazione, dalla ricostruzione del suo apparato industriale, dalla difesa dei confini, dalla salvaguardia dell’identità culturale e dalla protezione delle tecnologie critiche.
Dunque il “contenimento” della Cina e la ridefinizione dei rapporti con l’Europa diventano i pilastri di una strategia che mira a riaffermare le priorità statunitensi, contrastando l’idea di un “declino americano” e rivedendo l’idea che Washington debba sostenere da sola il peso dell’ordine internazionale.
Il passaggio dedicato all’Europa, dalle “nostre parti”, è probabilmente il più indigesto ma significativo del documento. Non vi si trovano più affermazioni di fedeltà alla Nato come un legame quasi sacro. Al contrario, prevale invece un atteggiamento piuttosto disincantato se non apertamente critico.
Washington considera l’Europa come un’area strategicamente importante ma profondamente indebolita dalle contraddizioni interne. Tra queste vengono indicati la stagnazione economica, il declino demografico, l’instabilità politica, le limitazioni alle libertà di espressione e le ondate migratorie verso il vecchio continente. Difficile non ammettere che tali fattori di crisi dell’Europa esistano concretamente, e non occorre certo essere “putiniani” per dirlo.
La stessa guerra in Ucraina viene descritta nel documento come un ulteriore acceleratore di dipendenze (es. quella energetica), di crisi politiche e fragilità economiche che minano la coesione interna europea.
La strategia statunitense, contrariamente ai governi europei, spinge per un rapido ritorno alla stabilità in Europa e a ristabilire i rapporti tra Europa e Russia.
Emblematico il passaggio in cui il futuro della Nato non deve più essere definito dall’espansione continua, bensì dalla capacità europea di assumersi responsabilità e costi molto maggiori sul piano militare.
L’Europa rimane, agli occhi di Washington, un partner ancora utile sul piano commerciale e tecnologico, ma non è più il cuore della strategia statunitense nelle relazioni internazionali.
In questa ridefinizione di priorità, per gli Stati Uniti la Cina appare come la vera sfida del XXI Secolo. Pechino non è più considerata un attore con cui trovare equilibri stabili, ma un competitore sistemico deciso a mettere in discussione la supremazia Usa nel mondo.
Secondo la Strategia per la Sicurezza Nazionale statunitense, i decenni di apertura economica non hanno avvicinato la Cina all’ordine internazionale liberale ma, al contrario, ne hanno accelerato l’ascesa come superpotenza. Le filiere internazionali di produzione sono state ristrutturate in modo da garantire alla Cina un controllo crescente sui mercati emergenti e sulle materie prime critiche. La capacità industriale cinese, abbinata a investimenti massicci in tecnologie come l’intelligenza artificiale, il quantistico, la robotica e lo spazio, costituisce oggi il cuore della competizione con gli Stati Uniti.
Nel documento questi ultimi ammettono apertamente di avere perso terreno e annunciano una controffensiva economica e tecnologica su larga scala di cui la ricostruzione dell’industria nazionale Usa diventa un obiettivo strategico, così come la riduzione delle dipendenze critiche dalle filiere cinesi.
L’obiettivo dichiarato è quello di impedire che la Cina raggiunga una supremazia economica e tecnologica tale da rendere inevitabile la sua leadership globale.
Sul piano militare, la strategia statunitense appare ancora più esplicita. La priorità è contenere la Cina e impedire qualsiasi tentativo di alterare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan.
La competizione non viene più circoscritta alla sola dimensione militare, ma investe l’intero sistema industriale-militare: produzione, innovazione, logistica, resilienza economica. Il documento non contempla scenari concilianti con la Cina e il confronto tra le due potenze si ritiene inevitabile, continuo e strutturale. Gli Stati Uniti considerano indispensabile mantenere un vantaggio qualitativo nelle piattaforme navali, negli assetti spaziali, nei missili di nuova generazione, nelle tecnologie.
Ma se i governi europei sono andati in tilt, a dover essere ancora più preoccupati dovrebbero essere quelli dell’America Latina.
La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti afferma infatti che un “Corollario Trump” sarà applicato alla Dottrina Monroe, quella che a partire dal 1820, consolidò l'egemonia statunitense in America Latina, da allora considerata il “cortile di casa” degli Usa e dal quale tenere lontane le potenze europee. In base a quella dottrina gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente decine di volte contro i paesi centro e latinoamericani o hanno organizzato colpi di stato contro governi non subalterni a Washington.
Quello che stiamo vedendo in queste settimane in Venezuela ma anche in Colombia, Messico, Honduras confermano questo tentativo di ritorno all’egemonismo statunitense sull’America Latina.
A tale scopo, è scritto nel documento, Washington riadatterà la sua “presenza militare globale per affrontare minacce urgenti nel nostro emisfero e si allontanerà da scenari la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è diminuita negli ultimi decenni o anni”.
L’amministrazione Trump vuole anche porre fine alla migrazione di massa e rendere il controllo delle frontiere “l’elemento principale della sicurezza americana” – afferma la nuova strategia per la sicurezza nazionale Usa – “L’era della migrazione di massa deve giungere al termine. La sicurezza di confine è l’elemento principale della sicurezza nazionale”.
La fase storica della concertazione e della globalizzazione è ormai definitivamente alle nostre spalle, siamo entrati pienamente nella fase della competizione globale imperialista fondata su blocchi economici e politici diversi e contrapposti.
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ONU: Israele è uno stato torturatore de facto
Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (CAT) ha espresso un duro atto d’accusa nei confronti di Israele. In un nuovo rapporto pubblicato venerdì, l’organismo ONU denuncia l’esistenza di una politica statale de facto finalizzata all’uso organizzato e diffuso della tortura contro i prigionieri palestinesi. Una pratica che, secondo gli esperti, ha subito una grave escalation dall’inizio delle operazioni militari a Gaza nell’ottobre 2023.
Il documento, frutto del monitoraggio periodico sui paesi firmatari della Convenzione contro la tortura, dipinge un quadro agghiacciante delle condizioni detentive. Le testimonianze raccolte da gruppi per i diritti umani e durante le inchieste riferiscono di “ripetute e gravi percosse, attacchi con cani, elettrocuzione, waterboarding, uso prolungato di posizioni di stress e violenza sessuale”.
I terroristi israeliani impongono umiliazioni ai prigionieri: sono “costretti a comportarsi come animali o urinando loro addosso”, disumanizzandoli nel tipico schema di un’ideologia suprematista come è il sionismo. Vengono loro negate le cure mediche e, in alcuni casi, l’uso eccessivo di mezzi di contenzione ha portato all’amputazione degli arti.
Per l’ONU, poi, ci si trova davanti a una vera e propria “sparizione forzata” quando si parla della controversa normativa sui “combattenti illegali”. Con essa, Israele arresta sistematica civili, spesso minori, donne incinte e anziani, con l’accusa di essere in sostanza terroristi, e li costringe a una lunga detenzione senza accesso ad avvocati o familiari, i quali a volte hanno dovuto aspettare mesi per sapere cosa fosse successo ai loro cari.
Il Comitato ONU rileva l’assenza di una legislazione che proibisca esplicitamente la tortura, sottolineando come i funzionari pubblici possano spesso evitare la responsabilità penale invocando il principio di “necessità” per le pressioni operate durante gli interrogatori. L’ONU ha dunque chiesto a Tel Aviv di istituire un reato in linea con la Convenzione contro la tortura.
Ha inoltre domandato l’istituzione di “una commissione d’inchiesta ad hoc indipendente, imparziale ed efficace per esaminare e indagare su tutte le denunce di tortura e maltrattamenti” e di “perseguire i responsabili, compresi i superiori gerarchici”. Purtroppo, sono decenni che queste richieste cadono nel vuoto, e la comunità occidentale guarda dall’altra parte.
Israele, attraverso il suo ambasciatore Daniel Meron, ha respinto le accuse definendole “disinformazione” e ribadendo l’impegno del Paese a rispettare i principi morali anche di fronte alla minaccia terroristica.
Ma quasi contemporaneamente, l’esecuzione sommaria di due uomini palestinesi a Jenin, diffusa in un video che non lascia spazio a interpretazioni, e l’assassinio di due bambini a Gaza che raccoglievano legna lungo la “Linea Gialla” che divide in due la Striscia, hanno solo confermato che il terrorismo da cui difendersi per raggiungere la pace è quello israeliano.
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Il documento, frutto del monitoraggio periodico sui paesi firmatari della Convenzione contro la tortura, dipinge un quadro agghiacciante delle condizioni detentive. Le testimonianze raccolte da gruppi per i diritti umani e durante le inchieste riferiscono di “ripetute e gravi percosse, attacchi con cani, elettrocuzione, waterboarding, uso prolungato di posizioni di stress e violenza sessuale”.
I terroristi israeliani impongono umiliazioni ai prigionieri: sono “costretti a comportarsi come animali o urinando loro addosso”, disumanizzandoli nel tipico schema di un’ideologia suprematista come è il sionismo. Vengono loro negate le cure mediche e, in alcuni casi, l’uso eccessivo di mezzi di contenzione ha portato all’amputazione degli arti.
Per l’ONU, poi, ci si trova davanti a una vera e propria “sparizione forzata” quando si parla della controversa normativa sui “combattenti illegali”. Con essa, Israele arresta sistematica civili, spesso minori, donne incinte e anziani, con l’accusa di essere in sostanza terroristi, e li costringe a una lunga detenzione senza accesso ad avvocati o familiari, i quali a volte hanno dovuto aspettare mesi per sapere cosa fosse successo ai loro cari.
Il Comitato ONU rileva l’assenza di una legislazione che proibisca esplicitamente la tortura, sottolineando come i funzionari pubblici possano spesso evitare la responsabilità penale invocando il principio di “necessità” per le pressioni operate durante gli interrogatori. L’ONU ha dunque chiesto a Tel Aviv di istituire un reato in linea con la Convenzione contro la tortura.
Ha inoltre domandato l’istituzione di “una commissione d’inchiesta ad hoc indipendente, imparziale ed efficace per esaminare e indagare su tutte le denunce di tortura e maltrattamenti” e di “perseguire i responsabili, compresi i superiori gerarchici”. Purtroppo, sono decenni che queste richieste cadono nel vuoto, e la comunità occidentale guarda dall’altra parte.
Israele, attraverso il suo ambasciatore Daniel Meron, ha respinto le accuse definendole “disinformazione” e ribadendo l’impegno del Paese a rispettare i principi morali anche di fronte alla minaccia terroristica.
Ma quasi contemporaneamente, l’esecuzione sommaria di due uomini palestinesi a Jenin, diffusa in un video che non lascia spazio a interpretazioni, e l’assassinio di due bambini a Gaza che raccoglievano legna lungo la “Linea Gialla” che divide in due la Striscia, hanno solo confermato che il terrorismo da cui difendersi per raggiungere la pace è quello israeliano.
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06/12/2025
Israele pone condizioni irrealizzabili per il ritorno dei palestinesi nel campo di Jenin
La tv i24 riferisce che le autorità israeliane hanno presentato una serie di condizioni irrealizzabili per consentire il ritorno dei residenti nel campo profughi palestinese di Jenin e negli altri campi e centri abitati nel nord della Cisgiordania che da quasi un anno sono presi di mira dall’offensiva “Muro di ferro” dell’esercito israeliano. La prima riguarda il divieto imposto all’Autorità Nazionale Palestinese di permettere l’ingresso nei campi alle organizzazioni umanitarie internazionali, una richiesta che per Ramallah è impossibile da realizzare, poiché equivarrebbe all’abbandono anche politico della questione dei rifugiati. Israele ha dichiarato che senza un accordo preliminare su questo punto non si potrà discutere di nulla.
Le altre condizioni appaiono una prosecuzione in chiave amministrativa di quanto l’esercito sta facendo da mesi sul terreno. Il ritorno degli sfollati sarebbe consentito solo dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dei campi, un eufemismo che nella pratica significa demolire case, allargare assi stradali, asfaltare le vie tracciate sulle macerie degli edifici e predisporre un sistema di barriere e posti di polizia destinati a controllare rigidamente l’accesso. Tutto ciò avverrebbe in pieno coordinamento con i comandi militari, che intendono dotare i campi anche di infrastrutture sotterranee per le reti idriche ed elettriche, un’operazione presentata come infrastrutturale, ma che i palestinesi vedono come un modo per consolidare il controllo da parte dell’occupazione militare.
La ricostruzione secondo i parametri israeliani ha già assunto i contorni di una trasformazione profonda dei campi. A Jenin, dove l’esercito è tornato più volte nel corso dei mesi, sono cominciate nuove demolizioni. Dall’inizio dell’offensiva, più di 700 case e strutture sono state distrutte in modo parziale o totale. Non va meglio nei campi di Tulkarem e Nur Shams, anch’essi travolti dall’operazione che ha prodotto oltre cinquantamila sfollati.
La fase attuale è il risultato di oltre 300 giorni di incursioni, rastrellamenti, demolizioni mirate e campagne di arresti che hanno colpito in modo continuo Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Il governatore di Tulkarem, Abdullah Kamil, aveva riferito alla fine di ottobre che le autorità israeliane avevano preannunciato l’estensione delle operazioni militari almeno fino alla fine di gennaio 2026.
In questo quadro si inserisce l’ultimo episodio di violenza registrato ieri nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, dove Bahaa Rashid, 38 anni, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco durante un’incursione delle forze israeliane nei pressi della vecchia moschea di Odla. Secondo fonti locali, i soldati hanno sparato proiettili veri, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i fedeli che uscivano dalla preghiera, innescando scontri che hanno portato al ferimento mortale di Rashid. Dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, l’intensificazione delle attività dell’esercito in Cisgiordania ha causato l’uccisione di almeno 1085 palestinesi e il ferimento di undicimila persone. Parallelamente, si contano circa 21 mila arresti nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, con oltre 10.800 ancora nelle carceri israeliane.
Fonte
Le altre condizioni appaiono una prosecuzione in chiave amministrativa di quanto l’esercito sta facendo da mesi sul terreno. Il ritorno degli sfollati sarebbe consentito solo dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dei campi, un eufemismo che nella pratica significa demolire case, allargare assi stradali, asfaltare le vie tracciate sulle macerie degli edifici e predisporre un sistema di barriere e posti di polizia destinati a controllare rigidamente l’accesso. Tutto ciò avverrebbe in pieno coordinamento con i comandi militari, che intendono dotare i campi anche di infrastrutture sotterranee per le reti idriche ed elettriche, un’operazione presentata come infrastrutturale, ma che i palestinesi vedono come un modo per consolidare il controllo da parte dell’occupazione militare.
La ricostruzione secondo i parametri israeliani ha già assunto i contorni di una trasformazione profonda dei campi. A Jenin, dove l’esercito è tornato più volte nel corso dei mesi, sono cominciate nuove demolizioni. Dall’inizio dell’offensiva, più di 700 case e strutture sono state distrutte in modo parziale o totale. Non va meglio nei campi di Tulkarem e Nur Shams, anch’essi travolti dall’operazione che ha prodotto oltre cinquantamila sfollati.
La fase attuale è il risultato di oltre 300 giorni di incursioni, rastrellamenti, demolizioni mirate e campagne di arresti che hanno colpito in modo continuo Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Il governatore di Tulkarem, Abdullah Kamil, aveva riferito alla fine di ottobre che le autorità israeliane avevano preannunciato l’estensione delle operazioni militari almeno fino alla fine di gennaio 2026.
In questo quadro si inserisce l’ultimo episodio di violenza registrato ieri nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, dove Bahaa Rashid, 38 anni, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco durante un’incursione delle forze israeliane nei pressi della vecchia moschea di Odla. Secondo fonti locali, i soldati hanno sparato proiettili veri, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i fedeli che uscivano dalla preghiera, innescando scontri che hanno portato al ferimento mortale di Rashid. Dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, l’intensificazione delle attività dell’esercito in Cisgiordania ha causato l’uccisione di almeno 1085 palestinesi e il ferimento di undicimila persone. Parallelamente, si contano circa 21 mila arresti nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, con oltre 10.800 ancora nelle carceri israeliane.
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L’Iraq mette al bando Hezbollah e Houthi e ne congela i beni
L’Iraq ha designato il movimento sciita libanese Hezbollah e il gruppo yemenita Ansar Allah, meglio noto come Houthi, come “organizzazioni terroristiche”, disponendone quindi il congelamento dei beni.
Anche altre organizzazioni armate sciite presenti nel paese sono state messe sotto embargo. In tutto sono 24 i gruppi politico-militari e le milizie messe al bando in quanto ritenute “entità terroristiche”.
A riferirlo è stata l’agenzia di stampa irachena “Al sumaria”, che cita un provvedimento emesso in Gazzetta ufficiale, secondo cui la decisione è stata presa dal Comitato per il congelamento dei beni, un organismo istituito presso il segretario generale del Consiglio dei ministri, e presieduto dal governatore della Banca centrale e dal direttore per la lotta al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo come suo vice.
L’adozione di questo provvedimento era stata chiesta più volte all’esecutivo di Baghdad sia dagli Stati Uniti che da Israele, allo scopo di ridurre l’influenza dell’Iran in Iraq e in altri paesi del Medio Oriente.
L’Iraq è formalmente alleate di Teheran e l’Iran considera il paese di importanza vitale per aggirare le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e da altri paesi. L’Iran esercita una notevole influenza militare, politica ed economica in Iraq attraverso alcune potenti milizie sciite e partiti politici.
Ma Baghdad, che ha comunque buoni rapporti con Washington, teme di finire nel mirino di eventuali misure punitive da parte del presidente americano Donald Trump.
Infatti un consulente governativo ha dichiarato al quotidiano “The New Arab” che la mossa è stata motivata dalla necessità di soddisfare le richieste finanziarie di Washington ed evitare così le minacciate sanzioni a istituzioni fondamentali come la Banca Centrale e la società petrolifera statale SOMO.
Il comitato affiliato alla banca centrale irachena esaminerà l’elenco di 26 gruppi, tra cui Hezbollah e gli Houthi, i cui beni sono stati congelati per presunte attività “terroristiche”. Il Comitato per il congelamento delle risorse terroristiche ha detto che l’elenco includeva “un certo numero di parti ed entità che non hanno alcun legame con le attività terroristiche” dell’organizzazione dello Stato islamico o di al-Qaida.
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Anche altre organizzazioni armate sciite presenti nel paese sono state messe sotto embargo. In tutto sono 24 i gruppi politico-militari e le milizie messe al bando in quanto ritenute “entità terroristiche”.
A riferirlo è stata l’agenzia di stampa irachena “Al sumaria”, che cita un provvedimento emesso in Gazzetta ufficiale, secondo cui la decisione è stata presa dal Comitato per il congelamento dei beni, un organismo istituito presso il segretario generale del Consiglio dei ministri, e presieduto dal governatore della Banca centrale e dal direttore per la lotta al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo come suo vice.
L’adozione di questo provvedimento era stata chiesta più volte all’esecutivo di Baghdad sia dagli Stati Uniti che da Israele, allo scopo di ridurre l’influenza dell’Iran in Iraq e in altri paesi del Medio Oriente.
L’Iraq è formalmente alleate di Teheran e l’Iran considera il paese di importanza vitale per aggirare le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e da altri paesi. L’Iran esercita una notevole influenza militare, politica ed economica in Iraq attraverso alcune potenti milizie sciite e partiti politici.
Ma Baghdad, che ha comunque buoni rapporti con Washington, teme di finire nel mirino di eventuali misure punitive da parte del presidente americano Donald Trump.
Infatti un consulente governativo ha dichiarato al quotidiano “The New Arab” che la mossa è stata motivata dalla necessità di soddisfare le richieste finanziarie di Washington ed evitare così le minacciate sanzioni a istituzioni fondamentali come la Banca Centrale e la società petrolifera statale SOMO.
Il comitato affiliato alla banca centrale irachena esaminerà l’elenco di 26 gruppi, tra cui Hezbollah e gli Houthi, i cui beni sono stati congelati per presunte attività “terroristiche”. Il Comitato per il congelamento delle risorse terroristiche ha detto che l’elenco includeva “un certo numero di parti ed entità che non hanno alcun legame con le attività terroristiche” dell’organizzazione dello Stato islamico o di al-Qaida.
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Libano: Hezbollah ferito, ma non sconfitto
Per quasi venti anni Hezbollah ha rappresentato uno dei perni fondamentali della politica libanese, forte della sua capacità militare e dell’influenza esercitata grazie ai suoi alleati interni e regionali. L’anno trascorso dal cessate il fuoco con Israele, firmato (il 27 novembre) dopo quasi 14 mesi di combattimenti e di pesanti bombardamenti israeliani, ha però aperto una fase segnata da incertezze profonde. Le perdite subite durante la guerra, a partire dall’uccisione del leader Hassan Nasrallah, e le pressioni interne su un eventuale disarmo hanno profondamente scosso il movimento sciita.
Secondo il politologo Hussein Ayoub, esperto di Hezbollah, il Libano vive un passaggio iniziato un anno fa, quando la guerra di sostegno a Gaza ha travolto gli equilibri politici che si erano consolidati dal 2005 dopo l’assassinio del premier Rafiq Hariri e il ritiro dell’esercito siriano. Per quasi due decenni il vuoto lasciato da Damasco era stato colmato dall’asse formato da Hezbollah e dall’Iran, un assetto rimasto stabile pur tra tensioni e crisi ricorrenti. L’ingresso nella guerra l’8 ottobre 2023 ha però inaugurato una fase completamente diversa. Prima di quella data, osserva Ayoub, Hezbollah si muoveva entro un equilibrio consolidato con Israele basato sulla reciproca deterrenza. Dopo la guerra, questo equilibrio è saltato.
Durante il conflitto il movimento ha impedito alle truppe israeliane di penetrare in profondità nel territorio libanese, ma ha pagato un prezzo altissimo. Israele è riuscito a colpire la leadership del movimento sciita, incluso lo storico segretario generale Hassan Nasrallah, a distruggere bunker sotterranei, a eliminare i comandanti della brigata Radwan e, con la misteriosa vicenda delle esplosioni dei cercapersone a penetrare la sua sicurezza. La fine della vecchia deterrenza ha definito un nuovo scenario. Per venti anni Hezbollah aveva imposto condizioni e risposte immediate agli assalti di Israele. Oggi quel modello è superato e la tregua del 2024 è stata accettata più per necessità che per scelta, anche per limitare i danni inflitti al Libano e alla sua popolazione.
A rendere ancora più fragile la posizione del movimento si è aggiunto un evento “sismico”: il crollo del regime siriano di Bashar Assad, avvenuto il 9 dicembre 2024. La Siria è stata per anni il principale corridoio di collegamento tra Hezbollah e Teheran, indispensabile per il rifornimento di armi e per ricostruire capacità militari, come avvenne dopo la guerra del 2006. Con la caduta di Assad, quel corridoio si è interrotto. Oggi, sottolinea l’analista, Hezbollah non ha più la possibilità di far entrare fondi o materiali attraverso l’aeroporto di Beirut. Perfino i rappresentanti iraniani vengono sottoposti a controlli rigidi all’arrivo. Il risultato è una capacità ridotta di ricostruire rapidamente l’arsenale, limitata allo sviluppo di missili di media gittata e droni prodotti localmente.
Questa nuova vulnerabilità ha aperto spazi ai rivali interni ed esterni. Hezbollah ha dovuto accettare decisioni politiche che prima avrebbe respinto, come l’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e di Nawaf Salam alla guida del governo, figure considerate vicine all’Occidente. Un anno dopo il cessate il fuoco, la struttura del movimento si è in parte ristabilita, ma resta difficile valutare quali siano al momento le sue capacità militari.
Il disarmo, sul quale insistono Stati Uniti e Israele, rappresenta oggi uno dei nodi più sensibili. Prima della caduta del regime siriano, Washington e Tel Aviv limitavano la richiesta del disarmo di Hezbollah al sud del fiume Litani nel Libano del sud. Ora la linea è più netta e pretende il disarmo totale nel territorio libanese, affidando il possesso delle armi all’esercito regolare. È improbabile che l’esercito possa forzare la mano. Un confronto diretto rischierebbe di provocare fratture interne, in particolare la fuoriuscita dei militari sciiti, e aprire scenari da guerra civile. Ayoub considera più probabile che un eventuale disarmo diventi oggetto di negoziati regionali tra Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita, anche se al momento resta solo un’ipotesi.
Sul fronte israeliano, la mancata consegna delle armi offre teoricamente un pretesto per riprendere l’attacco contro il Libano. Tuttavia Israele ha interesse a mantenere l’attuale livello di scontro a bassa intensità, che gli consente di colpire Hezbollah senza subire costi importanti. Una operazione militare israeliana su larga scala vedrebbe inevitabilmente massicci lanci di missili dal Libano e nuovi sfollamenti dal nord di Israele verso il centro del paese.
Le voci su tensioni interne a Hezbollah vengono ridimensionate da Hussein Ayoub, che ricorda come il movimento sia un partito ideologico dotato di una struttura gerarchica rigida e militanti fedeli. Le uccisioni di Hassan Nasrallah e del suo successore Hashem Safieddine hanno colpito duramente la leadership, ma non hanno creato spaccature. Il nuovo segretario generale, Naim Qassem, viene descritto come un amministratore competente, privo del carisma dei suoi predecessori ma capace di gestire le varie correnti interne grazie all’esperienza maturata nelle elezioni parlamentari e municipali. In 43 anni, ricorda l’analista, Hezbollah non ha conosciuto scissioni e la comunità sciita tende a compattarsi nei momenti di difficoltà. Un elemento che probabilmente emergerà nelle elezioni parlamentari previste nella primavera del 2025, quando il movimento potrebbe ottenere livelli di consenso superiori al passato.
In un Libano segnato da crisi istituzionali, pressioni regionali e ferite aperte dalla guerra, Hezbollah resta dunque un attore centrale, ma più vulnerabile e meno sicuro della propria forza rispetto al passato.
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Secondo il politologo Hussein Ayoub, esperto di Hezbollah, il Libano vive un passaggio iniziato un anno fa, quando la guerra di sostegno a Gaza ha travolto gli equilibri politici che si erano consolidati dal 2005 dopo l’assassinio del premier Rafiq Hariri e il ritiro dell’esercito siriano. Per quasi due decenni il vuoto lasciato da Damasco era stato colmato dall’asse formato da Hezbollah e dall’Iran, un assetto rimasto stabile pur tra tensioni e crisi ricorrenti. L’ingresso nella guerra l’8 ottobre 2023 ha però inaugurato una fase completamente diversa. Prima di quella data, osserva Ayoub, Hezbollah si muoveva entro un equilibrio consolidato con Israele basato sulla reciproca deterrenza. Dopo la guerra, questo equilibrio è saltato.
Durante il conflitto il movimento ha impedito alle truppe israeliane di penetrare in profondità nel territorio libanese, ma ha pagato un prezzo altissimo. Israele è riuscito a colpire la leadership del movimento sciita, incluso lo storico segretario generale Hassan Nasrallah, a distruggere bunker sotterranei, a eliminare i comandanti della brigata Radwan e, con la misteriosa vicenda delle esplosioni dei cercapersone a penetrare la sua sicurezza. La fine della vecchia deterrenza ha definito un nuovo scenario. Per venti anni Hezbollah aveva imposto condizioni e risposte immediate agli assalti di Israele. Oggi quel modello è superato e la tregua del 2024 è stata accettata più per necessità che per scelta, anche per limitare i danni inflitti al Libano e alla sua popolazione.
A rendere ancora più fragile la posizione del movimento si è aggiunto un evento “sismico”: il crollo del regime siriano di Bashar Assad, avvenuto il 9 dicembre 2024. La Siria è stata per anni il principale corridoio di collegamento tra Hezbollah e Teheran, indispensabile per il rifornimento di armi e per ricostruire capacità militari, come avvenne dopo la guerra del 2006. Con la caduta di Assad, quel corridoio si è interrotto. Oggi, sottolinea l’analista, Hezbollah non ha più la possibilità di far entrare fondi o materiali attraverso l’aeroporto di Beirut. Perfino i rappresentanti iraniani vengono sottoposti a controlli rigidi all’arrivo. Il risultato è una capacità ridotta di ricostruire rapidamente l’arsenale, limitata allo sviluppo di missili di media gittata e droni prodotti localmente.
Questa nuova vulnerabilità ha aperto spazi ai rivali interni ed esterni. Hezbollah ha dovuto accettare decisioni politiche che prima avrebbe respinto, come l’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e di Nawaf Salam alla guida del governo, figure considerate vicine all’Occidente. Un anno dopo il cessate il fuoco, la struttura del movimento si è in parte ristabilita, ma resta difficile valutare quali siano al momento le sue capacità militari.
Il disarmo, sul quale insistono Stati Uniti e Israele, rappresenta oggi uno dei nodi più sensibili. Prima della caduta del regime siriano, Washington e Tel Aviv limitavano la richiesta del disarmo di Hezbollah al sud del fiume Litani nel Libano del sud. Ora la linea è più netta e pretende il disarmo totale nel territorio libanese, affidando il possesso delle armi all’esercito regolare. È improbabile che l’esercito possa forzare la mano. Un confronto diretto rischierebbe di provocare fratture interne, in particolare la fuoriuscita dei militari sciiti, e aprire scenari da guerra civile. Ayoub considera più probabile che un eventuale disarmo diventi oggetto di negoziati regionali tra Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita, anche se al momento resta solo un’ipotesi.
Sul fronte israeliano, la mancata consegna delle armi offre teoricamente un pretesto per riprendere l’attacco contro il Libano. Tuttavia Israele ha interesse a mantenere l’attuale livello di scontro a bassa intensità, che gli consente di colpire Hezbollah senza subire costi importanti. Una operazione militare israeliana su larga scala vedrebbe inevitabilmente massicci lanci di missili dal Libano e nuovi sfollamenti dal nord di Israele verso il centro del paese.
Le voci su tensioni interne a Hezbollah vengono ridimensionate da Hussein Ayoub, che ricorda come il movimento sia un partito ideologico dotato di una struttura gerarchica rigida e militanti fedeli. Le uccisioni di Hassan Nasrallah e del suo successore Hashem Safieddine hanno colpito duramente la leadership, ma non hanno creato spaccature. Il nuovo segretario generale, Naim Qassem, viene descritto come un amministratore competente, privo del carisma dei suoi predecessori ma capace di gestire le varie correnti interne grazie all’esperienza maturata nelle elezioni parlamentari e municipali. In 43 anni, ricorda l’analista, Hezbollah non ha conosciuto scissioni e la comunità sciita tende a compattarsi nei momenti di difficoltà. Un elemento che probabilmente emergerà nelle elezioni parlamentari previste nella primavera del 2025, quando il movimento potrebbe ottenere livelli di consenso superiori al passato.
In un Libano segnato da crisi istituzionali, pressioni regionali e ferite aperte dalla guerra, Hezbollah resta dunque un attore centrale, ma più vulnerabile e meno sicuro della propria forza rispetto al passato.
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