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21/05/2025

[Contributo al dibattito] - Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra

di Emiliano Brancaccio

Non come rivoluzionario bolscevico ma come autore del celebre saggio sull’imperialismo, Lenin è oggi utile per comprendere gli snodi della fase storica, dalla svolta diplomatica degli Stati Uniti ai tormenti dell’Europa sul riarmo. E per cogliere gli errori di Niall Ferguson e degli altri teorici di grido sulle vere cause della crisi egemonica americana.

L’istante, l’attimo, il “momento” decisivo. Tra gli scienziati l’espressione è ricorrente. In fisica, Galileo chiamava “momento” la diminuzione della gravità di un corpo poggiato su un piano inclinato. In economia si parla di “momento Minsky”, il teorico della crisi ritornante, per identificare il punto di precipitazione del mercato finanziario, quando la bolla speculativa raggiunge la sua massima estensione prima di esplodere. In tutti i casi è implicito un cambio di scenario: il “momento” come svolta nelle “leggi di movimento” del sistema.

Applicando questa idea all’indagine del processo storico, sembra lecito azzardare che gli sconcertanti tumulti globali che stiamo oggi osservando possano esser battezzati “momento Lenin”. Il riferimento non è al rivoluzionario bolscevico ma all’infaticabile studioso che agli esordi della prima guerra mondiale firmò il celebre saggio su “l’imperialismo”, un testo utile come pochi per capire la contemporaneità.

L’intreccio di rapporti di credito e debito internazionali

“L’imperialismo” di Lenin è un’opera più sottovalutata dagli economisti volgari che sopravvalutata dai comunisti ortodossi. Di certo non può esser definita “scientifica” in senso moderno: la falsificazione popperiana, o qualsiasi altra modalità di verifica empirica, sono rese difficilmente praticabili dal tenore narrativo dell’elaborato. La sua lettura, tuttavia, offre una cornucopia di intuizioni originalissime, da cui intere generazioni di studiosi, marxisti e no, hanno tratto le basi per canoniche ricerche di frontiera. [1]

L’intuizione leniniana che ha retto di più alla prova del tempo è il nesso tra l’intreccio di rapporti di credito e debito internazionali, i relativi processi di centralizzazione dei capitali in blocchi monopolistici contrapposti e la conseguente mutagenesi della lotta economica in vero e proprio conflitto militare. “Momento Lenin”, potremmo dire, è esattamente quell’angoscioso punto di caduta degli eventi, quell’ora di terrore collettivo, in cui l’intrico della competizione capitalistica esonda verso lo scontro armato.

In tal senso, la guerra in Ucraina e le sue code, che saranno lunghissime e avvolgenti, possono esser considerate “momento Lenin” di questa nuova epoca di disordine mondiale.

Trump, personificazione del debito americano

Per comprendere il punto, torna utile analizzare la linea diplomatica dei vari protagonisti del “momento” alla luce degli interessi materiali che sono chiamati a servire. Per tale esercizio, Donald Trump è cavia ideale. Del nuovo presidente americano tutti analizzano il piglio, la postura, la presunta capacità soggettiva di smuovere l’oggettività degli eventi. Né i simpatizzanti né i detrattori riescono ad analizzare Trump per quello che realmente è: un altro vivace burattino nelle mani del processo capitalistico.

Donald Trump non è altro che la personificazione del debito americano verso l’estero, un enorme rosso che ha ormai superato la cifra record di 23 mila miliardi di dollari. Questo gigantesco passivo netto verso il mondo ha inceppato l’immane “circuito militar-monetario” su cui l’America aveva edificato la sua egemonia globale dopo il tracollo sovietico. Lo stesso problema, si badi, aveva già lambito Biden e le precedenti amministrazioni, quando gli Stati Uniti si videro costretti ad allentare la morsa su vaste aree di occupazione militare, economica ed estrattiva, dall’Iraq all’Afghanistan. Con Trump, tuttavia, l’impossibilità di espansione imperiale fondata sul debito è divenuta un fatto incontrovertibile. [2]

L’errore di Ferguson sulla crisi egemonica americana

Lo storico Niall Ferguson di Stanford ha cercato di sintetizzare il problema sostenendo che la crisi egemonica dell’impero avviene quando la spesa per interessi e per il rimborso del debito pubblico supera la spesa militare. Federico Rampini e vari altri opinionisti di grido sono corsi dietro a questa teoria. Sfortunatamente non sono in grado di comprendere che la “legge” di Ferguson è sbagliata. A differenza di Lenin, infatti, Ferguson si sofferma sulla sola parte pubblica del debito.

Ma se il problema fosse di solo debito pubblico interno, la politica monetaria potrebbe agevolmente finanziarlo imponendo bassi tassi d’interesse, per cui il rimborso resterebbe stabilmente al di sotto della spesa per armamenti. Le vere difficoltà emergono quando si tratta di debito estero, non solo pubblico ma anche privato. In tal caso diventa necessario attrarre capitali dal resto del mondo per sostenerlo e quindi i tassi di rendimento non possono scendere al di sotto delle soglie che gli economisti chiamano “di arbitraggio”. È in questo caso che emerge il vincolo alla spesa, generale e quindi militare.

Il vincolo esterno, i dazi e la de-dollarizzazione

Per lungo tempo si è creduto che l’America, detentrice dell’esorbitante privilegio del dollaro, fosse immune da questo vincolo esterno. Gli apologeti di quella dottrina un po’ confusa che va sotto il nome di “modern monetary theory” ancora si illudono. Ma la verità ormai è un’altra. La copertura del passivo a colpi di emissioni di biglietti verdi è divenuta molto incerta. Lo stesso protezionismo americano pregiudica il diritto dei detentori esteri di dollari di usarli a piacimento per comprare capitali occidentali, e così diffonde dubbi ulteriori sul valore della moneta e sulla possibilità, con essa, di coprire il debito. Per stupefacente eterogenesi dei fini, dunque, proprio le barriere commerciali e finanziarie dell’America si rivelano motore della temuta “de-dollarizzazione”.

Il nerbo di Cicerone, dell’illimitato denaro per dare forza alla guerra, si è dunque spezzato. Da qui bisogna partire per afferrare la crisi egemonica americana. Ed è sempre da qui che si può comprendere il ritiro di Trump anche dal fronte ucraino. Per l’America indebitata verso il mondo è infatti tempo di serrare i ranghi, circoscrivere gli obiettivi imperiali, ridimensionare l’area di egemonia. Se dunque una “legge” di crisi dell’impero esiste, è nel confronto tra spesa militare e servizio del debito estero.

Ad azione segue reazione

La difficoltà finanziaria americana spiega pure il modo micragnoso con cui Trump ha preteso da Zelensky le terre rare dell’Ucraina per rimborsare le spese militari. Siamo cioè al punto in cui il debito diventa molla di quel che già Lenin chiamava “accaparramento intensivo” di materie prime.

Per Washington, del resto, il problema del confine russo è ormai secondario. Ciò che oggi preme alla Casa Bianca è blandire la Russia per tentare di separare i suoi destini da quelli dell’avversario principale: la Cina. A tale scopo, Trump arriverà persino a svendere la “gold card” della cittadinanza USA ai capitalisti russi, per la modica cifra di cinque milioni di dollari. Appena ieri sanzionati, gli oligarchi di Mosca sono ora vezzeggiati. Il salto mortale americano è spettacolare.

Questa riesumazione del vecchio divide et impera nixoniano suona però tardiva. Dall’inizio della guerra, l’interscambio commerciale tra Russia e Cina è raddoppiato. Come ammonisce Xi Jinping, il tentativo americano di separare l’una dall’altra appare ormai disperato.

Il grande debitore americano, il grande creditore cinese

Ciò nonostante, il morso del debito estero costringerà gli Stati Uniti a tentare altre mosse, più o meno estreme, pur di limitare l’espansione della Cina e dei suoi alleati. Il rischio, altrimenti, è un avanzamento del grande creditore cinese nei processi di fusione, acquisizione e controllo capitalistico nelle aree d’influenza che il grande debitore americano in ritirata ha dovuto lasciare sguarnite. Per la prima volta nella storia, direbbe Lenin, la centralizzazione capitalistica sta prendendo la via dell’Oriente. Arginare questo nuovo vento, per Trump e i suoi, è questione vitale per l’egemonia capitalistica.

Ecco perché la postura del presidente americano si sta facendo sempre più provocatoria. Basti pensare alla riconquista del canale di Panama, che era da tempo in mano cinese. Trump ha avvisato che l’avrebbe ripreso, con le buone o con le cattive. I cinesi sono dunque stati costretti a svenderlo in fretta all’americana BlackRock, al sottocosto di 19 miliardi di dollari. Il risultato è che le barriere protezionistiche americane saranno da ora in avanti applicate anche al nevralgico crocevia panamense. Tra moral suasion e intimidazione mafiosa il passo si sta facendo sempre più breve.

Come per legge newtoniana, tuttavia, alle azioni trumpiane seguono le reazioni cinesi. Il portavoce del ministero degli esteri di Pechino ha dichiarato: “Se gli Stati Uniti insisteranno con la guerra commerciale, o con qualsiasi altro tipo di guerra, la Cina li combatterà fino alla fine”. Qualsiasi: inedito aggettivo indefinito del “momento Lenin”.

Le vere ragioni del riarmo europeo

In questo gigantesco scontro fra zolle tettoniche, resta da esaminare il “tradimento” di Trump verso l’Europa. In Italia e altrove, gli apologeti del riarmo europeo insistono con l’idea che il presidente americano abbia lasciato sguarniti gli ex sodali europei contro una possibile invasione russa. Ma è difficile immaginare una propaganda bellica più infantile di questa.

La realtà della corsa al riarmo dell’Europa è ben altra. Per decenni i paesi Ue hanno agito nel ruolo di veri e propri vassalli dell’impero americano. Dove la NATO impinguata dall’America muoveva le sue milizie, lì si creavano occasioni d’affari per aziende americane in primis, ma in subordine anche per imprese britanniche, francesi, tedesche, italiane. Dall’ex blocco sovietico, all’Africa, al Medio Oriente, è stata questa la storia dell’imperialismo atlantico nella fase che ci stiamo lasciando alle spalle.

È evidente allora che nel momento in cui la crisi del debito forza l’impero americano a ridimensionare l’area d’influenza e a espropriare anche gli antichi vassalli, il problema principe delle diplomazie europee diventa uno solo: progettare un imperialismo autonomo, in grado di accompagnare la proiezione del capitalismo europeo verso l’esterno con una potenza militare autonoma. Con le parole di Lenin: i rapporti di potenza si modificano, le modalità di spartizione del mondo debbono mutare di conseguenza. Memento Lenin.

L’ultimo arcano del “momento” è il ruolo della mitica classe subalterna. Dispersi, deprivati di intelligenza collettiva, lasciati in balìa delle sole stupidità individuali, i lavoratori sembrano oggi rassegnati a subire gli effetti di un boom della spesa militare a colpi di tagli ulteriori dello stato sociale e nuove compressioni del potere d’acquisto. Del resto, i pochi che ancora gettano uno sguardo sulla politica ormai parlano la medesima lingua delle diplomazie capitaliste che li governano. La loro più elevata ambizione intellettuale è mettersi sotto la bandiera del “buono” contro l’ultimo “cattivo” di turno. Inconscio adattamento mentale a un futuro di carne da cannone.

Con la rivoluzione liquefatta, alle masse sfugge persino la consolazione della scienza rivelatrice. “Momento Lenin”, memento Lenin.

Note

[1] Nella vasta letteratura in tema, si veda: Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli (2024). Centralization of capital and economic conditions for peace. Review of Keynesian Economics, 12 (3), 365-384.

[2] Sui nessi tra passivo netto americano e crisi diplomatica internazionale, si veda anche un recente dibattito con il Governatore emerito della Banca d’Italia: Emiliano Brancaccio e Ignazio Visco (2024). “Non-ordine” economico mondiale, guerra e pace: un dibattito tra Emiliano Brancaccio e Ignazio Visco. Moneta e Credito, 77, n. 308.

Fonte

La solidarietà cinese con la Palestina e i “guerrieri del dente di leone”

Ogni tanto anche nella compagneria italiana si alza qualche voce che chiede “cosa fa la Cina contro Israele e il genocidio dei palestinesi?” L’assenza di qualsiasi notizia in proposito sui media manistream è al fondo di una diffusa ignoranza – nel senso autentico: “non sapere” – su come stiano le cose, sia sul piano storico che su quello dell’attualità.

Questo lungo articolo di Zhang Sheng – un ricercatore del Centro di Studi Asiatici dell’Università Koç di Istanbul, il quale, tra l’altro, si occupa dell’evoluzione e degli sviluppi delle relazioni Cina-Medio Oriente, della storia delle campagne di solidarietà della Cina con i movimenti di liberazione anticoloniali nei paesi in via di sviluppo e della diplomazia cinese dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese ai giorni nostri – mette in chiaro intanto la lunga storia del rapporto tra i due popoli e le rispettive rappresentanze politiche.

Buona lettura.

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La frontiera della lotta antimperialista internazionale: la percezione in Cina della lotta palestinese tra il 1955 e il 1976

La Cina è probabilmente uno dei pochi Stati che ha cambiato radicalmente la sua posizione diplomatica sul “conflitto israelo-palestinese” tra gli anni ’50 e ’70. In soli 20 anni, la politica estera ufficiale della Repubblica Popolare Cinese è cambiata drasticamente: dall'essere ul punto di stabilire relazioni diplomatiche con Israele nel 1950, alla negazione di qualsiasi legittimità allo Stato israeliano negli anni ’60 e ’70.

Come questo articolo cerca di dimostrare, l’era maoista, in particolare dal 1955 al 1976, ha gettato le basi per il sostegno diplomatico cinese al movimento di liberazione palestinese, e questa eredità rimane uno dei principali fattori che orientano la posizione ufficiale della Cina sulla Palestina oggi.

Dal 1950 al 1976, durante l’era di Mao, la Cina approfondì gradualmente la sua comprensione della questione palestinese e alla fine concluse che la lotta palestinese era un movimento di liberazione nazionale anticoloniale e antimperialista.

Da un punto di vista diplomatico, la Repubblica Popolare Cinese in quel periodo non solo dimostrò la propria solidarietà con la lotta armata palestinese fornendo supporto diplomatico, finanziamenti e persino addestramento militare, ma istituì anche vari programmi di scambio culturale tra diplomatici e intellettuali palestinesi e cinesi. Per quanto riguarda la sua politica interna, la Cina in quel periodo lanciò anche un’ampia campagna di propaganda e istruzione, volta a rafforzare la solidarietà pro-palestinese nel popolo cinese.

Fortemente influenzata dall’Unione Sovietica, la neonata Repubblica Popolare Cinese considerava Israele uno stato postcoloniale guidato da un governo nazional-borghese “di sinistra” ed era quindi disposta a riconoscere Israele.

Il 9 gennaio 1950, il ministro degli Esteri israeliano inviò una lettera al premier cinese Zhou Enlai riconoscendo la Repubblica Popolare Cinese, rendendo Israele “il primo governo in Medio Oriente a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese”. Invece, la Lega Araba, nell’agosto del 1950, decise di non riconoscere la Repubblica Popolare Cinese, rafforzando ulteriormente la posizione favorevole della Cina nei confronti di Israele.

Questa effimera possibilità di riconoscimento reciproco, tuttavia, svanì rapidamente quando la Cina fu coinvolta nella guerra di Corea nell’ottobre del 1950. Per non irritare gli Stati Uniti, il governo israeliano rimandò il piano di stabilire relazioni formali con la Cina [...] mettendo fine alla precedente fantasia in cui la Cina vedeva Israele come un paese di sinistra, e anche Pechino dovette riconsiderare la questione del riconoscimento reciproco.

Nel 1955 si tenne a Bandung la prima conferenza afro-asiatica. Lì, la Cina ha avuto l’opportunità di coltivare legami con i leader arabi, mentre Israele è stato escluso dalla conferenza a causa della veemente opposizione degli Stati arabi e dell’Indonesia, un paese a maggioranza musulmana con una storica amicizia con la Palestina.

Inizialmente Zhou Enlai propose di includere Israele nella conferenza degli Stati postcoloniali, ma dopo un lungo colloquio con il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e il rappresentante della delegazione siriana e futuro presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), Ahmad Shuqiry, concluse che sostenere la lotta antimperialista del popolo arabo era una priorità per la Cina.

Sebbene negli anni ’50 la Repubblica Popolare Cinese avesse ridotto i contatti diplomatici con Israele, non considerò il paese del tutto illegittimo. [...] Continuava a ritenere che fosse uno Stato legittimo potenzialmente in grado di evitare di cadere completamente nel blocco occidentale. Anche i rapporti tra il Partito Comunista Cinese e il CPI [ndt: Partito Comunista Israeliano] in quel periodo dimostrano che la Repubblica Popolare Cinese non mantenne una posizione antisionista.

Ma la guerra del 1956 cambiò radicalmente la percezione che la Cina aveva di Israele. Dal 1956 in poi, la Cina cominciò a considerare Israele sempre più come un “cagnolino” dell’imperialismo occidentale che minacciava la liberazione del Terzo mondo e il movimento socialista internazionale. [...]

Dopo la crisi di Suez del 1956, la politica estera cinese divenne unilateralmente filo-araba. La Cina abbandonò il suo appoggio al piano di spartizione nel suo discorso diplomatico, criticò apertamente Israele per aver invaso gli Stati arabi e ha espressamente sostenuto il diritto del popolo palestinese alla lotta armata.

Con la rottura delle relazioni tra Cina e Unione Sovietica, la politica estera cinese divenne ancora più radicale di quella dell’Unione Sovietica. All’incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai tenutosi a Mosca nel 1957, il presidente cinese Mao Zedong si oppose espressamente all’idea di Krusciov di una “coesistenza pacifica” con il blocco capitalista e sostenne la lotta armata contro gli Stati capitalisti. [...]

Secondo la Repubblica Popolare Cinese, il conflitto regionale tra arabi e israeliani era diventato uno scenario in cui il blocco socialista e il Terzo Mondo si univano per combattere l’imperialismo occidentale. Mentre i leader cinesi erano più preoccupati alle questioni dell’Asia Orientale, come la guerra del Vietnam e il conflitto dello Stretto di Taiwan, la terra della Palestina era considerata una “frontiera” remota che frenava l’imperialismo occidentale.

Mao Zedong disse anche:
“L’imperialismo teme la Cina e gli arabi. Israele e Formosa [Taiwan] sono le basi dell’imperialismo in Asia. Voi siete la porta d’ingresso e noi siamo la porta sul retro. Hanno creato Israele per voi e Formosa per noi. L’Occidente non ci ama; dobbiamo comprendere questo fatto. La battaglia araba contro l’Occidente è la battaglia contro Israele”.
Nel 1966, quando ebbe inizio la Rivoluzione Culturale cinese, la fazione radicale del governo cinese cominciò ad acquisire maggiore controllo sulla diplomazia. Così, la posizione di Pechino nei confronti di Israele è entrata nella sua fase più radicale, quella in cui la Cina ha messo in discussione la legittimità fondamentale dello Stato israeliano. [...]

La teoria maoista della “guerra popolare” guidò l’entusiastico sostegno della Cina alla guerriglia in tutto il mondo, compresa la Palestina. Le forze di guerriglia palestinesi divennero il modello ideale della “guerra popolare”. [...]

Dopo il famoso discorso di Mao del 20 maggio 1970, gli slogan cinesi a sostegno del popolo palestinese divennero estremamente combattivi, incoraggiando la lotta armata e la distruzione dello Stato sionista. [...] Dal 1965 fino alla fine della Rivoluzione Culturale nel 1976, la narrazione ufficiale della Repubblica Popolare Cinese sulla storia della Palestina si è evoluta verso una posizione completamente antisionista.

Il forte sentimento filo-arabo della Repubblica Popolare Cinese è riscontrabile anche nella sua posizione durante la Guerra del 1973. Il 23 ottobre, davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha affermato che “è giusto che i popoli di Egitto, Siria e Palestina utilizzino tutte le misure che desiderano per riconquistare i propri territori occupati, mentre qualsiasi piccola provocazione da parte di Israele è un comportamento criminale”.

Negli anni ’60 e ’70, lo Stato cinese organizzava frequentemente manifestazioni di massa davanti alle ambasciate di Palestina, Repubblica Araba Unita (Egitto) e Siria a Pechino per esprimere la propria solidarietà. [...] [Inoltre] educava le masse cinesi e incoraggiava la classe operaia a informarsi e a scrivere sulle questioni palestinesi.

Negli anni ’60 e ’70, mentre numerosi combattenti per la libertà dell’OLP venivano addestrati nelle accademie militari cinesi, molti diplomatici e intellettuali palestinesi studiavano o lavoravano come insegnanti di arabo o traduttori nelle università cinesi e venivano spesso invitati in Cina per vari eventi. Le opere di Ghassan Kanafani furono tradotte e ampiamente diffuse in Cina. [...] È interessante notare che negli anni ’70 in Cina la lotta armata palestinese era addirittura un genere letterario per bambini.

Tra il passato rivoluzionario e il presente incentrato sul commercio: la politica estera della Cina nei confronti della Palestina dagli anni ’80 a oggi

Dopo la morte di Mao nel 1976, la Rivoluzione Culturale giunse al termine. Deng Xiaoping, in qualità di leader dei riformisti, impiegò due anni per consolidare il suo potere all’interno del partito. [...] Il sostegno alle rivoluzioni mondiali smise di far parte dell’agenda della diplomazia ufficiale cinese. La Cina iniziò a riconsiderare la possibilità di stabilire relazioni diplomatiche con altri membri del blocco capitalista, tra cui Israele.

Il nuovo clima internazionale di quell’epoca ebbe un impatto significativo anche sui cinesi. Nel 1977, il presidente egiziano Anwar Sadat pronunciò il suo discorso alla Knesset israeliana e il miglioramento delle relazioni tra Egitto e Israele portò i cinesi a credere che l’insolubile “conflitto arabo-israeliano” potesse terminare. La Cina cominciò a considerare che l’esistenza dello Stato israeliano non era intrinsecamente antitetica a quella di uno Stato palestinese.

Nel settembre 1988, il ministro degli Esteri cinese, Qian Qichen, annunciò una “proposta in cinque punti” del suo paese sulle questioni del Medio Oriente, che comprendeva la promozione del dialogo, il ritiro di Israele da tutti i territori arabi occupati in cambio di garanzie di sicurezza e, cosa più importante, la promozione del riconoscimento reciproco tra lo Stato di Palestina e lo Stato di Israele.

Nel 1985 Israele riaprì il suo consolato generale a Hong Kong, chiuso da oltre 10 anni, e iniziò a vendere i suoi prodotti ad alta tecnologia, in particolare equipaggiamenti e tecnologie militari, alla Cina continentale tramite Hong Kong. Israele era diventato uno dei pochi canali attraverso cui la Cina avrebbe potuto acquisire tecnologie militari avanzate e aggirare così il blocco occidentale. La relazione rimase importante per Pechino fino al 2001, quando Israele annullò unilateralmente l’accordo commerciale con la Cina dietro la pressione degli Stati Uniti.

Nel gennaio 1992 la Cina ristabilì le relazioni diplomatiche con Israele. […] Di conseguenza, la Cina accolse con favore gli Accordi di Oslo nel 1993. Ma anche se alla fine si era impegnata per la cosiddetta soluzione dei due Stati, la Cina non ha mai vacillato nel suo sostegno alla Palestina, almeno nel suo discorso diplomatico.

Il 20 novembre 1988, dopo che Yasser Arafat aveva dichiarato cinque giorni prima la nascita dello Stato palestinese, la Cina annunciò ufficialmente il riconoscimento dello Stato di Palestina. Nel dicembre 1995, la Cina istituì ufficialmente la propria ambasciata dell’Autorità Palestinese a Gaza, per poi trasferirla a Ramallah nel maggio 2004.

Dal 2013, il governo di Xi Jinping ha rinnovato il suo interesse politico per il Medio Oriente, compresa la questione palestinese, con l’intento di promuovere il prestigio internazionale della Cina come potenza mondiale. [...] Nel luglio 2017, Xi ha annunciato la sua “proposta in quattro punti” per il “conflitto”.

Per promuovere la “proposta in quattro punti” di Xi, nel dicembre 2017 Pechino ha organizzato il Simposio della Pace Palestina-Israele, a cui hanno partecipato personalità di spicco come Ahmed Majdalani, segretario generale del Fronte di Lotta Popolare Palestinese, e il parlamentare Yehiel “Hilik” Bar, vicepresidente della Knesset israeliana. [...]

Nel maggio 2021, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha ribadito l’interesse della Cina a invitare rappresentanti palestinesi e israeliani al dialogo a Pechino. “Non ci sarà vera pace nel mondo se il Medio Oriente non sarà stabile”. Oggi le parole di Wang sono diventate la norma nel discorso diplomatico cinese sulla Palestina.

Tra il 2015 e il 2020, Cina e Israele hanno vissuto un breve periodo di crescita degli scambi commerciali e degli investimenti. Mentre le relazioni tra Stati Uniti e Israele si inasprivano a causa dell’aggressione israeliana nella Cisgiordania occupata e della sua opposizione all’accordo sul nucleare iraniano, il governo Netanyahu tentò di flirtare con la Cina. Gli scambi commerciali tra Cina e Israele sono più che raddoppiati tra il 2013 e il 2022 e sono cresciuti rapidamente dal 2017, anno in cui Netanyahu ha visitato la Cina e ha firmato il “Partenariato innovativo globale”.

Tuttavia, a seguito della guerra a Gaza e della crisi del Mar Rosso, il commercio sino-israeliano nel 2023 è diminuito di circa l’8% rispetto al 2022, e nel 2024 è diminuito di circa l’1,5% rispetto al 2023. [...] Il più grande investimento della Cina in Israele in questo periodo era stato il porto della baia di Haifa. Nel 2015, la Shanghai International Port Group (SIPG), società statale cinese, ha firmato un accordo con Israele che le concedeva i diritti di gestione del porto per 25 anni, a partire dal 2021; tale accordo è tuttora giuridicamente valido.

La solidarietà politica con la Palestina e i legami economici con Israele creano una contraddizione nella politica estera cinese, e Pechino si è semplicemente dichiarata amica di entrambe le parti, cercando di presentarsi come un potenziale mediatore. [...] Tuttavia, negli ultimi anni, l’immagine della Cina come “amica della Palestina e di Israele” è diventata sempre meno sostenibile. [...]

Dall’inizio degli anni 2000 fino al 2023, Israele ha intensificato la sua aggressione e oppressione contro il popolo palestinese. Tra gli eventi più importanti si annoverano la seconda Intifada del 2000; l’invasione israeliana del Libano dal 2006 in poi; le guerre di Israele contro Gaza nel 2008-2009, 2012, 2014 e 2021; la Grande Marcia del Ritorno nel 2018-2019; la repressione israeliana delle proteste palestinesi nel 2021; e la guerra genocida di Gaza del 2023. In tutte queste occasioni, la Cina ha rilasciato dichiarazioni diplomatiche criticando le azioni di Israele, ma nessuna delle atrocità commesse da Israele ha avuto ripercussioni sul commercio sino-israeliano. [...]

Dopo il genocidio israeliano a Gaza, questa contraddizione nella politica estera cinese si è aggravata a un livello senza precedenti, poiché Israele ha minacciato di danneggiare gli investimenti cinesi se Pechino avesse mantenuto il suo sostegno diplomatico alla Palestina.

Il conflitto diplomatico, propaganda israeliana e la costruzione organica dell’opinione pubblica cinese: come la Cina reagisce al genocidio a Gaza

Gli eventi del 7 ottobre 2023, e in particolare il successivo bombardamento israeliano di Gaza, hanno distrutto irreversibilmente ogni possibilità di continuare come se nulla fosse accaduto. [...] Il governo israeliano ha chiesto alla Cina di condannare l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa e di catalogare Hamas come organizzazione terroristica.

Come prevedibile, Pechino ha respinto questa richiesta. Il governo cinese non accetta la narrazione occidentale-israeliana che presenta il 7 ottobre come l’inizio della storia. [...] Non esiste documento che spieghi meglio la posizione ufficiale della Repubblica Popolare Cinese sul diritto dei palestinesi a resistere, anche attraverso la lotta armata, della dichiarazione di Ma Xinmin, Direttore Generale del Dipartimento dei Trattati e del Diritto del Ministero degli Affari Esteri ed ex ambasciatore cinese in Sudan, resa davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) il 22 febbraio 2024. Durante l’udienza pubblica all’Aia, Ma ha dichiarato categoricamente:
“Il conflitto palestinese-israeliano ha origine dalla lunga occupazione israeliana dei territori palestinesi e dalla storica oppressione che Israele ha inflitto al popolo palestinese. La resistenza del popolo palestinese contro l’oppressione israeliana e la sua lotta per completare la creazione di uno Stato indipendente nei territori occupati sono, in sostanza, azioni giuste volte a ripristinare i loro legittimi diritti”.
La Cina sollecita ripetutamente Israele a dichiarare un cessate il fuoco immediato, anche già a partire dall’ottobre 2023. Inoltre, la Cina continua a votare a favore della Palestina sia nel Consiglio di Sicurezza che nell’Assemblea Generale dell’ONU. La Repubblica Popolare Cinese ha dimostrato al mondo di non aver abbandonato la sua tradizione diplomatica anticoloniale e la sua solidarietà con la Palestina, forgiata negli anni ’60 e ’70 da Mao e Zhou.

Sebbene attualmente non mostri alcuna determinazione a intraprendere ulteriori sforzi, come l’adesione ufficiale al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), e non abbia ancora utilizzato direttamente il termine “genocidio” per definire i crimini israeliani a Gaza nei documenti diplomatici ufficiali, la Cina ha dimostrato al mondo che almeno non è disposta a rimanere in silenzio.

Inoltre, la Cina rimane impegnata nel suo ruolo di facilitatore di dialoghi. Ha cercato di facilitare il dialogo tra le varie fazioni palestinesi. Il 23 luglio 2024, 14 fazioni politiche palestinesi, guidate da rappresentanti di Fatah e Hamas, hanno firmato, alla presenza del Ministro degli Esteri cinese Wang Yi, la dichiarazione congiunta nota come “Dichiarazione di Pechino per porre fine alla divisione e per rafforzare l’unità nazionale palestinese”.

Il documento afferma che tutte le fazioni coopereranno alla “formazione di un Governo provvisorio di riconciliazione nazionale incentrato sulla ricostruzione di Gaza dopo il conflitto”.

Come prevedibile, il sostegno diplomatico della Cina ai palestinesi l’ha trascinata in un conflitto diplomatico con Israele. Israele ha anche preso di mira il porto della baia di Haifa, di proprietà cinese, per esercitare pressione sulla Cina. Dall’ottobre 2023, la società cinese che gestisce il porto ha drasticamente ridotto il suo volume di scambi a causa dei rischi per la sicurezza derivanti dalla guerra e nel gennaio 2024, in seguito alla crisi del Mar Rosso, ha cessato completamente le operazioni.

Immediatamente il media israeliano Ynet l’ha presentata come “la prima e unica azienda a interrompere i suoi legami commerciali con i porti israeliani”. [Ma] ad oggi, il governo israeliano non ha ufficialmente annullato il trattato di 25 anni firmato con la Cina per il porto di Haifa.

Oltre a diffondere disinformazione e criticare apertamente il governo cinese, l’ambasciata israeliana a Pechino ha attivamente promosso informazioni filo-israeliane. Ad esempio, Israele ha utilizzato il tipico argomento del “femminismo coloniale” per presentarsi come l’unico Stato “civilizzato” e favorevole alle donne nella regione.

In occasione della Giornata internazionale della Donna del 2024, ad esempio, il consolato israeliano a Shanghai ha organizzato un webinar che collegava i diritti delle donne con l’attacco del 7 ottobre.

Dopo aver esaminato questa campagna di propaganda su larga scala promossa dall’ambasciata israeliana in Cina a partire dall’ottobre 2023, sorge spontanea la domanda: questa narrazione ha conquistato la maggioranza dei giovani cinesi? La risposta è un sonoro “no”. Dal 7 ottobre, gli internauti cinesi hanno sostenuto in modo schiacciante la lotta palestinese con tutti i mezzi, compresa la lotta armata.

Con un linguaggio piuttosto poetico, molti giovani cybernauti cinesi si riferiscono alle forze palestinesi paracadutatesi durante l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa come “guerrieri del dente di leone” per due motivi: in primo luogo, i paracadute sospesi in aria assomigliano ai semi volanti del dente di leone; in secondo luogo, i semi del dente di leone possono crescere ovunque cadano, quindi la vitalità di questa pianta è simile alla resistenza del popolo palestinese.

Su Bilibil, il sito web di condivisione video più popolare tra i giovani cinesi, ci sono molti video che commemorano i “guerrieri del dente di leone”. Nell’ultimo anno, gli internauti cinesi hanno mostrato un grande interesse nell’approfondire la conoscenza della Palestina.

Su Douyin (il TikTok cinese) ci sono numerose immagini di Gaza e diversi creatori di contenuti sul web si dedicano alla produzione di video che educano il pubblico sulla storia della lotta palestinese o riportano gli ultimi sviluppi della guerra. Ci sono persone specializzate nella diffusione, sul web cinese, di video pubblicati dalle forze di resistenza palestinese e le analizzano per il pubblico. Dopo la morte di Yahya Sinwar, alcuni hanno persino tradotto volontariamente il suo romanzo “La spina e il garofano” in cinese, come omaggio.

Innumerevoli cittadini cinesi hanno contattato l’ambasciata palestinese a Pechino tramite Weibo [ndt: il Twitter cinese] con l’intenzione di fare donazioni alla popolazione palestinese. In netto contrasto, la pagina dell’ambasciata israeliana ha ricevuto un’infinità di commenti critici che hanno stroncato gli sforzi propagandistici del governo [israeliano].

È da notare che, mentre il Dipartimento di Stato USA proibisce di paragonare le politiche di Israele a quelle della Germania nazista, considerandolo una forma di “antisemitismo”, il popolo cinese, in quanto principale vittima del fascismo giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, non può fare a meno di paragonare il genocidio di Gaza ai massacri di civili cinesi perpetrati dai giapponesi. In effetti, il trauma storico della Cina in quanto nazione invasa è proprio ciò che genera una naturale affinità con il popolo palestinese. [...]

Il 24 ottobre 2023, l’ambasciata tedesca a Pechino ha rilasciato una dichiarazione molto sgarbata, definendo letteralmente “idioti ignoranti o miserabili spudorati” tutti i cinesi che paragonano Israele alla Germania nazista. Tuttavia, le ambasciate israeliana, tedesca e statunitense in Cina hanno scoperto presto, con loro grande disappunto, che le sezioni commenti dei loro account Weibo erano inondate di critiche furiose da parte degli internauti cinesi.

Ancora oggi, questi utenti continuano a paragonare i crimini di guerra israeliani a Gaza ai crimini contro l’umanità commessi dalla Germania nazista e dal Giappone fascista negli anni ’30 e ’40 del '900.

Dall’inerzia storica alla solidarietà organica: il dibattito su Gaza come speranza per la futura solidarietà sino-palestinese

Come per altri aspetti, l’attuale Governo cinese non desidera scegliere tra il suo passato maoista e l’eredità post-maoista e cerca di ignorare la disgiunzione tra i due approcci, mettendo da parte le differenze ed evidenziando i punti in comune. Di conseguenza, le reazioni della Cina al genocidio in corso a Gaza sono spesso ambigue.

Da un lato, lo Stato cinese condanna inequivocabilmente Israele in tutti i forum internazionali e, a differenza dell’Occidente, afferma chiaramente di sostenere il popolo palestinese nell’uso di tutti i mezzi disponibili, inclusa la lotta armata, contro l’occupazione israeliana. [...]

Tuttavia, è anche un dato di fatto che il sostegno della Cina alla Palestina sembra essere guidato maggiormente dall’inerzia storica dell’era maoista. [..] Lo Stato cinese è rimasto distante e indifferente alle nuove tendenze globali, come il movimento BDS.

A causa della sua scarsa comprensione della situazione sul campo e della sua riluttanza a mettere a repentaglio gli scambi commerciali con Israele, il Governo cinese non è disposto ad accettare il doloroso fatto che la soluzione dei due Stati sia sempre più impraticabile e che l’obiettivo della Cina di diventare un amico comune sia della Palestina che di Israele non si adatta più alla realtà in cui la popolazione palestinese si trova ad affrontare minacce esistenziali. [...]

La Cina sostiene ufficialmente la causa del Sudafrica contro il genocidio israeliano presso la Corte Internazionale di Giustizia, ma non ha utilizzato direttamente questo concetto nei propri documenti diplomatici.

Inoltre, è probabile che anche il secondo mandato di Donald Trump ostacoli i progressi sostanziali della Cina nel suo sostegno alla Palestina, al di là delle dichiarazioni diplomatiche e della sua offerta di fungere da sede di dialogo. [...] Infatti, la forte posizione filo-israeliana di Trump potrebbe scoraggiare la Cina dall’adottare energiche misure commerciali contro Israele. [...]

La Cina garantirà di non essere coinvolta nelle lotte armate palestinesi o libanesi, né in alcuna campagna di boicottaggio economico contro Israele, per non aggravare ulteriormente i suoi già instabili rapporti con gli Stati Uniti.

Ciò nonostante, si può ancora mantenere un cauto ottimismo sul futuro del ruolo della Cina nel movimento di solidarietà palestinese. La Cina si rifiuta di condannare l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, e le controversie con Israele alle Nazioni Unite hanno infranto il precedente idillio tra i due Paesi.

Nell’ambito socioculturale, la guerra a Gaza ha portato la gioventù cinese, sempre più anti-occidentale, a riconnettersi con l’eredità rivoluzionaria dell’era di Mao. A lungo termine, con l’aumento delle posizioni di rilievo dei giovani nel governo e nella società cinese, vi è grande speranza che la Cina (ri)abbracci le sue tradizioni anticoloniali degli anni ’60 e ’70 e svolga un ruolo più attivo nel movimento internazionale di solidarietà con la Palestina.

Vorrei concludere questo articolo con una citazione di Zhang Chengzhi, un leggendario scrittore cinese musulmano di etnia Hui che coniò il termine “Guardia Rossa” durante la sua attiva partecipazione alla Rivoluzione Culturale:
“I progetti persistenti che cercano di delegittimare le rivoluzioni sono destinati a essere vani, perché il dominio, l’oppressione, la disuguaglianza, l’ingiustizia e l’intrinseca natura umana volta alla ricerca della verità incoraggeranno le persone a riconsiderare, rispettare e infine abbracciare nuovamente le rivoluzioni” (Zhang 2009).
Fonte

20/05/2025

Sciopero (1925) di Sergej M. Ėjzenštejn - Minirece

Gaza - Bombardamenti uccidono altri 67 palestinesi. Gli “aiuti umanitari” sono solo una goccia nel mare

Fonti mediche palestinesi hanno riferito che 67 palestinesi sono stati uccisi dall’alba di oggi nei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, che hanno preso di mira i siti degli sfollati e hanno colpito un certo numero di centri sanitari in un “piano sistematico per distruggere il settore sanitario”, secondo quanto denunciato dal direttore degli ospedali civili di Gaza, Marwan al-Hams.

L’esercito israeliano ha ordinato l’espulsione dei palestinesi da Khan Younis, comprese le aree di Bani Suhaila e Abasan nel sud della Striscia di Gaza, in vista di quello che ha descritto come un “attacco senza precedenti”.

Avichay Adraee, portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, ha emesso l’avvertimento in un post su X (ex Twitter), dichiarando Khan Younis una “pericolosa zona di combattimento” e ordinando ai residenti delle aree colpite di spostarsi verso la zona di al-Mawasi nel sud di Gaza, che l’esercito ha precedentemente designato come “area umanitaria”. Nonostante sia etichettata come una cosiddetta “zona sicura”, al-Mawasi è stata ripetutamente presa di mira dalle forze israeliane. L’area è attualmente sede di migliaia di famiglie palestinesi sfollate che hanno cercato rifugio dagli attacchi aerei e terrestri israeliani in corso.

L’ultima ondata di ordini di espulsione emessi dall’esercito israeliano fa seguito a un’operazione fallita delle forze speciali israeliane volta a catturare un alto dirigente delle Brigate Nasser Salah al-Din, il braccio militare dei Comitati di Resistenza Popolare.

Durante la missione, effettuata lunedì mattina presto, le forze speciali israeliano hanno assassinato il comandante Ahmed Sarhan. Tuttavia, un corrispondente radio dell’esercito israeliano, come riportato da Al Jazeera, ha dichiarato che uccidere Sarhan non era il “vero obiettivo” dell’operazione. “L’operazione a Khan Younis ha vacillato e non ha raggiunto il suo vero obiettivo. Non c’è bisogno di assassinare una persona mettendo in pericolo un’unità delle forze speciali, quando può essere presa di mira dall’aria”, ha detto il corrispondente.

Le Brigate Al-Nasser Salah al-Din hanno successivamente confermato la morte di Sarhan in una dichiarazione, affermando che: “Il comandante Ahmed Kamel Sarhan, ufficiale delle operazioni speciali delle brigate, è stato martirizzato dopo aver ingaggiato uno scontro eroico contro le forze speciali sioniste”.

Il corrispondente di Al Jazeera, Hani Al Shaer, ha riferito testimonianze oculari che affermano che le forze speciali israeliane erano travestite da donne e sono arrivate in un veicolo civile. Secondo quanto riferito, hanno fatto irruzione nella casa in cui si trovava Sarhan, arrestando sua moglie e i suoi figli. Secondo quanto riferito, un altro bambino è stato ucciso durante il raid e il destino della famiglia rimane sconosciuto. Per coprire il ritiro delle forze speciali, sono stati lanciati oltre 40 attacchi aerei israeliani in meno di un’ora, con intensi bombardamenti segnalati in tutta l’area.

Intanto solo nove camion che trasportavano aiuti umanitari, tra cui alimenti per bambini e sudari per i cadaveri, sono stati autorizzati ieri a entrare nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom. A comunicarlo è stato l'organismo israeliano incaricato di coordinare gli aiuti a Gaza, il Cogat.

Netanyahu ha affermato che le pressioni internazionali, comprese quelle dei senatori repubblicani favorevoli a Israele e della Casa Bianca, hanno richiesto l’apparenza di un intervento umanitario. “I nostri migliori amici nel mondo – senatori che conosco come forti sostenitori di Israele – hanno avvertito che non ci possono sostenere se emergono immagini di fame di massa”, ha detto. Vengono da me e mi dicono: “Vi daremo tutto l’aiuto necessario per vincere la guerra... ma non possiamo accettare che ci siano in giro immagini di carestia”, ha aggiunto Netanyahu. Per continuare la guerra di annientamento, ha affermato, “dobbiamo farlo in modo che non ci possano fermare”.

L’alleato di coalizione di Netanyahu, Bezalel Smotrich, ministro del governo di estrema destra e da tempo sostenitore dell’affamamento, dell’uccisione di massa e dello spopolamento di Gaza, ha appoggiato la mossa di Netanyahu. Smotrich ha detto che il piano di aiuti permetterà “ai nostri amici nel mondo di continuare a fornirci un ombrello internazionale di protezione contro il Consiglio di Sicurezza e il Tribunale dell’Aia, e di continuare a combattere, se Dio vuole, fino alla vittoria”.

Le Nazioni Unite hanno definito la consegna un “gradito sviluppo”, ma hanno affermato che è “una goccia nel mare” e che sono necessari molti più aiuti per affrontare la crisi umanitaria nella Striscia. Gli esperti hanno già messo in guardia da una potenziale carestia se il blocco imposto ai circa due milioni di palestinesi del territorio non verrà revocato del tutto.

In una dichiarazione congiunta e insolitamente forte rilasciata lunedì, i governi di Francia, Gran Bretagna e Canada hanno avvertito che avrebbero intrapreso azioni concrete contro Israele se non avesse immediatamente fermato il suo assalto militare in corso sulla Striscia di Gaza e posto fine alle sue restrizioni sugli aiuti umanitari.

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Bye bye, Occidente... il futuro energetico passa altrove

Sta succedendo qualcosa di enorme, ma si continua a cianciare come se tutto scorresse sempre uguale. Neanche le guerre e i genocidi emergono più come momenti rilevanti del presente. Son considerati “normali”, magari disdicevoli e di cattivo gusto, ma in fondo “un lavoro sporco che qualcuno deve pur fare”.

Una ottusità generale gravissima, che impedisce persino di vedere e quindi concettualizzare i passaggi decisivi della Storia. En passant, si è smesso – qui nell’Occidente neoliberista – di parlare della transizione energetica, e soprattutto dei giganteschi piani di riconversione industriale che sarebbero dovuti partire per realizzarla praticamente.

Persino le decisioni che sembravano già prese in via definitiva – come il divieto di immatricolazione per le auto diesel e benzina a partire dal 2035, nell’Unione Europea – sono tornate nel cono d’ombra del “vedremo”. Anche se è chiarissimo che, per cambiare radicalmente la produzione automobilistica del Vecchio Continente, quella data è già fin troppo vicina. Se non si parte ora, non si arriverà mai in tempo. E quindi si rinuncerà a quel pur minimo obiettivo...

Negli Stati Uniti in versione Trump la parola d’ordine è stata “drill, drill, drill”, un incitamento operativo a lasciar perdere la corsa all’energia pulita e concentrarsi invece sui giacimenti (residui) di petrolio e gas. Anche se negli Usa si estrae ormai quasi soltanto dai giacimenti di scisto o dalle sabbie bituminose, a costi altissimi – sia economici che ambientali – tanto che se il prezzo del barile scende sotto i 60 dollari si produce in perdita.

Al contrario la Cina sta guidando la nuova rivoluzione industriale – incentrata sulla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili – sfornando brevetti, modelli automobilistici, centrali nucleari al torio, infrastrutture che fanno impallidire quanto è stato fatto nel mondo nello scorso secolo.

La competizione tra Occidente imperialista e Cina sta diventando così una competizione asimmetrica in cui il vecchio impero si arrocca nel modello industriale ormai arretrato e lascia che il resto del mondo – che già non è fatto più di popoli coloniali con archi e frecce – si getti sulla strada del futuro.

Qualche dubbio sul fatto che sia una strategia intelligente comincia a venire anche ai maggiorenti Usa, e se ne è trovata traccia nel dibattito del Congresso sul “mega-progetto” smoker di Trump, che richiede comunque investimenti molto consistenti proprio mentre ci si affanna a tagliare la spesa pubblica in ogni suo capitolo, persino militare.

Gli stessi repubblicani risultano in qualche misura divisi, con un fronte che vuole gli Stati Uniti in grado di competere con Pechino nella corsa per dominare le tecnologie energetiche del futuro – dai pannelli solari e turbine eoliche alle batterie e alle auto elettriche.

L’altro schieramento invece sostiene che la Cina abbia già vinto questa corsa, e che partecipare a questo gioco significherebbe condannare gli USA alla sconfitta. Dunque bisognerebbe concentrarsi sulle fonti energetiche in cui sono già leader: petrolio, gas naturale e carbone.

Al centro dello scontro sono finite così le centinaia di miliardi di dollari in incentivi fiscali per l’energia pulita introdotte da Biden, che ora si vorrebbero cancellare quasi integralmente. I funzionari di Trump sostengono infatti che finanziare la tecnologia verde favorisca la Cina, che domina vaste porzioni delle catene di approvvigionamento globali per batterie, veicoli elettrici, energia solare ed eolica.

Ma non si tratta più solo di componenti o di brevetti. Anche i “prodotti finiti” segnano ormai un sorpasso che appare irreversibile. Negli ultimi mesi, ad esempio, due aziende cinesi fra loro concorrenti – BYD e CATL – hanno presentato batterie per veicoli elettrici in grado di percorrere 400 o persino 500 km con una ricarica di cinque minuti. E già vengono annunciate quelle in grado di far percorrere circa 1.000 con tempi di ricarica simili.

Tesla, per dire, offre al massimo 320 km per poi star fermi almeno 15 minuti.

Gli osservatori economici più attenti stanno già mettendo in guardia circa la possibilità che, se si affermerà definitivamente il “sistema Trump”, si verifichi una clamorosa “fuga del konw how” dall’America verso la Cina. Se le nuove tecnologie energetiche si sviluppano laggiù, allora anche “i cervelli” seguiranno la stessa strada. Lasciando gli Usa – e anche l’Unione Europea, visibilmente con una guida miserabile – a corto sia di settori industriali avanzati che di “intelligenza” adeguata a farli funzionare.

Ma non si tratta di una contrapposizione tra “culture”. Si stanno misurando due diversi – e per molti versi opposti – modelli economici. Quello occidentale, sotto l’egemonia ormai quarantennale del neoliberismo, ha lasciato ai “privati” il compito di decidere sul tipo di sviluppo industriale da privilegiare.

Il “pubblico” – è stato persino teorizzato – si sarebbe dovuto limitare a creare le migliori condizioni perché il capitale privato potesse liberare i suoi “spiriti animali”, creando uno sviluppo esplosivo che poi avrebbe “sgocciolato” molliche di benessere anche verso gli strati poveri della società.

Non è notoriamente accaduto nulla di tutto ciò. “I privati” hanno pensato ad arraffare il massimo profitto possibile, riducendo al minimo l’innovazione e la ricerca (e i costi relativi), rifugiandosi poi nei mercati finanziari alla ricerca di plusvalenze ancora più veloci (con un click) e senza la noia di dover gestire (e retribuire) frotte di dipendenti.

La Cina – con un modello di “economia mista” con qualche somiglianza con quella italiana ed europea degli anni ‘60 – ha al contrario sposato la classica programmazione/pianificazione di origine socialista con una “libertà di impresa” profondamente limitata alle “politiche di piano”. E lo “sgocciolamento” è stato orientato in modo talmente forte da eliminare la povertà sul serio, non dal balcone di Palazzo Chigi...

Per quanto riguarda la transizione energetica, per esempio, non ha seguito affatto la via occidentale (incentivi pubblici per le imprese che facevano propri alcuni limitati obiettivi, magari falsificando anche i risultati come ha dimostrato il “diesel-gate” di Volkswagen), ma ha sviluppato la ricerca pubblica e “invitato” quella privata a cooperare per massimizzare i risultati. In un modello economico in cui i profitti privati venivano e vengono in gran parte reinvestiti nel processo produttivo, anziché tesaurizzati in consumi di lusso o finanza speculativa.

I risultati oggi cominciano a diventare evidenti, come ha ben spiegato addirittura il Financial Times: “Il solare batte l’LNG in termini di costo, ed è un vantaggio per il clima. In pratica, ogni dollaro speso per importare pannelli solari equivale a un risparmio annuale di un dollaro in importazioni di gas, generando la stessa quantità di elettricità.”

Scegliere il “modello smokers” è un suicidio. Che illumina lo stato cognitivo dell’Occidente neoliberista e anticipa la sua fine.

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Guerra in Ucraina - Una telefonata non basta

Cosa è emerso dal colloquio telefonico tra Trump e Putin sul quale erano riposte molte aspettative per una tregua nella guerra in Ucraina?

Il presidente degli Stati Uniti, parlando ai giornalisti alla Casa Bianca ha ribadito di credere che Putin voglia la pace in Ucraina ed ha dichiarato di avere discusso la possibilità di un incontro di persona con il presidente della Federazione Russa.

Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha commentato la telefonata affermando che i colloqui Russia e Ucraina saranno “complessi” per elaborare il testo di un memorandum su un trattato di pace e un cessate il fuoco. “Verranno formulate delle bozze sia da parte russa che da parte ucraina, queste bozze verranno scambiate e poi ci saranno colloqui complessi per elaborare un testo unico. (...) Non c’è una scadenza e non può esserci. È chiaro che tutti vogliono farlo il più rapidamente possibile, ma, naturalmente, il diavolo si nasconde nei dettagli”, ha detto Peskov.

Mentre i volenterosi guerrafondai dell’Unione Europea annunciano un nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia (l’ottavo), il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato di non avere rafforzato le sanzioni alla Russia perché “abbiamo la possibilità di fare progressi” nel quadro dei negoziati per la pace. Parlando ai giornalisti nello Studio Ovale, il presidente Usa ha detto che “abbiamo una opportunità di concludere qualcosa, e una misura del genere avrebbe peggiorato la situazione”. Trump ha tuttavia riconosciuto che “potrebbe arrivare un momento” per rafforzare le sanzioni nei confronti di Mosca.

Secondo il quotidiano tedesco Handesblatt i leader europei e ucraini sono rimasti “scioccati” dopo la conversazione telefonica con il presidente degli Stati Uniti, perché Trump non intende fare pressione su Putin con le sanzioni.

Dal canto suo il presidente ucraino Zelensky, aggiornato da Trump sulla telefonata con Putin, ha assicurato che Kiev è pronta a studiare l’offerta russa su un possibile memorandum, ma ha anche ribadito che Kiev non si ritirerà dalle zone sotto controllo russo – riferendosi alle regioni di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia – condizione che era stata posta dai russi a Istanbul. Il colloquio preliminare tra Trump e Zelenski aveva lasciato immaginare una possibile svolta che, però, al momento non sembra esserci stata.

Fa discutere intanto un articolo del New York Times che è riuscito a intervistare quasi una dozzina di soldati russi per chiedere loro la loro opinione sui negoziati e su un possibile cessate il fuoco. Secondo il NYT, ognuno dei soldati ha espresso il proprio disaccordo con qualsiasi cessate il fuoco e ha chiesto alla Russia di conquistare altre regioni dell’Ucraina, in modo che la futura generazione di truppe “non debba combattere di nuovo questa guerra”.

Undici soldati russi che combattono o hanno combattuto in Ucraina, hanno espresso profondo scetticismo nelle interviste al NYT sugli sforzi diplomatici che venerdì hanno prodotto i primi colloqui di pace diretti in tre anni, ma sono stati brevi e hanno prodotto scarsi risultati. Parlando telefonicamente, i soldati hanno affermato di respingere un cessate il fuoco incondizionato proposto dall’Ucraina, aggiungendo che le forze russe dovrebbero continuare a combattere almeno fino alla conquista di tutte e quattro le regioni ucraine meridionali e orientali rivendicate, ma solo parzialmente controllate, dalle forze armate russe.

“Siamo tutti stanchi, vogliamo tornare a casa. Ma vogliamo conquistare tutte le regioni, così da non dover lottare per ottenerle in futuro”, ha detto Sergei, un soldato russo arruolato che combatte nella regione orientale di Donetsk, riferendosi al territorio annesso. “Altrimenti, sarebbero morti tutti invano?”

Contestualmente, sul fronte ucraino, fanno discutere le dichiarazioni del comandante della 47a Brigata delle Forze armate ucraine “Magura”, Alexander Shirshin, che ha duramente criticato la leadership di Kiev e la natura dei compiti assegnati a chi combatte in prima linea. “Non ho mai ricevuto ordini così assurdi come nella zona attuale. Si tratta di perdite di personale insensate, paura di generali incompetenti e fallimenti sistemici. In cambio, solo rimproveri e sanzioni disciplinari. La realtà e la retorica politica non coincidono da molto tempo. Tutto questo è già oltre il limite”.

Secondo un noto analista statunitense al momento la modalità prevalente dei negoziati può essere paragonata al gioco delle sedie, in cui ciascuna parte sta al gioco per non rimanere senza sedia alla fine della musica. In questo caso, tutti stanno al gioco, desiderando la pace per scoraggiare le accuse di guerrafondaio, ma in realtà ogni parte ha le proprie motivazioni segrete per continuare il conflitto.

Nel caso della Russia, ha bisogno di una vittoria decisiva per evitare che il conflitto si riaccenda in futuro. Nel caso dell’Europa, ha bisogno di una Russia indebolita, tenuta costantemente sotto controllo dal giogo di sanzioni e tensioni. Gli Stati Uniti non disdegnerebbero di vedere tutte le parti indebolite a proprio vantaggio.

“Dopotutto, come si spiegherebbe altrimenti l’affermazione di Trump secondo cui il coinvolgimento degli Stati Uniti è stato un “errore”, mentre continuano a fornire armi all’Ucraina 24 ore su 24, 7 giorni su 7? Se è stato un errore, perché continuate a riempirli di munizioni?” – si domanda retoricamente l’analista noto con lo pseudonimo di Simplicius – “Gli Stati Uniti vorrebbero avere la botte piena e la moglie ubriaca: pur fingendo la pace, devono comunque tenere il coltello alla gola di entrambe le parti per mantenere la supremazia”.

L’ambizione non nascosta degli USA di sganciare la Russia dall’alleanza con la Cina dovrà tenere conto del recente incontro tra Putin e Xi Jinping in occasione delle celebrazioni per l’80° anniversario della sconfitta del nazifascismo. “Dobbiamo sventare tutti i piani volti a distruggere o minare i nostri legami di amicizia e fiducia”, ha ribadito Xi Jinping, sottolineando come i rapporti tra Pechino e Mosca non siano “diretti contro terzi”, ma restino “autosufficienti”, con radici storiche profonde e una “chiara logica” strategica. In realtà, le dichiarazioni congiunte e i riferimenti al “bullismo egemonico” internazionale – espressione con la quale vengono indicati gli Stati Uniti – disegnano un quadro in cui Russia e Cina si propongono come soggetti centrali dell’ordine multipolare, contrapposti all’unilateralismo di Washington.

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Ricomposizione tra UE e UK, a far da paciere è la guerra

Ieri a Londra il primo ministro britannico Starmer e i vertici UE – Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas – hanno raggiunto un’intesa fondamentale per l’evoluzione delle relazioni post-Brexit tra Regno Unito e Unione Europea. Non tutti i dossier erano di facile risoluzione visti gli interessi contrastanti, ma la tendenza alla guerra alla fine ha riavvicinato i due attori dello scenario internazionale.

Sono tre, in realtà, i testi concordati ieri mattina dagli sherpa e poi approvati dai politici appena menzionati. Il primo è una dichiarazione congiunta, il secondo è un partenariato di difesa e sicurezza, il terzo esprime invece una nuova agenda per la cooperazione tra Bruxelles e Londra. Riassumiamone in breve il contenuto.

La dichiarazione congiunta ha il sapore dell’inquadramento strategico di quali obiettivi si pongono i paesi europei. Viene subito affermata l’importanza del libero commercio – stoccata a Trump – seguita dal riconoscimento dell’imprescindibile cooperazione transatlantica, e dal ruolo della NATO come pilastro della difesa collettiva.

Ovviamente, poi, c’è il sostegno all’Ucraina, le accuse alla Russia e all’Iran, la ricerca della stabilità tra India e Pakistan e nei Balcani, la promozione di una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese. Il solito che siamo abituati a sentire dai governanti occidentali, ma senza delineare iniziative concrete di alcun tipo.

Vengono poi accennati anche gli sforzi di collaborazione che torneranno negli altri testi, ma soprattutto è importante riportare che è stata decisa una consultazione semestrale tra i ministri della Difesa e degli Esteri britannici e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ruolo oggi ricorperto da Kallas.

È proprio la partnership su difesa e sicurezza a rappresentare il cuore degli accordi. Intelligence e contrasto alle minacce ibride, spazio, IA e tecnologie avanzate, dialogo su missioni marittime come quelle nel Mar Rosso, lotta ai flussi migratori irregolari, mobilità militare per mezzo della partecipazione del Regno Unito al programma relativo della PESCO, iniziativa europea sulla difesa comune.

Infine, il mantenimento e l’accrescimento delle partecipazioni comuni nell’industria militare, e l’inserimento di Londra nell’orizzonte del Readiness 2030. “Questo è il primo passo verso la partecipazione del Regno Unito al programma europeo di investimenti per la difesa SAFE”, ha detto von der Leyen, citando quello che era poi il grande tema dell’incontro.

Infine, la nuova agenda di cooperazione pone le basi per il futuro dialogo su vari temi, e già ora prende alcune decisioni in merito. Vengono alleggeriti i controlli doganali su alimenti e prodotti vegetali, decisione che, secondo Downing Street, porterà nelle casse di Londra oltre 10 miliardi di euro entro il 2040.

Viene espressa la volontà di lavorare sulla facilitazione dei controlli alle frontiere, in particolare per ciò che riguarda i turisti. Il testo cita poi l’integrazione del Regno Unito nello spazio universitario europeo attraverso il programma Erasmus+, criticato dal precedente governo di Londra, appena un anno fa.

Viene favorita la futura cooperazione nel campo dell’energia e delle tecnologie, si lavorerà al collegamento tra i mercati delle emissioni e il Regno Unito potrà evitare dazi sul suo acciaio. Infine, per quanto riguarda il controverso accordo sulla pesca, viene previsto il pieno accesso reciproco alle rispettive acque fino al 30 giugno 2038, allungando di 12 anni l’accordo oggi in vigore.

Il tema dei diritti di pesca era stato largamente cavalcato dai fautori della Brexit, e quindi, pur rappresentando solo lo 0,4% del PIL, ha un portato simbolico e politico non indifferente. Preventivando già questo risultato dell’incontro, sui giornali si è letto più di una volta che queste negoziazioni avrebbero dovuto rappresentare una sorta di reset della Brexit. Ma si tratta di una semplificazione.

Senza dubbio, l’intesa di ieri segna un forte riavvicinamento tra Londra e Bruxelles, e probabilmente anche per questo l’inquilino di Downing Street aveva espresso la volontà di evitare clamore mediatico intorno alle trattative. Ma nella sostanza si tratta di un accordo di partenariato strategico a tutto tondo tra realtà già profondamente interconnesse, più che l’ammissione del fallimento della Brexit.

O almeno, non nel senso che gli ultras europeisti vogliono propagandarci. Ad esempio, da entrambi i lati della Manica negli ultimi giorni varie voci hanno ricordato un’indagine pubblicata da The Indipendent a inizio del 2025, sui costi della Brexit. Solo l’accordo di ‘divorzio’ dalla UE sarebbe costato oltre 30 milioni di sterline, a cui vanno aggiunti le perdite sul lato di esportazioni, investimenti, e così via.

Numeri che non possiamo mettere in dubbio, ma che dovrebbero essere calati nel contesto di crisi che viviamo. Se pensiamo ai paesi della comunità europea, di certo non se la passano bene, con una crisi industriale che non accenna a fermarsi. Se parliamo di opportunità di investimento, bisognerebbe chiedersi a quante opportunità e investimenti ha perso l’Italia uscendo dalla Nuova Via della Seta.

Certo, qualche preoccupazione una parte della classe dirigente britannica deve averla provata, se pensiamo al ruolo che aveva nella fornitura di servizi finanziari ai paesi UE. Bisogna ricordare che la City di Londra produce una fetta importante del PIL del Regno Unito e rappresentava una sorta di porta d’ingresso dei capitali ai mercati europei.

Ma la realtà è che le velleità imperiali che ancora la Corona di Re Carlo rappresenta stanno facendo i conti con uno scenario globale in cui quel ruolo ormai è perso e irrecuperabile. La Brexit rappresenta semmai un fallimento nel senso che la rottura euroatlantica praticata da Trump ha scompaginato l’orizzonte che la politica britannica si era costruita dopo il 2016.

“C’era chi diceva che la Brexit fosse un’opportunità per adottare una politica estera indipendente in Europa, invece di essere sempre allineati con Francia e Germania. Ma oggi non lo dice più nessuno”, ha spiegato Ian Bond, vicedirettore del Center for European Reform, e questo parole danno la sostanza del perché strategico degli accordi firmati a Londra.

La misura del fallimento della rottura decisa con la UE non si valuta sulle promesse non mantenute, tipo quella di spendere 350 milioni di sterline sul sistema sanitario ogni settimana, dato che anche nella ricerca di nuove ipotesi strategiche era impensabile che politici votati al profitti si imbarcassero in questo cambio di rotta.

Si valuta piuttosto sull’incapacità di leggere le tendenze di fondo della competizione globale, e del non aver compreso che la possibilità di giocarsi un ruolo di peso a livello internazionale facendo da punto di contatto tra le due sponde dell’Atlantico era fuori dalla realtà. È semmai questa consapevolezza che ora ha spinto Starmer a tentare di aggiustare il tiro con i vicini europei.

E non più di questo, consapevole anche di muoversi su un terreno delicato, visto il ritorno di Farage nell’agone elettorale. Downing Street ha provato a risolvere alcuni nodi spinosi, cercando di non perdere terreno sul nuovo Trump europeo, promuovendo intanto una delle più dure campagne antimigranti degli ultimi anni... alla faccia del governo di ‘sinistra’.

Ma il vero interesse era appunto quello di porre le basi della riconfigurazione del complesso militare-industriale europeo, con sinergie utili a entrambe le parti. Le attività di alcuni importanti colossi di armamenti britannici, come BAE Systems, si intrecciano già con i ‘campioni europei’ del settore bellico, e nel pieno del programma di riarmo non c’è nessuna intenzione di rompere questi legami.

Dal lato londinese della questione si guarda invece all’opportunità di accaparrarsi parte dei 150 miliardi del fondo SAFE, quelli previsti come prestito garantito dal bilancio UE per acquisti comuni tra più paesi, pensati in funzione di una difesa europea. Ciò significherebbe anche sanzionare definitivamente il ruolo che Londra vuole svolgere nel panorama geopolitico: d’intesa con l’imperialismo europeo.

Che fosse questo l’indirizzo che Starmer voleva intraprendere si vedeva già da qualche tempo. Se reggerà – sul piano interno nel confronto con Farage, su quello esterno nella capacità di Bruxelles di fare il salto di qualità dal punto di vista militare – è tutto da vedere.

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USA - La classe dominante statunitense e il regime di Trump

John Bellamy Foster riesamina e critica la tesi secondo cui la classe capitalista statunitense non sia una classe “governante”. Il fatto che gli oligarchi della classe dominante – come parte del regime di Trump – stiano ora esercitando il potere sulle scene nazionali e internazionali, dimostra che la schiacciante influenza politica della classe capitalista non sia più in discussione, e che questa convergenza spinga il Paese sempre più verso il neofascismo.

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di John Bellamy Foster

Nell’ultimo secolo il capitalismo statunitense ha avuto, senza dubbio, la classe dominante più potente e più cosciente della storia mondiale, cavalcando sia l’economia che lo Stato e proiettando la sua egemonia sia a livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è un apparato ideologico che sostiene che l’immenso potere economico della classe capitalista non si traduce in governance politica e che, a prescindere dalla polarizzazione della società statunitense in termini economici, rimangono integre le sue rivendicazioni di democrazia. Secondo l’ideologia che ne consegue, gli interessi degli ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato: è una separazione fondamentale per l’idea di democrazia liberale. Questa ideologia dominante, tuttavia, si sta ora sgretolando di fronte alla crisi strutturale del capitalismo statunitense e mondiale, e al declino dello stato liberal-democratico, portando a profonde spaccature nella classe dominante e a un nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.

Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden denunciava che una “oligarchia” basata sul settore high-tech, e che in politica si affida al “dark money”, sta minacciando la democrazia degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il senatore Bernie Sanders metteva in guardia dagli effetti della concentrazione di ricchezza e potere in una nuova “classe dominante” egemone, e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in ognuno dei principali partiti.[1]

L’ascesa, per la seconda volta, di Trump alla Casa Bianca, non vuol dire che l’oligarchia capitalista sia improvvisamente diventata influente nel comandare la politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia sta esercitando un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense si trova palesemente al comando dell’apparato ideologico-statale, in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale sta diventando un junior partner [partner minore]. L’obiettivo di questo cambiamento è la regressiva riorganizzazione degli Stati Uniti in una posizione di guerra permanente, risultante dal declino della sua egemonia e dall’instabilità del capitalismo statunitense, oltre che dalla necessità da parte di una classe capitalista di assicurarsi un controllo più centralizzato dello Stato.

Negli anni della Guerra Fredda successivi alla Seconda Guerra Mondiale, i guardiani dell’ordine liberal-democratico all’interno del mondo accademico e dei media cercarono di minimizzare il ruolo predominante esercitato nell’economia statunitense dai proprietari dell’industria e della finanza, che sarebbero poi stati scalzati dalla “rivoluzione manageriale”, o contenuti dal “contropotere”. In questa visione, i proprietari e i manager, il capitale e il lavoro, si sarebbero regolamentati a vicenda. Successivamente, in una versione leggermente più raffinata di questa prospettiva generale, il concetto di classe capitalista egemone sotto il capitalismo monopolistico si dissolse nella categoria più amorfa dei “corporate rich” [ricchi aziendali].[2]

La democrazia statunitense, si sosteneva, era il prodotto dell’interazione di raggruppamenti pluralisti, o in alcuni casi mediata da un’élite di potere. Non esisteva una funzionale classe dominante egemone né in campo economico, né in quello politico. Anche se si potesse sostenere che nell'economia esisteva una classe capitalista predominante, essa non governava lo Stato, che era indipendente. Tutto ciò è stato trasmesso in vari modi da tutte le opere archetipiche della tradizione pluralista, da La rivoluzione manageriale (1941) di James Burnham, a Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) di Joseph A. Schumpeter, a Who Governs? (1961) di Robert Dahl, a Il nuovo stato industriale (1967) di John Kenneth Galbraith, che spaziavano dalle estremità conservatrici a quelle liberali dello spettro.[3] Tutti questi trattati erano concepiti per suggerire che nella politica statunitense prevaleva il pluralismo, o un’élite manageriale/tecnocratica, non una classe capitalista che governava sia il sistema economico che quello politico. Nella visione pluralista della democrazia realmente esistente, introdotta per la prima volta da Schumpeter, i politici erano semplici imprenditori politici in competizione elettorale – al pari degli imprenditori economici nel cosiddetto libero mercato – che creavano un sistema di “leadership competitiva”.[4]

Nella promuovere la finzione secondo cui gli Stati Uniti, nonostante il vasto potere della classe capitalista, rimanevano un’autentica democrazia, l’ideologia comunemente accettata, fu raffinata e rafforzata da analisi provenienti da sinistra che cercavano di riportare la dimensione del potere in una teoria dello Stato, sostituendo le visioni pluraliste allora dominanti, di autori come Dahl, rifiutando, allo stesso tempo, la nozione di classe dominante.

L’opera più importante che rappresentava questo cambiamento fu La élite del potere (1956) di C. Wright Mills, che sosteneva che la concezione di “classe dominante”, associata in particolare al marxismo, dovrebbe essere sostituita dalla nozione di “élite del potere” tripartita, in cui la struttura di potere degli Stati Uniti era vista come dominata da élite provenienti dalle ricche aziende, dai vertici militari e dai politici eletti. Mills si riferiva alla nozione di classe dominante come a una “teoria della scorciatoia” che presupponeva che il dominio economico significasse dominio politico. Sfidando direttamente il concetto di "classe dominante" di Karl Marx, Mills affermava: «Il governo americano non è, né in modo semplice né come fatto strutturale, un comitato della “classe dominante”. È una rete di ‘comitati’, e in questi comitati siedono, oltre ai ricchi delle multinazionali, altri uomini, di altre gerarchie».[5]

Il punto di vista di Mills sulla classe dominante e l’élite del potere fu inizialmente criticata dai teorici radicali, in particolare da Paul M. Sweezy sulla Monthly Review, e dal lavoro di G. William Domhoff, nella prima edizione del suo Who Rules America? (1967). Ma alla fine ottenne una notevole influenza sulla sinistra più ampia.[6] Come avrebbe sostenuto Domhoff nel 1968, nel suo C. Wright Mills and “The Power Elite”, il concetto di élite di potere era comunemente visto come «il ponte tra le posizioni marxiste e quelle pluraliste... È un concetto necessario perché non tutti i leader nazionali sono membri della classe superiore. In questo senso, si tratta di una modifica e di una estensione del concetto di ‘classe dominante'».[7]

La questione della classe dominante e dello Stato era stata al centro del dibattito tra i teorici marxisti Ralph Miliband, autore di The State in Capitalist Society (1969), e Nicos Poulantzas, autore di Potere politico e classi sociali (1968), che rappresentavano i cosiddetti approcci “strumentalisti” e “strutturalisti” allo Stato, nella società capitalista. Il dibattito verteva sulla “relativa autonomia” dello Stato dalla classe dominante capitalista, una questione cruciale per le prospettive di conquista dello Stato da parte di un movimento socialdemocratico.[8]

Il dibattito ha assunto una forma estrema negli Stati Uniti con l’apparizione dell’influente saggio di Fred Block “The Ruling Class Does Not Rule” [La classe dominante non governa] su Socialist Revolution nel 1977, in cui Block si spingeva a sostenere che la classe capitalista non aveva la coscienza di classe necessaria per tradurre il suo potere economico in dominio dello Stato.[9] Tale visione, sosteneva, era necessaria per rendere praticabile la politica socialdemocratica. Dopo la sconfitta di Biden contro Trump nelle elezioni del 2024, l’articolo originale di Block è stato ristampato su Jacobin con una nuova conclusione in cui Block sosteneva che, dato che la classe dominante non governava, Biden aveva la libertà di istituire una politica favorevole alla classe operaia secondo le linee del New Deal, che avrebbe impedito la rielezione di un esponente della destra – «con un’abilità e una spietatezza di gran lunga superiori» di Trump – nel 2024.[10]

Date le contraddizioni dell’amministrazione Biden e il secondo avvento di Trump, con tredici miliardari nel suo gabinetto, l’intero lungo dibattito sulla classe dominante e lo Stato deve essere riesaminato.[11]

La classe dominante e lo Stato

Nella storia della teoria politica, dall’antichità fino ai giorni nostri, si è soliti intendere lo Stato in relazione alla classe sociale. Nella società antica e sotto il feudalesimo, a differenza della società capitalista moderna, non esisteva una chiara distinzione tra società civile (o economia) e Stato. Come scrisse Marx nella sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico nel 1843, «l’astrazione dello Stato in quanto tale nacque soltanto nel mondo moderno perché l’astrazione della vita privata è stata creata solo in tempi moderni. L’astrazione dello Stato politico è un prodotto moderno», realizzato pienamente solo con il dominio della borghesia.[12] Questo concetto è stato successivamente ribadito da Karl Polanyi che ha mostrato come un tempo l'economia fosse incorporata nella polis antica e sia stata poi disincorporata dal capitalismo, manifestandosi nella separazione tra la sfera pubblica dello Stato e la sfera privata del mercato.[13] Nell’antichità greca, in cui le condizioni sociali non avevano ancora generato tali astrazioni, non vi era dubbio che fosse la classe dominante a governare la polis e a crearne le leggi. Aristotele nella Politica, come scriveva Ernest Barker in The Political Thought of Plato and Aristotile, sosteneva la posizione secondo cui il dominio di classe spiegava in ultima analisi la polis: «Dimmi quale classe è predominante, si potrebbe dire, e ti dirò qual'è la costituzione».[14]

Nel regime del capitale, al contrario, lo Stato è inteso come separato dalla società civile/dall'economia. A questo proposito, ci si chiede sempre se la classe che domina l’economia, ovvero la classe capitalista, domini anche lo Stato.

Il punto di vista di Marx su questo tema era complesso, non si discostava mai dall'idea che nella società capitalista, lo Stato fosse governato dalla classe capitalista, pur riconoscendo le diverse condizioni storiche che lo modificavano. Da un lato, sosteneva (insieme a Friedrich Engels) nel Manifesto del Partito Comunista che «Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari, comuni di tutta quanta la classe borghese».[15] Questa prospettiva suggeriva che lo Stato, o il suo ramo esecutivo, possedeva una relativa autonomia che andava oltre gli interessi dei singoli capitalisti, pur essendo comunque responsabile della gestione degli interessi generali della classe. Ciò poteva, come Marx indicava altrove, condurre a importanti riforme, come l’approvazione, ai suoi tempi, della legislazione sulla giornata lavorativa di dieci ore, che pur sembrando una concessione alla classe operaia e contraria agli interessi capitalistici, era necessaria per garantire il futuro dell’accumulazione di capitale, regolando e assicurando la continua riproduzione della forza lavoro.[16] Dall'altro lato, ne Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Marx evidenziava situazioni piuttosto diverse, in cui la classe capitalista non governava direttamente lo Stato, lasciando spazio a un dominio semi-autonomo, purché questo non interferisse con i suoi fini economici e, in ultima istanza, con il suo controllo dello Stato.[17] Egli riconosceva inoltre che lo Stato poteva essere governato da una frazione del capitale rispetto a un’altra. In tutti questi aspetti, Marx sottolineava la relativa autonomia dello Stato dagli interessi capitalistici, un concetto che è stato fondamentale per tutte le teorie marxiste sullo Stato nella società capitalista.

È da tempo noto che la classe capitalista dispone di numerosi mezzi per agire come classe dominante attraverso lo Stato, anche nel caso di un ordine liberaldemocratico. Da un lato, ciò assume la forma di un’investitura abbastanza diretta nell’apparato politico attraverso vari meccanismi, come il controllo economico e politico delle macchine dei partiti politici e l’occupazione diretta da parte dei capitalisti e dei loro rappresentanti di posti chiave nella struttura di comando politica. Oggi negli Stati Uniti gli interessi capitalistici hanno il potere di influenzare in modo decisivo le elezioni. Inoltre, il potere capitalistico sullo Stato si estende ben oltre il momento elettorale. Il controllo della banca centrale, e quindi dell’offerta di moneta, dei tassi di interesse e della regolamentazione del sistema finanziario, è affidato essenzialmente alle banche stesse. Dall'altro lato, la classe capitalista controlla indirettamente lo Stato attraverso il suo vasto potere economico esterno di classe, che comprende pressioni finanziarie dirette, lobbismo, finanziamento di gruppi di pressione e think tank, il fenomeno della "porta girevole" tra i principali attori del governo e del mondo degli affari, e il controllo dell’apparato culturale e comunicativo. In un sistema capitalistico, nessun regime politico può sopravvivere se non serve gli interessi del profitto e dell’accumulazione di capitale, una realtà costante a cui sono sottoposti tutti gli attori politici.

La complessità e l’ambiguità dell’approccio marxista alla classe dominante e allo Stato furono espresse da Karl Kautsky nel 1902, quando dichiarò che «la classe capitalista domina, ma non governa»; poco dopo aggiunse che «si accontenta di dominare il governo».[18] Come è stato sottolineato, fu proprio tale questione, vale a dire l’autonomia relativa dello Stato dalla classe capitalista, a guidare il famoso dibattito tra quelle che sarebbero state chiamate le teorie strumentaliste e strutturaliste dello Stato, rappresentate rispettivamente da Ralph Miliband in Gran Bretagna e da Nicos Poulantzas in Francia. Le posizioni di Miliband furono fortemente influenzate dalla fine del Partito Laburista britannico come autentico partito socialista avvenuta alla fine degli anni Cinquanta, come descritto nel suo Parlamentary Socialism.[19] Ciò lo costrinse a confrontarsi con l’enorme potere della classe capitalista in quanto classe dominante. Successivamente riprese il tema in The State in Capitalist Society nel 1969, in cui scrisse che «se sia... appropriato parlare di ‘classe dominante’ è uno dei temi principali di questo studio». Anzi, «la più importante di tutte le questioni sollevate dall’esistenza di questa classe dominante è se essa costituisca anche una ‘classe governante’». Miliband cercò di dimostrare che la classe capitalista, pur «non essendo, propriamente parlando, una ‘classe governante’» nello stesso senso in cui lo era stata l’aristocrazia, governava comunque in modo piuttosto diretto (oltre che indiretto) la società capitalista.
Essa traduceva il proprio potere economico in potere politico in vari modi, al punto che, affinché la classe operaia potesse sfidare efficacemente la classe dominante, avrebbe dovuto opporsi alla struttura stessa dello Stato capitalista.[20]

Fu proprio su questo punto che Poulantzas, che aveva pubblicato Political Power and Social Classes nel 1968, entrò in conflitto con Miliband. Poulantzas attribuiva ancora maggiore importanza all’autonomia relativa dello Stato, trovando alla base dell’approccio di Miliband una concezione troppo diretta del dominio capitalistico, anche se conforme in gran parte agli scritti di Marx sull’argomento.

Poulantzas sottolineava che il dominio capitalistico sullo Stato fosse più indiretto e strutturale che diretto e strumentale, lasciando spazio a una maggiore varietà di governi in termini di composizione di classe, inclusi non solo diverse frazioni della classe capitalista, ma anche rappresentanti della classe operaia stessa. «La partecipazione diretta di membri della classe capitalista nell’apparato statale e nel governo, anche quando esiste», scriveva, «non è l’aspetto importante della questione. La relazione tra la classe borghese e lo Stato è una relazione oggettiva [...] La partecipazione diretta di membri della classe dominante nell’apparato statale non è la causa ma l’effetto [...] di questa coincidenza oggettiva».[21] Sebbene una tale affermazione potesse sembrare ragionevole nei termini in cui era espressa, essa tendeva invece a rimuovere il ruolo della classe dominante come soggetto cosciente di classe. Scrivendo durante l’apice dell’eurocomunismo, lo strutturalismo di Poulantzas, con il suo accento sul bonapartismo come indicativo di un alto grado di autonomia relativa dello Stato, sembrava aprire la strada a una concezione dello Stato inteso come entità in cui la classe capitalista non governava, anche se lo Stato restava, in ultima istanza, soggetto a forze oggettive derivanti dal capitalismo.

Tale visione, ribatteva Miliband, indicava o una visione “super-determinista” o economicistica dello Stato, caratteristica di una “deviazione di ultra-sinistra”, o di una “deviazione di destra”, nella forma della socialdemocrazia, che generalmente negava l’esistenza stessa di una classe dominante.[22] In entrambi i casi, la realtà della classe dominante capitalista e i vari processi attraverso i quali esercitava il suo dominio, che la ricerca empirica di Miliband e altri aveva ampiamente dimostrato, sembravano essere in cortocircuito, non più parte dello sviluppo di una strategia di lotta di classe dal basso. Un decennio dopo, nella sua opera del 1978 State, Power, Socialism, Poulantzas spostò la sua attenzione sulla difesa del socialismo parlamentare e della socialdemocrazia (o “socialismo democratico”), insistendo sulla necessità di mantenere gran parte dell’apparato statale esistente in ogni transizione al socialismo. Ciò contraddiceva direttamente il risalto posto da Marx nella Guerra civile in Francia e da Vladimir I. Lenin in Stato e rivoluzione sulla necessità di sostituire lo stato capitalista della classe dominante con una nuova struttura di comando politico proveniente dal basso.[23]

Influenzato da The Power Elite di Wright Mills e dagli articoli di Paul Sweezy The American Ruling Class e Power Elite or Ruling Class?, pubblicati su Monthly Review, William Domhoff, nella prima edizione del suo libro, Who Rules America? (1967), ha sviluppato un’analisi esplicitamente di classe, ma ciononostante indicava di preferire il più neutrale “classe governante” a “classe dominante”, sulla base del fatto che «la nozione di classe dominante» suggeriva una «visione marxista della storia».[24] Tuttavia, quando nel 1978 scrisse The Powers That Be: Processes of Ruling Class Domination in America, Domhoff, influenzato dall’atmosfera radicale del tempo, era passato a sostenere che «una classe dominante è una classe sociale privilegiata che è in grado di mantenere la sua posizione di vertice nella struttura sociale». L’élite di potere fu ridefinita come il «braccio di comando» della classe dominante.[25] Tuttavia, questa esplicita integrazione della classe dominante nell’analisi di Domhoff ebbe vita breve. Nelle edizioni successive di Who Rules America?, fino all’ottava edizione del 2022, si piegò al pragmatismo liberale e abbandonò del tutto il concetto di classe dominante. Invece, seguì Mills nel raggruppare i proprietari (“la classe sociale superiore”) e i dirigenti nella categoria dei “ricchi aziendali”.[26] L’élite di potere era vista come composta da CEO, consigli di amministrazione e consigli di fondazioni, sovrapposti, come in un diagramma di Venn, con la classe sociale superiore (che consisteva anche di personaggi mondani e jet-setter), la comunità aziendale e la rete di pianificazione politica. Ciò costituiva una prospettiva nota come "ricerca sulla struttura del potere". I concetti di classe capitalista e classe dominante non si trovavano più.

Un’opera empirica e teorica più significativa di quella di Domhoff, e per molti versi ancora più pertinente oggi, fu scritta nel 1962-1963 dall’economista sovietico Stanislav Menšikov, e tradotta in inglese nel 1969 con il titolo Millionaires and Managers. Menšikov partecipò a uno scambio formativo di scienziati tra Unione Sovietica e Stati Uniti nel 1962. In quel contesto incontrò «i presidenti, amministratori delegati e vicepresidenti di dozzine di società e di 13 delle 25 banche commerciali» con patrimoni superiori al miliardo di dollari. Tra gli altri, incontrò Henry Ford II, Henry S. Morgan e David Rockefeller.[27] La dettagliata analisi empirica di Menšikov sul controllo finanziario delle società negli Stati Uniti e del gruppo o classe dominante ha fornito una solida valutazione del continuo predominio, all’interno dei super-ricchi, dei capitalisti finanziari. Grazie alla loro egemonia su vari gruppi finanziari, l’oligarchia finanziaria si è differenziata dai manager di alto livello (CEO) delle burocrazie finanziarie aziendali. Sebbene esistesse quello che potrebbe essere chiamato un “blocco di milionari-manager” nel senso dei “ricchi aziendali” di Mills, e una divisione del lavoro all’interno «della classe dirigente stessa», a dominare era «l’oligarchia finanziaria, cioè il gruppo di persone il cui potere economico si basa sulla disponibilità di colossali masse di capitale fittizio ... [e] che è la base di tutti i principali gruppi finanziari», e non i dirigenti aziendali in quanto tali. Inoltre, il potere relativo dell’oligarchia finanziaria continuava a crescere, anziché diminuire.[28] Come nell’analisi di Sweezy su Interest Groups in the American Economy, scritta per il National Resource Committee durante il New Deal, la dettagliata analisi di Menšikov ha fotografato la persistente base dinastico-familiare della ricchezza statunitense.[29]

L’oligarchia finanziaria statunitense costituiva sì una classe dominante, ma in generale non governava né direttamente né senza interferenze.

Il «dominio economico dell’oligarchia finanziaria», scriveva Menšikov, «non equivale al suo dominio politico. Ma quest'ultimo [il dominio politico] senza il primo [il dominio economico] non può essere abbastanza forte, mentre quello economico senza quello politico evidenzia che la fusione tra monopoli e macchina statale non è ancora completa. Anche negli Stati Uniti, dove entrambe queste condizioni sono presenti, la macchina governativa, pur da decenni al servizio dei monopoli, non assicura alla finanza un potere politico indiscusso. L’oligarchia finanziaria, infatti, deve confrontarsi con le restrizioni poste da altre classi sociali e, talvolta, vede effettivamente limitato il proprio potere. Tuttavia, la tendenza generale è che il potere economico si trasformi gradualmente in potere politico.»[30]

Secondo Menšikov, l'oligarchia finanziaria nel suo dominio politico sullo Stato, aveva come alleati minori: i dirigenti d’impresa, i vertici delle forze armate, i politici professionisti (che avevano interiorizzato le esigenze del sistema capitalistico) e l’élite bianca che dominava il sistema di segregazione razziale nel Sud.[31] Ma la forza dominante era sempre l’oligarchia finanziaria. «La lotta dell’oligarchia finanziaria per l'amministrazione diretta dello Stato è una delle tendenze più caratteristiche dell’imperialismo americano degli ultimi decenni», derivante dal suo crescente potere economico e dai bisogni che questo ha generato. Tuttavia, questo non è avvenuto attraverso un processo lineare. I capitalisti finanziari negli Stati Uniti non agiscono “unitariamente” e sono a loro volta divisi in fazioni concorrenti. Inoltre, nei loro tentativi di controllare lo Stato, sono ostacolati dalla complessità stessa del sistema politico statunitense, in cui giocano diversi attori.[32] 

«Sembrerebbe», scriveva Menshikov, «che il potere politico dell’oligarchia finanziaria sia, ora, pienamente garantito, ma non è così. La macchina di uno stato capitalista contemporaneo è grande e ingombrante. La conquista di posizioni in una parte di essa non garantisce il controllo dell’intero meccanismo. L’oligarchia finanziaria possiede la macchina della propaganda, è in grado di corrompere i politici e i funzionari governativi del centro e della periferia [del paese], ma non può corrompere il popolo che, nonostante le limitazioni della “democrazia borghese”, elegge il parlamento. Il popolo non ha molta scelta, ma senza abolire formalmente le procedure democratiche, l’oligarchia finanziaria non è completamente protetta in caso di "incidenti" indesiderati.»[33]

Tuttavia, la straordinaria opera di Menšikov, Millionaires and Managers, pubblicata in Unione Sovietica, non influenzò il dibattito sulla classe dominante negli Stati Uniti. La tendenza generale – riflessa nei cambiamenti di Domhoff (e di Poulantzas in Europa) – fu quella di minimizzare o abbandonare del tutto il concetto di classe dominante, persino quello di classe capitalista, sostituendolo con i concetti di corporate rich [ricchi aziendali] e power elite [elite di potere], producendo essenzialmente una versione di elite theory [teoria dell'elite].

L’abbandono del concetto di classe dominante (o anche di classe governante) nelle opere successive di Domhoff coincise con la pubblicazione di The Ruling Class Does Not Rule di Fred Block, che ebbe un impatto significativo nel pensiero radicale statunitense. Scrivendo in un’epoca in cui l’elezione di Jimmy Carter sembrava rappresentare, per i liberali e i socialdemocratici, una leadership decisamente più morale e progressista, Block sosteneva che, negli Stati Uniti e nel capitalismo in generale, non esisteva una classe dominante con un potere decisivo sulla sfera politica. Egli attribuiva ciò al fatto che non solo la classe capitalista, ma anche “frazioni” separate della classe capitalista (in contrapposizione a Poulantzas) erano prive di coscienza di classe e quindi erano incapaci di agire per il proprio interesse nella sfera politica, tanto meno di governare il corpo politico. Egli adottò invece un approccio “strutturalista” basato sulla weberiana nozione di razionalizzazione, in cui lo Stato razionalizzava i ruoli di tre attori in competizione: (1) i capitalisti, (2) i dirigenti statali e (3) la classe operaia. La relativa autonomia dello Stato nella società capitalista era una funzione del proprio ruolo di arbitro neutrale, in cui varie forze si scontravano, ma nessuna governava.[34]

Attaccando coloro che sostenevano che la classe capitalista avesse un ruolo dominante all'interno dello Stato, Block scriveva: «Il modo per formulare una critica allo strumentalismo senza cadere in contraddizioni è quello di respingere l’idea di una classe dominante dotata di coscienza di classe», poiché una classe capitalista cosciente di esserlo, lotterebbe per governare. Mentre riconosceva che Marx usava la nozione di coscienza di classe dominante, Block la escludeva come una semplice “scorciatoia politica” per indicare determinazioni strutturali.

Block diceva chiaramente che quando i radicali come lui scelgono di criticare la nozione di classe dominante, «di solito lo fanno per giustificare la politica socialista riformista». Con questo spirito, egli sosteneva che la classe capitalista non governava intenzionalmente e consapevolmente lo Stato con mezzi interni o esterni. Piuttosto, la limitazione strutturale della “fiducia delle imprese”, esemplificata dagli alti e bassi del mercato azionario, garantiva l'equilibrio tra il sistema politico e l’economia, richiedendo agli attori politici di adottare mezzi razionali per garantire la stabilità economica. La razionalizzazione del capitalismo da parte dello Stato, nella visione “strutturalista” di Block, apriva quindi la strada a una politica socialdemocratica dello Stato.[35]

Ciò che risulta chiaro è che alla fine degli anni Settanta, i pensatori marxisti occidentali avevano quasi completamente abbandonato la nozione di classe dominante, concependo lo Stato non solo come relativamente autonomo, ma di fatto ampiamente autonomo dal potere di classe del capitale. Ciò faceva parte di un generale “ritiro dalla classe”.[36] In Gran Bretagna, Geoff Hodgson scriveva nel 1984 nel suo The Democratic Economy: A New Look at Planning, Markets and Power, che «l’idea stessa di una classe 'dominante’ dovrebbe essere messa in discussione. Nella migliore delle ipotesi è una metafora debole e fuorviante. È possibile parlare di una classe dominante in una società, ma solo in virtù del predominio di un particolare tipo di struttura economica. Dire che una classe ‘governa’ significa dire molto di più. Significa insinuare che sia in qualche modo impiantata nell’apparato di governo». Era fondamentale, affermava, abbandonare la nozione marxista che associava «diversi modi di produzione a diverse ‘classi dominanti’».[37] Come fecero successivamente Poulantzas e Block, Hodgson adottò una posizione socialdemocratica che non vedeva alcuna contraddizione ultima tra la democrazia parlamentare, così come era sorta all’interno del capitalismo, e la transizione al socialismo.

Il neoliberismo e la classe dominante negli Stati Uniti

Se alla fine degli anni '60 e '70 c'è stato, nel marxismo occidentale, un progressivo abbandono della nozione di classe dominante, non tutti i pensatori si sono allineati. Paul Sweezy continuava a sostenere sulla Monthly Review che gli Stati Uniti erano governati da una classe capitalista dominante. Così, Paul A. Baran e Sweezy sostenerono nel loro Il capitalismo monopolistico, pubblicato nel 1966, che «una minuscola oligarchia che poggia su un vasto potere economico» ha «il pieno controllo dell'apparato politico e culturale della società», rendendo fuorviante, nella migliore delle ipotesi, la nozione degli Stati Uniti come autentica democrazia.[38]

Tranne che in tempi di crisi, il sistema politico normale del capitalismo, sia competitivo che monopolistico, è la democrazia borghese. I voti sono la fonte nominale del potere politico, e il denaro è la fonte reale: il sistema, in altre parole, è democratico nella forma e plutocratico nei contenuti. Questo è ormai così ben noto che difficilmente sembra necessario discuterne. Basti dire che tutte le attività e le funzioni politiche che costituiscono le caratteristiche essenziali del sistema – indottrinare e propagandare il pubblico votante, organizzare e mantenere partiti politici, condurre campagne elettorali – possono essere svolte solo per mezzo del denaro, molto denaro. E poiché nel capitalismo monopolistico le grandi corporazioni sono la fonte di molto denaro, esse sono anche le principali fonti di potere politico.[39]

Per Baran e Sweezy, che scrivevano in quella che è stata definita "l'età d'oro del capitalismo", il potere del predominio della classe dominante sullo stato era dimostrato dai limiti posti all'espansione della spesa pubblica civile (generalmente osteggiata dal capitale in quanto interferente con l'accumulazione privata), che consentivano una spesa militare gigantesca e ampi sussidi alle grandi imprese.[40] Lungi dall'esibire caratteristiche di razionalità weberiana, il "sistema irrazionale" del capitalismo monopolistico, sostenevano i due, era afflitto da problemi di sovraccumulazione che si manifestavano nell'incapacità di assorbire il capitale in eccesso, che non riusciva più a trovare sbocchi di investimento redditizi, indicando la stagnazione economica come lo "stato normale" del capitalismo monopolistico.[41]

A pochi anni dalla pubblicazione de Il capitale monopolistico, nella prima metà degli anni '70, l'economia statunitense entrò in una profonda stagnazione dalla quale non fu in grado di riprendersi completamente nel mezzo secolo successivo, con tassi di crescita economica in calo decennio dopo decennio. Ciò ha costituito una crisi strutturale del capitale nel suo complesso, una contraddizione presente in tutti i principali paesi capitalisti. Questa crisi di lungo periodo dell'accumulazione di capitale ha portato alla ristrutturazione neoliberista dall'alto verso il basso dell'economia e dello stato, a tutti i livelli, istituendo politiche regressive volte a stabilizzare il dominio capitalista, che, alla fine, ha portato alla de-industrializzazione e alla de-sindacalizzazione nel nucleo capitalista e alla globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia mondiale.[42]

Nell'agosto del 1971, Lewis F. Powell, pochi mesi prima di accettare la nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti da parte del Presidente Richard Nixon, scrisse il suo famigerato memorandum alla Camera di Commercio degli Stati Uniti con l'obiettivo di organizzare gli Stati Uniti in una crociata neoliberista contro i lavoratori e la sinistra, attribuendo loro l'indebolimento del sistema statunitense della "libera impresa".[43] Quindi, nello stesso momento in cui la sinistra stava abbandonando il concetto di classe dominante statunitense consapevole, l'oligarchia statunitense stava riaffermando il suo potere sullo stato, portando a una ristrutturazione politico-economica all'insegna del neoliberismo che comprendeva sia il partito repubblicano che quello democratico. Negli anni ’80 è stata istituita l’economia dell’offerta o Reaganomics, colloquialmente nota come "Robin Hood al contrario".[44]

John K. Galbraith scriveva in The Affluent Society, pubblicato nel 1958: «I benestanti americani – nella loro convenzionale saggezza conservatrice – sono stati a lungo sensibili alla paura dell'espropriazione, una paura che può essere collegata alla propensione di considerare anche le misure riformiste più blande come presagi della rivoluzione. La depressione e soprattutto il New Deal hanno fatto prendere un serio spavento ai ricchi americani».[45] L'era neoliberista e il riemergere della stagnazione economica, accompagnata dalla resurrezione di tali paure ai vertici, hanno portato a una più forte affermazione di potere della classe dominante ad ogni livello statale, con l'obiettivo di invertire i progressi della classe operaia compiuti durante il New Deal e la Great Society, che sono stati erroneamente incolpati della crisi strutturale del capitale.

Con l'aggravarsi della stagnazione degli investimenti e dell'economia nel suo complesso, e con le spese militari non più sufficienti a risollevare il sistema dalla sua stasi come nella cosiddetta "età dell'oro" – che era stata punteggiata da due grandi guerre regionali in Asia – il capitale aveva bisogno di trovare ulteriori sbocchi per il suo enorme surplus. Nella nuova fase del capitale monopolistico finanziario, questo surplus è confluito nel settore finanziario, o FIRE (finanza, assicurazioni e immobili), e nell'accumulo di asset, reso possibile dalla deregolamentazione governativa della finanza, dall'abbassamento dei tassi di interesse (il famoso "Greenspan put") e dalla riduzione delle tasse sui ricchi e sulle imprese. Ciò ha portato alla creazione di una nuova sovrastruttura finanziaria al di sopra dell'economia produttiva, con una rapida crescita della finanza, parallelamente alla stagnazione della produzione. Ciò è stato reso possibile dall'espropriazione dei flussi di reddito in tutta l'economia – attraverso l'aumento dell'indebitamento delle famiglie, dei costi assicurativi e dei costi dell'assistenza sanitaria – insieme alla riduzione delle pensioni, il tutto a spese della popolazione sottostante.[46]

Nel frattempo, c'è stato un massiccio spostamento della produzione aziendale verso il Sud globale, alla ricerca di costi unitari del lavoro più bassi in un processo noto come arbitraggio globale del lavoro. Ciò è stato reso possibile dalle nuove tecnologie delle comunicazioni e dei trasporti e dall'avvio alla globalizzazione di interi nuovi settori dell'economia mondiale. Il risultato è stata la deindustrializzazione dell'economia statunitense.[47] Tutto questo ha coinciso negli anni '90 con la grande crescita del capitale high-tech che ha accompagnato la digitalizzazione dell'economia e lo sviluppo di nuovi monopoli high-tech. L'effetto cumulativo di questi sviluppi è stato l'aumento della concentrazione e della centralizzazione del capitale, della finanza e della ricchezza. Anche se l'economia è stata sempre più caratterizzata da una crescita lenta, le fortune dei ricchi si sono espanse a passi da gigante: i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sono diventati sempre più poveri, mentre nel XXI secolo l'economia degli Stati Uniti ristagnava, afflitta da contraddizioni. La profondità della crisi strutturale del capitale è stata temporaneamente mascherata dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione e dal breve emergere di un mondo unipolare, il tutto sgonfiato dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009.[48]

Mentre l'economia capitalista-monopolistica nel nucleo capitalista diventava sempre più dipendente dall'espansione finanziaria, aumentando le pretese finanziarie sulla ricchezza in un contesto di produzione stagnante, il sistema diventava non solo più diseguale, ma anche più fragile. I mercati finanziari sono intrinsecamente instabili, dipendenti come sono dalle vicissitudini del ciclo del credito. Inoltre, man mano che il settore finanziario diventava preponderante rispetto a quello della produzione, che continuava a ristagnare, l'economia era soggetta a livelli di rischio sempre maggiori. Ciò è stato compensato da un maggiore salasso dell'intera popolazione e da massicce iniezioni di capitale da parte dello stato, spesso organizzate dalle banche centrali.[49]

Non c'è una visibile via d'uscita da questo ciclo all'interno del sistema capitalistico-monopolistico. Quanto più la sovrastruttura finanziaria cresce rispetto al sistema produttivo sottostante (o all’economia reale) e quanto più lunghi sono i periodi di oscillazione verso l’alto del ciclo economico-finanziario, tanto più devastanti possono essere le crisi che ne conseguono. Nel XXI secolo, gli Stati Uniti hanno sperimentato tre periodi di crollo/recessione finanziaria, con il crollo del boom tecnologico nel 2000, la Grande Crisi Finanziaria/Grande Recessione derivante dallo scoppio della bolla dei mutui delle famiglie nel 2007-2009, e la profonda recessione innescata dalla pandemia COVID-19 nel 2020.

La svolta neofascista

La Grande Crisi Finanziaria ha avuto effetti duraturi sull’oligarchia finanziaria statunitense e sull’intero corpo politico, portando a significative trasformazioni nelle matrici di potere della società. La rapidità con cui il sistema finanziario sembrava dirigersi verso una “catastrofe nucleare”, in seguito al crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, ha gettato l’oligarchia capitalista e gran parte della società in uno stato di shock, con la crisi che si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Il crollo di Lehman Brothers, che è stato l’evento più drammatico di una crisi finanziaria che si stava già sviluppando da un anno, è stato provocato dal rifiuto del governo, in qualità di prestatore di ultima istanza, di salvare quella che all’epoca era la quarta più grande banca d’investimento statunitense. Ciò era dovuto alla preoccupazione dell’amministrazione di George W. Bush per quello che i conservatori chiamavano il “rischio morale” che poteva derivare dall’assunzione di investimenti altamente rischiosi da parte di grandi aziende con l’aspettativa di essere salvate da interventi governativi. Tuttavia, con l’intero sistema finanziario che traballava in seguito al crollo di Lehman Brothers, è stato organizzato – principalmente dal Federal Reserve Board – un massiccio e senza precedenti tentativo di salvataggio governativo per salvaguardare gli asset di capitale. Questo includeva l’istituzione del “quantitative easing”, ovvero la stampa di moneta per stabilizzare il capitale finanziario, con l’iniezione di trilioni di dollari nel settore delle imprese.

All’interno dell’establishment economico emersero finalmente sia il riconoscimento evidente di decenni di stagnazione secolare – a lungo analizzata dagli economisti marxisti (e redattori di Monthly Review) Harry Magdoff e Paul Sweezy – che il riconoscimento della teoria della “instabilità finanziaria” secondo Hyman Minsky. Le deboli prospettive dell’economia statunitense, che puntavano a una continua stagnazione e finanziarizzazione, sono state riconosciute sia dagli analisti economici ortodossi che da quelli radicali.[50]

Ciò che più spaventava la classe capitalista statunitense durante la Grande crisi finanziaria era il fatto che, mentre l’economia statunitense e quelle di Europa e Giappone erano precipitate in una profonda recessione, l’economia cinese si era momentaneamente fermata per poi riprendersi e raggiungere una crescita prossima alle due cifre. Da quel momento in poi, il destino era chiaro: all’interno dell’economia mondiale l’egemonia statunitense stava rapidamente scemando, di pari passo con l’avanzata apparentemente inarrestabile di quella cinese, minacciando l’egemonia del dollaro e il potere imperiale del capitale monopolistico finanziario statunitense.[51]

La Grande recessione, sebbene abbia portato all’elezione a presidente degli Stati Uniti del democratico Barack Obama, ha visto l’improvvisa esplosione di un movimento politico di estrema destra basato principalmente sulla classe medio-bassa, che si opponeva ai salvataggi dei mutui per le case, ritenendo che questi andassero a beneficio della classe medio-alta e della classe operaia. Le radio conservatrici, che si rivolgevano al pubblico bianco della classe medio-bassa, si erano opposte, fin dall’inizio e durante la crisi, a tutti i salvataggi governativi durante la crisi.[52] Quello che sarebbe poi diventato noto come il movimento di estrema destra “Tea Party”, ha avuto inizio il 19 febbraio 2009. In quella data Rick Santelli, un commentatore della rete economica CNBC, si lanciò in una filippica su come il piano dell’amministrazione Obama per i salvataggi dei mutui per la casa fosse un piano socialista (che paragonò al governo cubano) per costringere le persone a pagare per gli acquisti di case scadenti e per le case di lusso dei loro vicini, violando i principi del libero mercato. Nella sua invettiva, Santelli menzionò il Boston Tea Party e nel giro di pochi giorni gruppi “Tea Party” si organizzarono in diverse zone del paese.[53]

Inizialmente il Tea Party rappresentava una tendenza libertaria finanziata dal grande capitale, in particolare dai grandi interessi petroliferi rappresentati dai fratelli David e Charles Koch – all’epoca tra i primi dieci miliardari degli Stati Uniti – insieme a quella che è nota come la rete Koch di ricchi individui, in gran parte associati al private equity. La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2010, Citizens United vs Federal Election Commission aveva eliminato la maggior parte delle restrizioni al finanziamento dei candidati politici da parte dei ricchi e delle aziende, consentendo al dark money di dominare la politica statunitense come mai prima d’allora. Ottantasette membri repubblicani del Tea Party sono stati eletti alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, per la maggior parte in distretti Gerrymandering in cui i democratici erano praticamente assenti. Marco Rubio, uno dei favoriti del Tea Party, è stato eletto in Florida al Senato degli Stati Uniti. Ben presto è apparso evidente che il ruolo del Tea Party non era quello di avviare nuovi programmi, ma di impedire il funzionamento del Governo Federale. Il suo più grande risultato è stato il Budget Control Act del 2011, che ha introdotto tetti massimi e sequestri volti a impedire aumenti della spesa federale a beneficio dell’intera popolazione (in contrapposizione ai sussidi alla spesa in conto capitale e militare a sostegno dell’impero), e che portò al blocco, simbolico, delle attività amministrative del 2013. Il Tea Party ha anche introdotto la teoria complottista razzista (nota come birtherism) secondo cui Obama sarebbe un musulmano nato all’estero.[54]

Il Tea Party, che non era tanto un movimento di base quanto, piuttosto, una manipolazione conservatrice basata sui media, ha comunque rivelato che si era creato un momento storico in cui era possibile, per i settori del capitale monopolistico finanziario, mobilitare la classe medio-bassa. Una classe, in maggioranza bianca, che aveva sofferto sotto il neoliberismo ed era – sulla base della propria ideologia connaturata – il settore più nazionalista, razzista, sessista e revanscista della popolazione statunitense. Questo strato era ciò che Mills aveva definito “la retroguardia” del sistema.[55] Composta da manager di basso livello, piccoli imprenditori, piccoli proprietari terrieri rurali, cristiani evangelici bianchi e simili, questa classe/strato medio-basso occupa una collocazione di classe contraddittoria nella società capitalista.[56] Con redditi generalmente ben al di sopra del livello mediano della società, la classe medio-bassa si trova al di sopra della maggioranza della classe operaia e al di sotto della classe medio-alta o dello strato professionale-manageriale. Ha livelli di istruzione inferiori, spesso si identifica con i rappresentanti del grande capitale, ed è caratterizzata dalla “paura di cadere” nel livello della classe operaia.[57] Storicamente, i regimi fascisti sorgono quando la classe capitalista si sente particolarmente minacciata e quando la democrazia liberale non è in grado di affrontare le fondamentali contraddizioni politico-economiche e imperiali della società. Questi movimenti si basano sulla mobilitazione della classe dirigente della classe medio-bassa (o piccola borghesia) insieme ad alcuni dei settori più privilegiati della classe operaia.[58]

Nel 2013, il Tea Party era in declino ma continuava a mantenere un notevole potere a Washington, attraverso l’House Freedom Caucus, istituito nel 2015.[59] Nel 2016, si sarebbe trasformato nel movimento Make America Great Again (MAGA) di Trump, a tutti gli effetti una formazione politica neofascista basata su una stretta alleanza tra settori della classe dominante statunitense e una classe medio-bassa, che ha portato alle vittorie di Trump nelle elezioni del 2016 e del 2024. Nel 2016 Trump ha scelto come compagno di corsa Mike Pence, membro del Tea Party e politico di estrema destra sostenuto da Koch. [60] Nel 2025, Trump avrebbe nominato Rubio, l’eroe del Tea Party, Segretario di Stato. Parlando del Tea Party, Trump ha dichiarato: «Quelle persone sono ancora lì. Non hanno cambiato le loro opinioni. Il Tea Party esiste ancora, solo che ora si chiama Make America Great Again».[61]

Il blocco politico MAGA di Trump non predica più il conservatorismo fiscale, che per la destra era stato un mero strumento per minare la democrazia liberale. Tuttavia, il movimento MAGA mantiene la sua ideologia revanscista, razzista e misogina orientata alla classe medio-bassa, oltre che a una politica estera nazionalista e militarista simile a quella dei Democratici. Il nemico unico che definisce la politica estera di Trump è la Cina in ascesa. Il neofascismo MAGA vede il riemergere del principio del leader, secondo cui le azioni del leader sono considerate inviolabili. Questo principio è stato accompagnato da un maggiore controllo del governo da parte della classe dominante, attraverso le sue fazioni più reazionarie. Nel fascismo classico, in Italia e Germania, la privatizzazione delle istituzioni governative (una nozione sviluppata sotto il nazismo) era associata a un aumento delle funzioni coercitive dello stato e a un’intensificazione del militarismo e dell’imperialismo.[62] In linea con questa logica generale, il neoliberismo ha costituito la base per l’emergere del neofascismo, e ne è scaturita una sorta di cooperazione che ha portato, alla fine, a un’alleanza neofascista-neoliberista che domina lo stato e i media di comunicazione, ed è radicata nelle più alte sfere della classe monopolista – capitalista.[63]

Oggi, il dominio diretto di una parte potente della classe dominante degli Stati Uniti  non può più essere negato. La base familiare-dinastica della ricchezza nei Paesi a capitalismo avanzato, nonostante i nuovi ingressi nel club dei miliardari, è stata dimostrata da recenti analisi economiche, in particolare da Thomas Piketty in Il capitale nel XXI secolo.[64] Coloro che sostenevano che il sistema era gestito da un’élite manageriale o da un amalgama di corporate rich – in cui coloro che accumulavano grandi fortune, le loro famiglie e le loro reti rimanevano sullo sfondo e la classe capitalista non aveva e non poteva avere una forte presa sullo stato – hanno avuto torto. La realtà odierna non è tanto quella della lotta di classe, quanto quella di una guerra di classe. Come ha dichiarato il miliardario Warren Buffett, «C’è una guerra di classe, d’accordo, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra e stiamo vincendo».[65]

La centralizzazione del surplus globale nella classe monopolista-capitalista statunitense ha creato un’oligarchia finanziaria senza pari, e gli oligarchi hanno bisogno dello stato. Ciò è vero soprattutto per il settore dell’alta tecnologia, che dipende profondamente dalla spesa militare statunitense e dalla tecnologia militare sia per i suoi profitti che per la sua stessa crescita tecnologica. Il sostegno a Trump è arrivato principalmente dai miliardari che hanno privatizzato le loro società (che non basavano la loro ricchezza su società pubbliche quotate in borsa e soggette a regolamentazione governativa), e in generale, dal private equity.[66] Tra i maggiori finanziatori della sua campagna del 2024 c’erano Tim Mellon (nipote di Andrew Mellon ed erede della fortuna bancaria dei Mellon); Ike Perlmutter, ex presidente della Marvel Entertainment; il miliardario Peter Thiel, cofondatore di PayPal e proprietario di Palantir, una società di sorveglianza e data mining sostenuta dalla CIA (il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance è un protetto di Thiel); Marc Andreessen e Ben Horowitz, due delle figure di spicco della finanza della Silicon Valley; Miriam Adelson, moglie di Sheldon Adelson, il defunto miliardario proprietario di casinò; il magnate delle spedizioni Richard Uihlein, erede della fortuna della birra Uihlein Schlitz-Brewing; ed Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, proprietario di Tesla, X e SpaceX, che ha fornito più di 250 milioni dollari alla campagna di Trump. Il dominio del dark money, superiore a tutte le elezioni precedenti, rende impossibile tracciare l’elenco completo dei miliardari che sostengono Trump. Tuttavia, è chiaro che gli oligarchi tecnologici sono stati il fulcro del suo sostegno.[67]

È importante notare che il sostegno a Trump da parte della classe capitalista e dagli oligarchi tecnologico-finanziari non proveniva dai Big Six [i sei monopoli] tecnologici principali: Apple, Amazon, Alphabet (Google), Meta (Facebook), Microsoft e (più recentemente) il leader della tecnologia IA, Nvidia. Al contrario, egli è stato il beneficiario dell’high tech della Silicon Valley, del private equity e delle compagnie petrolifere. Sebbene sia un miliardario, Trump è un semplice agente della trasformazione politico-economica della classe dominante che sta avvenendo dietro il velo di un movimento popolare nazional-populista. Come ha scritto il giornalista ed economista scozzese ed ex deputato del Partito Nazionale Scozzese George Kerevan, Trump è un «demagogo, ma è ancora solo un codice delle vere forze di classe».[68]

L’amministrazione Biden ha rappresentato principalmente gli interessi dei settori neoliberisti della classe capitalista, pur facendo alcune concessioni temporanee alla classe operaia e ai poveri. Prima della sua elezione aveva promesso a Wall Street che «nulla sarebbe fondalmentalmente cambiato» se fosse diventato presidente.[69] È stato quindi profondamente ironico che Biden abbia annunciato nel suo discorso di addio al Paese nel gennaio 2025: «Oggi in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza che minaccia letteralmente la nostra intera democrazia, i nostri diritti e le nostre libertà fondamentali e la possibilità per tutti di fare carriera». Questa “oligarchia”, ha dichiarato Biden, è radicata non solo nella «concentrazione di potere e ricchezza», ma anche nella «potenziale ascesa di un complesso tecnologico-industriale». Le fondamenta di questo potenziale complesso tecnologico-industriale che alimenta la nuova oligarchia, ha affermato, sono l’ascesa del “dark money” e dell’Intelligenza Artificiale incontrollata. Riconoscendo che la Corte Suprema degli Stati Uniti era diventata una roccaforte del controllo oligarchico, Biden ha proposto un limite di mandato di diciotto anni per i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti. Nessun presidente americano in carica dai tempi di Franklin D. Roosevelt ha sollevato con tanta forza la questione del controllo diretto della classe dominante sul governo degli Stati Uniti, ma nel caso di Biden, ciò è avvenuto al momento della sua partenza dalla Casa Bianca.[70]

Non è una novità che negli Stati Uniti ci sia un controllo oligarchico dello stato e che i commenti di Biden siano facili da liquidare, ma sono senza dubbio indotti dalla sensazione di un grande cambiamento in atto nello stato americano, con una presa di potere neofascista. La vicepresidente Kamala Harris, durante la campagna per le elezioni presidenziali, aveva apertamente descritto Trump come “fascista”.[71] Non si trattava solo di manovre politiche e del solito continuo cambio tra i partiti democratico e repubblicano nel duopolio politico statunitense. Nel 2021, la rivista Forbes ha stimato in 118 milioni di dollari il patrimonio netto dei membri del gabinetto di Biden.[72] Per contro, i vertici di Trump comprendono tredici miliardari, con un patrimonio netto complessivo, secondo Public Citizen, di ben 460 miliardi di dollari, tra cui Elon Musk con un patrimonio di 400 miliardi di dollari. Anche senza Musk, il miliardario gabinetto di Trump ha un patrimonio di decine di miliardi di dollari. L’amministrazione precedente di Trump aveva un patrimonio di 3,2 miliardi di dollari.[73]

Nel 2016, come ha notato Doug Henwood, i principali capitalisti statunitensi guardavano a Trump con un certo sospetto; nel 2025 l’amministrazione Trump è un regime di miliardari. La politica di estrema destra di Trump ha portato, secondo Forbes, i 400 personaggi più ricchi d’America all’occupazione diretta di posti di governo, con l’obiettivo di revisionare l’intero sistema politico statunitense. I tre uomini più ricchi del mondo si trovavano sull'affollato palco di Trump durante la sua seconda inaugurazione. Henwood vede questi sviluppi non come la rappresentazione una leadership più efficace da parte della classe dominante, ma come un segno del suo “marciume” interno.[74]

Nell’appendice al suo articolo “The Ruling Class Does Not Rule”, ristampato da Jacobin nel 2020, Block raffigurava Biden come un agente politico ampiamente autonomo all'interno del sistema statunitense. Block sosteneva che, a meno che Biden non istituisse una politica socialdemocratica volta a favorire la classe operaia – cosa che Biden aveva già promesso a Wall Street di non fare – alle elezioni del 2024 avrebbe vinto qualcuno peggiore di Trump.[75] Tuttavia, in una società capitalista  i politici non sono agenti liberi. Sono responsabili soprattutto nei confronti degli elettori. Come dice il proverbio, «chi paga il pifferaio sceglie la musica». Impediti dai loro grandi donatori di spostarsi, anche solo leggermente, a sinistra durante le elezioni, i democratici, schierando alla presidenza Kamala Harris, la vicepresidente di Biden, hanno perso perchè milioni di elettori della classe operaia – che avevano votato per Biden alle elezioni precedenti ed erano stati abbandonati dalla sua amministrazione – hanno abbandonato a loro volta i Democratici. Piuttosto che sostenere Trump, gli ex elettori democratici hanno soprattutto scelto di aderire al più grande partito politico degli Stati Uniti: il Partito dei Non Voters (non votanti).[76]

Ciò che è emerso è qualcosa di peggiore della semplice ripetizione del precedente mandato presidenziale di Trump. Il demagogico regime MAGA è il caso ampiamente visibile di governo politico della classe dominante, sostenuto dalla mobilitazione di un movimento revanscista, principalmente di classe medio-bassa, che costituisce uno stato neofascista, con un leader che ha dimostrato di poter agire impunemente e di essere in grado di oltrepassare le precedenti barriere costituzionali: una vera e propria presidenza imperiale. Trump e Vance hanno forti legami con la Heritage Foundation e con il suo reazionario Project 2025, che fa parte della nuova agenda MAGA.[77] La questione, ora, è fino a che punto può spingersi questa trasformazione politica della destra, e se sarà istituzionalizzata. Ciò dipenderà dall’alleanza tra classe dominante e MAGA, da un lato, e dalla gramsciana lotta per l’egemonia dal basso, dall’altro.

Il marxismo occidentale e la sinistra occidentale in generale hanno a lungo abbandonato la nozione di classe dominante, ritenendola troppo “dogmatica” o una facile “scorciatoia” per analizzare l’élite di potere. Questi punti di vista, pur conformandosi alle finezze intellettuali e al "camminare sul filo del rasoio" caratteristici del mondo accademico mainstream, trasmettono una mancanza di realismo, che è stata debilitante nella comprensione della necessità di lottare in un’epoca di crisi strutturale del capitale.

In un articolo del 2022 intitolato “The U.S. Has a Ruling Class and Americans Must Stand Up to It” (Gli Stati Uniti hanno una classe dominante e gli americani devono tenerle testa), Sanders ha sottolineato che,

I problemi economici e politici più importanti che questo Paese si trova ad affrontare sono gli straordinari livelli di disuguaglianza di reddito e di ricchezza, la rapida crescita della concentrazione della proprietà... e l’evoluzione di questo Paese verso l’oligarchia...

Oggi la disuguaglianza di reddito e di ricchezza è maggiore che in qualsiasi altro momento degli ultimi cento anni. Nel 2022, tre multimiliardari possiedono più ricchezza della metà inferiore della società americana (160 milioni di americani). Oggi, il 45% di tutti i nuovi redditi va all’1% più ricco e i CEO (amministratori delegati delle grandi aziende) guadagnano una cifra record, 350 volte superiore a quella dei lavoratori...

In termini di potere politico, la situazione è la stessa. Un piccolo numero di miliardari e di CEO, attraverso i loro Super Pac (Comitati per l’azione politica), il dark money e i contributi alle campagne elettorali, giocano un ruolo enorme nel determinare chi viene eletto e chi viene sconfitto. Sono sempre più numerose le campagne in cui i Super Pac spendono più soldi per le campagne elettorali rispetto ai candidati. Questi ultimi diventano così i burattini dei loro ricchi burattinai. Nelle primarie democratiche del 2022, i miliardari hanno speso decine di milioni per cercare di sconfiggere i candidati progressisti che si battevano per le famiglie dei lavoratori.[78]

In risposta alle elezioni presidenziali del 2024, Sanders ha sostenuto che l'apparato del Partito Democratico, che ha speso miliardi per perpetrare «una guerra contro l’intero popolo palestinese» abbandonando la classe operaia statunitense, ha visto quest'ultima scegliere il Partito dei Non Votanti. Centocinquanta famiglie miliardarie, ha sostenuto, hanno speso quasi 2 miliardi di dollari per influenzare le elezioni statunitensi del 2024. Ciò ha messo al potere, nel governo federale, un'oligarchia della classe dominante che non finge nemmeno più di rappresentare gli interessi di tutti. Nel combattere queste tendenze, Sanders ha dichiarato: «La disperazione non è un’opzione. Non stiamo combattendo solo per noi stessi. Stiamo combattendo per i nostri figli e per le generazioni future, e per il benessere del pianeta».[79]

Ma come combattere? Di fronte alla realtà di un’aristocrazia operaia dei principali stati monopolisti-capitalisti che si allineava con l’imperialismo, la soluzione di Lenin fu quella di andare più a fondo nella classe operaia, e allo stesso tempo di ampliarla, sostenendo la lotta di coloro che in ogni paese del mondo non hanno nulla da perdere se non le loro catene, e che si oppongono all’attuale monopolio imperialista.[80] In ultima analisi, il collegio elettorale dello stato neofascista della classe dominante di Trump è un esiguo 0,0001%, costituendo quella porzione del corpo politico degli Stati Uniti che il suo miliardario gabinetto può ragionevolmente rappresentare.[81]

Note

[1] Trascrizione integrale del discorso di addio del presidente Biden, New York Times,15.01.2025; Bernie Sanders, The US Has a Ruling Class - And Americans Must Stand Up to It, Guardian, 02.09.2022.

[2] James Burnham, The Managerial Revolution, Putnam and Co., Londra 1941; John Kenneth Galbraith, American Capitalism: The Concept of Countervailing Power, Riverside Press, Cambridge, Massachusetts, 1952; C. Wright Mills, The Power Elite, Oxford University Press, Oxford, 1956, pp. 147–70.

[3] Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Harper Brothers, New York, 1942, pp. 269–88; Robert Dahl, Who Governs?: Democracy and Power in an American City, Yale, New Haven, 1961; John Kenneth Galbraith, The New Industrial State, New American Library, New York, 1967, 1971.

[4] C. B. Macpherson, The Life and Times of Liberal Democracy, Oxford University Press, Oxford, 1977, pp. 77–92.

[5] Mills, The Power Elite, p. 170, 277.

[6] Paul M. Sweezy, Modern Capitalism and Other Essays, Monthly Review Press, New York, 1972, pp. 92–109; G. William Domhoff, Who Rules America, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1a edizione, 1967, pp. 7–8, 141–42.

[7] G. William Domhoff, The Power Elite and Its Critics, in C. Wright Mills and The Power Elite, a cura di G. William Domhoff e Hoyt B. Ballard, Beacon Press, Boston, 1968, p. 276.

[8] Nicos Poulantzas, Political Power and Social Classes, Verso, Londra, 1975; Ralph Miliband, The State in Capitalist Society, Quartet Books, Londra, 1969.

[9] Fred Block, The Ruling Class Does Not Rule: Notes on the Marxist Theory of the State, in Socialist Revolution, n. 33, maggio/giugno 1977, pp. 6-28. Nel 1978, l'anno successivo alla pubblicazione dell'articolo di Block, il titolo di Socialist Revolution fu cambiato in Socialist Review, riflettendo l'esplicito passaggio della rivista a una visione politica socialdemocratica.

[10] Fred Block, The Ruling Class Does Not Rule, ristampa del 2020 con nuove conclusioni, Jacobin, 24.04.2020.

[11] Peter Charalambous, Laura Romeo, and Soo Rin Kim, “Trump Has Tapped an Unprecedented 13 Billionaires for His Administration. Here’s Who They Are,” ABC News, December 17, 2024.

[12] Karl Marx, Early Writings, Penguin, Londra, 1974, p. 90.

[13] Karl Polanyi, Aristotle Discovers the Economy, in Trade and Market in the Early Empires: Economies in History and Theory, a cura di Karl Polanyi, Conrad M. Arensberg e Harry W. Pearson, The Free Press, Glencoe, Illinois, 1957, pp. 64–96.

[14] Ernest Barker, The Political Thought of Plato and Aristotle, Russell and Russell, New York, 1959, p. 317; John Hoffman, The Problem of the Ruling Class in Classical Marxist Theory, Science and Society 50, n. 3, Fall 1986, pp. 342–63.

[15] Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 58.

[16] Karl Marx, Il capitale, Libro primo, in Marx Engels, Opere vol. 30, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2022, pp. 245-250, 301-306.

[17] Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1964

18] Karl Kautsky citato da Miliband, The State in Capitalist Society, p. 51.

[19] Ralph Miliband, Parliamentary Socialism: A Study in the Politics of Labor, Monthly Review Press, New York, 1961.

[20] Miliband, The State in Capitalist Society, pp. 16, 29, 45, 51–52, 55.

[21] Nicos Poulantzas, The Problem of the Capitalist State, in Ideology in Social Science: Readings in Critical Social Theory, a cura di Robin Blackburn, Vintage, New York, 1973, p. 245.

[22] Ralph Miliband, Reply to Nicos Poulantzas,” in Ideology in Social Science, a cura di Blackburn, pp. 259–60.

[23] Nicos Poulantzas, State, Power, Socialism, New Left Books, Londra, 1978; Karl Marx e Friedrich Engels, Writings on the Paris Commune, Monthly Review Press, New York, 1971; V. I. Lenin, Collected Works, Progress Publishers, Mosca, senza data, vol. 25, pp. 345-539. Sul passaggio di Poulantzas alla socialdemocrazia, vedi Ellen Meiksins Wood, The Retreat from Class, Verso, Londra, 1998, pp. 43–46.

[24] Domhoff, Who Rules America?, edizione del 1967, pp. 1–2, 3; Paul M. Sweezy, The Present as History, Monthly Review Press, New York, 1953, pp. 120–38.

[25] G. William Domhoff, The Powers That Be: Processes of Ruling-Class Domination in America, Vintage, New York, 1978, p. 14.

[26] G. William Domhoff, Who Rules America?, Routledge, Londra, 8a edizione, 2022, pp. 85–87. Nell'edizione del 1967 del suo libro, Domhoff aveva criticato il fatto che Mills avesse accorpato i ricchi (i proprietari) e i manager nella categoria dei ricchi d'impresa, cancellando così questioni determinanti. Domhoff, Who Rules America?, edizione del 1967, p. 141. Sul concetto di praticità liberale si veda C. Wright Mills, The Sociological Imagination”, Oxford, New York, 1959, pp. 85–86; John Bellamy Foster, Liberal Practicality and the U.S. Left, in Socialist Register 1990: The Retreat of the Intellectuals, a cura di Ralph Miliband, Leo Panitch e John Saville, Merlin Press, Londra, 1990, pp. 265–89.

[27] Stanislav Menshikov, Millionaires and Managers, Progress Publishers, Mosca, 1969, pp. 5–6.

[28] Menshikov, Millionaires and Managers, p. 7, 321.

[29] Sweezy, The Present as History, pp. 158–88.

[30] Menshikov, Millionaires and Managers, p. 322.

[31] Menshikov, Millionaires and Managers, pp. 324–25.

[32] Menshikov, Millionaires and Managers, pp. 325, 327.

[33] Menshikov, Millionaires and Managers, pp. 323–24.

[34] Block, The Ruling Class Does Not Rule, pp. 6–8, 10, 15, 23; Max Weber, Economy and Society, vol. 2, University of California Press, Berkeley, 1978, pp. 1375-80.

[35] Block, The Ruling Class Does Not Rule, pp. 9–10, 28.

[36] Wood, The Retreat from Class.

[37] Geoff Hodgson, The Democratic Economy: A New Look at Planning, Markets and Power, Penguin, Londra,1984, p. 196.

[38] Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Monopoly Capital, Monthly Review Press, New York, 1966, p. 339.

[39] Baran e Sweezy, Monopoly Capital, p. 155.

[40] Sull'età d'oro del capitalismo vedi Eric Hobsbawm, The Age of Extreme, Vintage, New York, 1996, pp. 257–86; Michael Perelman, Railroading Economics: The Creation of the Free Market Mythology, Monthly Review Press, New York, 2006, pp. 175–98.

[41] Baran e Sweezy, Monopoly Capital, p. 108, 336.

[42] Sulla stagnazione economica, la finanziarizzazione e la ristrutturazione, si veda Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Stagnation and the Financial Explosion, Monthly Review Press, New York, 1986; Joyce Kolko, Restructuring World Economy, Pantheon, New York, 1988; John Bellamy Foster e Robert W. McChesney, The Endless Crisis, Monthly Review Press, New York, 2012.

[43] Lewis F. Powell, Confidential Memorandum: Attack on the American Free Enterprise System, 23.08.1971, Greenpeace, greenpeace.org; John Nichols e Robert W. McChesney, Dollarocracy: How the Money and Media Election Complex Is Destroying America, Nation Books, New York, 2013, pp. 68–84.

[44] Robert Frank, ‘Robin Hood in Reverse’: The History of a Phrase, CNBC, 07.08.2012.

[45] John Kenneth Galbraith, The Affluent Society, New American Library, New York, 1958, pp. 78–79.

[46] See Fred Magdoff e John Bellamy Foster, The Great Financial Crisis, Monthly Review Press, New York, 2009.

[47] John Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review Press, New York, 2016; Intan Suwandi, Value Chains: The New Economic Imperialism, Monthly Review Press, New York, 2019. L'applicazione di criteri di finanziarizzazione alle aziende ha alimentato le ondate di fusioni degli anni '80 e '90, con ogni sorta di acquisizioni ostili di aziende “sottoperformanti” o “sottovalutate”, che spesso portavano alla cannibalizzazione dell'azienda e alla vendita di sue parti al miglior offerente.. Si veda Perelman, Railroading Economics, pp. 187–96.

[48] István Mészáros, The Structural Crisis of Capital, Monthly Review Press, New York, 2010.

[49] Vedi Fred Magdoff e John Bellamy Foster, Grand Theft Capital: The Increasing Exploitation and Robbery of the U.S. Working Class, Monthly Review 75, n. 1, maggio 2023, pp. 1–22.

[50] Vedi John Cassidy, How Markets Fail: The Logic of Economic Calamities, Farrar, Straus, and Giroux, New York, 2009; James K. Galbraith, The End of Normal, Simon and Schuster, New York, 2015; Foster e McChesney, The Endless Crisis; Hans G. Despain, Secular Stagnation: Mainstream Versus Marxian Traditions, Monthly Review 67, n. 4, settembre 2015, pp. 39–55.

[51] John Bellamy Foster e Brett Clark, Imperialism in the Indo-Pacific, Monthly Review 76, n. 3, luglio-agosto 2024, pp. 6–13, trad.it. Imperialismo nell'Indo-Pacifico: un'introduzione, Antropocene.org, 26.07.2024.

[52] Matthew Bigg, Conservative Talk Radio Rails against Bailout, Reuters, 26.09.2008.

[53] Geoff Kabaservice, The Forever Grievance: Conservatives Have Traded Periodic Revolts for a Permanent Revolution, Washington Post, 04.12.2020; Michael Ray, The Tea Party Movement, Encyclopedia Britannica, 16.01.2025, britannica.com; Anthony DiMaggio, The Rise of the Tea Party: Political Discontent and Corporate Media in the Age of Obama, Monthly Review Press, New York, 2011.

[54] Kabaservice, The Forever Grievance; Suzanne Goldenberg, Tea Party Movement: Billionaire Koch Brothers Who Helped It Grow, Guardian, 13.10.2010; Doug Henwood, Take Me to Your Leader: The Rot of the American Ruling Class, Jacobin, 27.04.2021.

[55] C. Wright Mills, White Collar, Oxford University Press, New York, 1953, pp. 353–54.

[56] Sul concetto di contraddittorie collocazioni di classe, vedi Erik Olin Wright, Class, Crisis and the State, Verso, Londra, 1978, pp. 74–97.

[57] Barbara Ehrenreich, Fear of Falling: The Inner Life of the Middle Class, HarperCollins, New York, 1990; Nate Silver, The Mythology of Trump’s ‘Working Class’ Support, ABC News, 03.05.2016; Thomas Ogorzalek, Spencer Piston e Luisa Godinez Puig, White Trump Voters Are Richer than They Appear, Washington Post, 12.11.2019.

[58] L'analisi si basa su, John Bellamy Foster, Trump in the White House, Monthly Review Press, New York, 2017.

[59] Kabaservice, The Forever Grievance.

[60] Liza Featherstone, It’s a Little Late for Mike Pence to Pose as a Brave Dissenter to Donald Trump, Jacobin, 08.01.2021.

[61] Trump, citazione in, Kabaservice, The Forever Grievance.

[62] Foster, Trump in the White House, pp. 26–27.

[63] Karl Marx, Herr Vogt: A Spy in the Worker’s Movement, New Park Publications, Londra, 1982, p. 70.

[64] Thomas Piketty, Capital in the Twenty-First Century, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2014, pp. 391–92.

[65] Warren Buffett, citazione in, Nichols e McChesney, Dollarocracy, p. 31.

[66] Sul crescente ruolo del private equity nell'economia, vedi Allison Heeren Lee, Going Dark: The Growth of Private Markets and the Impact on Investors and the Economy, U.S. Securities and Exchange Commission, 12.10.2021, sec.gov; Brendan Ballou, Plunder: Private Equity’s Plan to Pillage America, Public Affairs, New York, 2023; Gretchen Morgenson e Joshua Rosner, These Are the Plunderers: How Private Equity Runs-and Wrecks-America, Simon and Schuster, New York, 2023.

[67] George Kerevan, The American Ruling Class Is Shifting Towards Trump, Brave New Europe, 19.07.2024, braveneweurope.com; Anna Massoglia, Outside Spending on 2024 Elections Shatters Records, Fueled by Billion-Dollar ‘Dark Money’ Infusion, Open Secrets, 05.11.2024, opensecrets.org.

[68] Kerevan, The American Ruling Class Is Shifting Towards Trump.

[69] Igor Derysh, Joe Biden to Rich Donors: ‘Nothing Would Fundamentally Change’ If He’s Elected, Salon, 19.06.2019.

[70] Biden, Full Transcript of President Biden’s Farewell Address.

[71] Will Weissert e Laurie Kellman, What is Fascism? And Why Does Harris Say Trump is a Fascist?, Associated Press, 24.10.2024.

[72] Dan Alexander e Michela Tindera, The Net Worth of Joe Biden’s Cabinet, Forbes, 29.06.2021.

[73] Rick Claypool, Trump’s Billionaire Cabinet Represents the Top 0.0001%, Public Citizen, 14.01.2025, citizen.org; Peter Charalambous, Laura Romero e Soo Rin Kim, Trump Has Trapped and Uprecedented 13 Billionaires for his Administration. Here’s Who They Are, ABC News, 17.12.2024.

[74] Adriana Gomez Licon e Alex Connor, Billionaires, Tech Titans, Presidents: A Guide to Who Stood Where at Trump’s Inauguration, Associated Press, 21.01.2025; Doug Henwood, Take Me to Your Leader: The Rot of the American Ruling Class, Jacobin, 27.04.2021.

[75] Block, The Ruling Class Does Not Rule, ristampa con nuove conclusioni, 2020.

[76] Domenico Montanaro, Trump Falls Just Below 50% in Popular Vote, But Gets More Than in Past Election, National Public Radio, 03.12.2024, npr.org; Redazione, Notes from the Editors, Monthly Review 76, n. 8, gennaio 2025. Sul significato storico e teorico del "partito dei non votanti", vedi Walter Dean Burnham, The Current Crisis in American Politics, Oxford University Press, Oxford, 1983.

[77] Kerevan, The American Ruling Class Is Shifting Towards Trump; Alice McManus, Robert Benson e Sandana Mandala, Dangers of Project 2025: Global Lessons in Authoritarianism, Center for American Progress, 09.10.2024.

[78] Bernie Sanders, The US Has a Ruling Class-And Americans Must Stand Up to It.

[79] Bernie Sanders, Bernie’s Statement about the Election, Occupy San Francisco, 07.11.2024, occupysf.net; Jake Johnson, Sanders Lays Out Plan to Fight Oligarchy as Wealth of Top Billionaires Passes $10 Trillion, Common Dreams, 31.12.2024.

[80] V. I. Lenin, Collected Works, vol. 23, Progress Publishers, Mosca, senza data, p. 120.

[81] Claypool, Trump’s Billionaire Cabinet Represents the Top 0.0001%.

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