07/06/2025
Porto di Genova: una grande mobilitazione popolare e operaia contro le navi della morte ed il genocidio in Palestina
I portuali francesi avevano già bloccato a Marsiglia 14 tonnellate di componenti per mitragliatrici destinate all’esercito israeliano. A Genova abbiamo voluto dire che anche il nostro porto non sarà complice del genocidio in Palestina.
Grazie ai portuali marsigliesi la nave è arrivata vuota. Ma sappiamo che ogni nave ZIM è un anello della catena della guerra. E sappiamo che la logistica italiana – con i porti, gli scali e i depositi militari – è sempre più coinvolta nel traffico di morte.
A Genova si è poi mosso un corteo determinato dentro il porto, per ribadire il blocco al traffico di armi e la solidarietà militante al popolo palestinese.
È il secondo corteo portuale in pochi mesi, dopo quello dello scorso novembre: un segnale forte, concreto, che arriva dai luoghi strategici della produzione e della logistica.
Questa giornata dimostra una cosa semplice: se i portuali si coordinano, se gli operai alzano la testa, se la solidarietà si organizza, allora è possibile fermare il flusso delle armi.
È possibile dire NO alla guerra, NO al riarmo, NO all’economia di morte.
È il momento di alzare il livello dello scontro.
Il 20 giugno costruiamo insieme lo sciopero generale contro la guerra, il carovita, lo sfruttamento.
Il 21 giugno saremo a Roma, in piazza Vittorio Emanuele alle ore 14, per una grande manifestazione nazionale.
Fermare la guerra è un compito nostro.
Blocchiamo le armi, costruiamo la pace con la lotta.
USB – Unione Sindacale di Base
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Marx e il quesito referendario sulla cittadinanza
In esso Marx, parlando di “esercito industriale di riserva”, secondo questi opinionisti appartenenti prevalentemente all’area “rossobruna”, inviterebbe a demonizzare coloro che stanno peggio di noi e bloccarli alla frontiera perché, con il loro numero, contribuirebbero a “fare diminuire i salari”.
Talmente diffusa la citazione di questo presunto scritto che sembra l’abbia pubblicato davvero Marx e non sia, invece, una distorsione fatta da gente ignorante.
Marx parla di esercito industriale di riserva a prescindere dal fenomeno migratorio, come un elemento strutturale del capitalismo.
Ma, soprattutto, nella famosa lettera che molte di queste persone citano (quella del 1870 inviata a S. Meyer e A. Vogt), dove egli parla del fenomeno migratorio irlandese in Inghilterra, non sostiene MAI che sia necessario “contrastare l’immigrazione”.
Dice invece che i lavoratori irlandesi, costretti a fuggire per via dello sfruttamento materiale dell’Irlanda da parte dei capitalisti inglesi, si vanno a scontrare con gli operai inglesi perchè si vedono reciprocamente come concorrenti, e che questo FA IL GIOCO DELLA BORGHESIA INGLESE:
«Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo.»Invece di proporre ostilità verso chi scappa dal proprio Paese, dunque, Marx sottolinea come questa stessa ostilità sia generata dalla classe dominante. Dice, insomma, che la classe dominante fa esattamente quello che state facendo voi in questo momento: fomentare la guerra tra poveri per legittimare le leggi economiche del mercato della domanda e dell’offerta INVECE DI ATTACCARE CHI I SALARI LI DECIDE (i padroni).
Strano, eh? Un uomo che ha combattuto tutta la vita per l’unità dei lavoratori di tutto il mondo tanto da farne lo slogan del suo pensiero invoca l’unità tra “l’esercito industriale di riserva” e gli operai della madrepatria, mica il contrasto al primo.
Strano che questi opinionisti usino sempre la locuzione, decontestualizzata, “esercito industriale di riserva” e mai “proletari di tutto il mondo, unitevi!”, parola d’ordine notoria e priva di ambiguità di Karl Marx, che rappresenta la lotta di classe comune contro gli sfruttatori di lavoratori “domestici” e stranieri, vera chiamata all’azione e soluzione per i marxisti.
Eh già, perchè Marx, stranamente, attacca chi del mercato beneficia decidendo al ribasso i salari, mica chi dal mercato viene affossato ricevendo salari bassi.
Se tutto ciò vi sembra strano, smettetela di ammantare il vostro razzismo e nazionalismo strisciante di citazioni filosofiche vere o presunte.
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La BCE approva un altro taglio dei tassi d'interesse e avverte che potrebbe essere l’ultimo
Il riferimento è a investimenti deboli e alle tensioni commerciali legate ai dazi statunitensi: fenomeni che possono rallentare ulteriormente una crescita già in difficoltà. Ma, stando alle parole della presidente della BCE, ora l’istituto si trova in una “buona posizione per navigare nell’incertezza che è all’orizzonte”.
Infatti, secondo le proiezioni degli esperti, “l’inflazione complessiva si collocherebbe in media al 2,0% nel 2025, all’1,6% nel 2026 e al 2,0% nel 2027”, rientrando dunque definitivamente nel target del 2% posto come valore adeguato in un’economia capitalistica. Tali analisi “riflettono le ipotesi di prezzi dell’energia inferiori e di un rafforzamento dell’euro”.
Se le proiezioni sull’inflazione sono state riviste, quelle sulla crescita sono rimaste quasi invariate: +0,9% quest’anno, +1,1% da 1,2% nel 2026, +1,3% nel 2027. Per Lagarde, la manifattura si è in parte ripresa dagli ultimi terremoti, ma “i servizi più orientati al mercato domestico stanno rallentando” e “i dazi e l’euro più forte rendono più difficile per le aziende esportare”.
Il quadro delineato è ancora critico per il modello europeo, fondato sulle esportazioni. Per questo la decisione di abbassare ancora il costo del denaro, con Lagarde che ha fatto presente che la decisione è stata presa “quasi all’unanimità”, con un solo membro del Consiglio Direttivo che si è opposto.
Non è la prima volta che dentro la BCE le opinioni su come comportarsi riguardo all’andamento dei tassi non collimano, ma questa volta anche le parole della sua presidente sembrano indicare un possibile stop ai tagli. Lagarde ha detto che siamo “alla fine di un ciclo di politica monetaria che rispondeva a degli shock che si sono sommati l’un l’altro, incluso il Covid, la guerra in Ucraina e la crisi energetica”.
La prossima riunione del Consiglio si avrà il 24 luglio e secondo molti esperti del settore la BCE potrebbe lasciare invariati i tassi, per poi riprendere con un ulteriore taglio a settembre. È evidente, però, che Francoforte voglia attendere l’esito delle trattative sui dazi tra USA e UE, considerato che il 9 luglio dovrebbero entrare definitivamente in vigore.
Gli economisti della BCE hanno sottolineato che “un ulteriore acuirsi delle tensioni commerciali nei prossimi mesi determinerebbe livelli di crescita e di inflazione inferiori a quelli dello scenario di base delle proiezioni”. Con i dazi del 20% sulle merci europee, del 120% sulle merci cinesi, e con le ritorsioni UE, il PIL dell’area euro potrebbe calare dello 0,4% quest’anno e dello 0,5% il prossimo.
La BCE ha ribadito che continuerà a muoversi incontro per incontro, decidendo sui dati, ma il passaggio delle trattative sui dazi sarà centrale per capire se davvero la politica monetaria si stabilizzerà.
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Trump telefona a Xi
Dopo quella, formale, con la quale Xi Jinping, il 17 gennaio scorso, si congratulò per il ritorno alla Casa bianca di Donald Trump, la telefonata di 90 minuti di ieri ha rappresentato il primo vero confronto tra i presidenti di Cina e Stati Uniti, in un contesto mai così teso tra i due paesi negli ultimi anni.
Più volte annunciata da Tariff Man negli ultimi mesi, la comunicazione era stata rimandata a lungo, anche perché la diplomazia di Pechino ha assistito con sconcerto alle due “imboscate” a favore di telecamere tese da Trump al presidente ucraino, Volodymyr Zelenski, e al sudafricano Cyril Ramaphosa, e ha voluto concordare il copione da seguire nei minimi dettagli, in modo che la comunicazione tra il numero uno della potenza in ascesa e il capo di quella in declino procedesse senza sbavature. Soprattutto, così come per il summit Cina-Usa dell’11 maggio scorso a Ginevra, i cinesi hanno puntualizzato che sono stati gli americani a richiederla ufficialmente.
Xi ha utilizzato la telefonata per ricordare ai cinesi che lui è un quasi-imperatore, mentre l’altro tra meno di quattro anni dovrà sloggiare da Capitol Hill; e per confermare la validità delle sue politiche. «Trump ha espresso grande rispetto per il presidente Xi Jinping, sottolineando che le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono di grande importanza. Gli Stati Uniti accolgono con favore la continua e forte crescita economica della Cina», ha riferito la CCTV.
I due presidenti si sono scambiati l’invito a visitare al più presto i rispettivi paesi.
Pechino non aveva fretta di confrontarsi col supereroe dei dazi, perché in risposta al suo sfoggio di muscoli ha utilizzato “l’arma fine di mondo” del monopolio delle terre rare (fondamentali in una vasta gamma di prodotti hi-tech, tra cui i caccia F-35), centellinandone l’esportazione.
Inoltre, come in altri momenti difficili nelle relazioni sino-statunitensi (vedi il fallito tentativo di Bill Clinton di togliere alla Cina lo status di “nazione più favorita nel commercio”), ha utilizzato corporate America per ammansire Trump. E così, nei giorni scorsi, mentre a Washington le organizzazioni imprenditoriali statunitensi lanciavano la China Business Conference per convincere Trump a garantire il futuro dei fornitori cinesi, Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, volava in Cina per esprimere al vicepremier, He Lifeng, l’auspicio di ulteriori investimenti nel paese.
Infine, da quando Trump ha imposto tariffe urbi et orbi, la Cina alfiere del libero commercio – secondo uno studio della compagnia d’intelligence Usa Morning Consult – ha un rating favorevole netto di 8,8, rispetto a -1,5 per gli Stati Uniti, un’inversione netta rispetto a gennaio 2024, quando la valutazione degli Stati Uniti era superiore a 20 e quello della Cina era in territorio negativo.
Dopo la comunicazione di ieri, Trump ha ostentato il suo incrollabile ottimismo: la chiamata «è risultata in una conclusione molto positiva per entrambi i paesi», ha assicurato. Quale? Bisognerà attendere i prossimi giorni per capirlo.
Secondo il presidente Usa, il flusso di terre rare dalla Cina riprenderà regolare: «Non dovrebbero più esserci dubbi sulla complessità dei prodotti derivati dalle terre rare. I nostri rispettivi team si incontreranno a breve».
Nel comunicato cinese si afferma che «a Trump fa piacere che i giovani cinesi vadano a studiare negli Stati Uniti», ma non si fa accenno alle terre rare. In quello statunitense si sostiene che Pechino si impegna a riprendere l’export regolare delle terre rare, ma non si parla degli universitari cinesi.
Forse hanno ragione entrambi: l’apparente discrasia è solo un modo – concordato – di mettere in risalto il risultato ottenuto, nascondendo la concessione fatta all’avversario.
Inoltre, secondo Trump si è parlato praticamente solo di commercio, mentre Xinhua riporta che «Xi ha sottolineato che gli Stati Uniti devono gestire la questione di Taiwan con prudenza, affinché i separatisti estremisti che vogliono “l’indipendenza di Taiwan” non trascinino la Cina e gli Stati Uniti nel pericoloso terreno dello scontro e persino del conflitto. [...] Trump ha affermato che gli Stati Uniti rispetteranno la politica di una sola Cina».
Durante la chiamata, Xi ha invitato Stati Uniti e Cina a «cercare risultati vantaggiosi per tutti in uno spirito di uguaglianza e nel rispetto reciproco delle rispettive preoccupazioni», esortando Washington a «rimuovere le misure negative adottate contro la Cina». «Ricalibrare la direzione della gigantesca nave delle relazioni Cina-Usa richiede che prendiamo il timone e impostiamo la rotta giusta», ha detto Xi alla controparte statunitense.
Dopo la tregua di 90 giorni sottoscritta tre settimane fa tra le due amministrazioni a Ginevra – che ha sospeso la maggior parte dei super-dazi reciproci sulle importazioni di merci – Trump aveva accusato Pechino di aver “violato” quell’accordo (probabilmente in riferimento ai controlli sull’export di terre rare da parte della Cina, non oggetto di quell’intesa) e aveva rilanciato imponendo restrizioni all’export in Cina di macchinari per la progettazione di microchip e attraverso l’annuncio del segretario di stato, Marco Rubio, sulla revoca dei visti ai cinesi studenti negli Usa “legati al partito comunista” o che si occupano di “materie sensibili”. La tensione era insomma salita alle stelle, con tanto di retorica da caccia alle streghe maccartista.
Ora secondo Pechino quello raggiunto nella città svizzera è un “buon accordo” e «gli Stati Uniti lavoreranno con la Cina per applicarlo».
Insomma si riparte da lì. Ma per Trump, che ha già dovuto cedere sulla tempistica del dialogo, sarà altrettanto difficile portare a casa risultati sostanziali per quanto riguarda i suoi contenuti. Pechino infatti pretende – prima di eventualmente sedersi a un tavolo per discutere un accordo commerciale con Washington – la rimozione di tutte le tariffe rimaste in vigore sulle sue importazioni negli Usa, che ammontano complessivamente al 45,3 per cento, più che sufficienti per scoraggiare e in parte bloccare l’esportazione di prodotti cinesi negli Usa.
Si tratta di dazi unilaterali, contrari alle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio. Se non otterrà la rimozione totale o almeno della gran parte di questo restante 45,3 per cento, la Cina potrebbe riprendere a “reciprocare”: la guerra commerciale cioè ripartirebbe, con effetti devastanti non solo sui produttori e gli esportatori cinesi, ma anche sugli importatori e sui consumatori americani.
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Militari israeliani in “libera uscita” in Italia
L’IDF, insomma, cerca varie strategie per mandare in decompressione i propri soldati alle prese con droni che valicano corridoi e scale e che per colpirne uno ne ammazzano altri dieci, venti o trenta, spesso bambini. In patria sono stimati in almeno 6.500 quelli sottoposti a percorsi di psicoterapia ovvero in un breve periodo, tre volte tanto le terapie somministrate in tutto il 2022 (fonte: ministero israeliano ripresa in Italia dall’agenzia Nova).
Il centro di riabilitazione psichiatrica del Ministero della Difesa di Israele assiste più di 64.000 soldati, tra cui 8.000 affetti da disturbi da stress post-traumatico. Per alcuni invece, l’anomalo pacchetto turistico è stato organizzato da un’agenzia marchigiana specializzata proprio in “itinerari ebraici marchigiani” che facendo tappa fissa tra Fermo e Porto S. Giorgio, ha poi raggiunto anche mete naturalistiche di grande pregio come la riviera del Conero o le grotte di Frasassi, entrambe a poca distanza una dall’altra.
Dalla nostra inchiesta giornalistica emergono diverse testimonianze dirette che raccontano di gruppi di giovani israeliani, con la kippah indosso, che hanno girato di recente le Marche apprezzandone i numerosi siti naturalistici e culturali, bellissimi e rilassanti, ma soprattutto un po’ più “defilati” rispetto a città d’arte come Roma o Firenze.
A parte le guide che hanno aperto le porte di sinagoghe semisconosciute e altri luoghi di interesse ebraico, le altre persone che non indossavano la kippah erano appunto gli agenti della DIGOS.
Questi turisti con particolari esigenze di riservatezza “vengono presentati agli albergatori – ci ha rivelato la fonte presso una di queste agenzie specializzate – con nomi di fantasia e solo all’ultimo con quello reale, al momento della loro registrazione. Nei siti naturalistici e culturali – ha aggiunto – si può accedere in via riservata con visite a loro dedicate, in via del tutto esclusiva”.
Più di una guida, incuriosita dagli insoliti gruppi con scorta al seguito, ci ha confermato la loro presenza nel fermano e il fatto che non fossero dei semplici cittadini israeliani, ma appunto, dei militari in libera uscita “defatigante”.
“Sono guida ambientale AIGAE” ci ha rivelato la nostra fonte “e lavoro da anni tra il Parco del Conero e quello dei Sibillini. A inizio dicembre 2024, mentre stavo a Sirolo sul Conero per lavoro, ho visto in paese un gruppo di giovani dai tratti mediorientali, alcuni dei quali indossavano la kippah. Con loro un uomo di età più matura. Erano accompagnati da un italiano mio conoscente. Incontrandolo ho chiesto chi fossero e mi ha risposto che erano dei militari israeliani che sotto la copertura di semplicsii turisti stranieri, trascorrevano un periodo di vacanza nelle Marche, dopo essere stati impiegati in servizi operativi a Gaza. Poi sarebbero tornati in servizio. Un periodo di decompressione dallo stress del combattimento. Durante la loro permanenza nelle Marche, venivano accompagnati in altre località naturalistiche e città d’arte della regione”.
La Regione Marche, dove ad Ancona e in altri centri minori, sono attive alcune delle più antiche comunità ebraiche italiane, con una legge regionale ha istituito del 2021, proprio l’“Itinerario Ebraico Marchigiano” che mette a sistema il patrimonio ebraico di 25 Comuni tra i quali Fermo, dove sembrerebbe abbiano fatto tappa fissa i giovani dell’IDF.
I militi ebrei insomma, per superare i traumi dei massacri perpetrati pochi giorni prima contro donne e bambini palestinesi, si ritemprano, lontani da occhi e orecchie indiscrete, con le bellezze italiche di una regione che ha dato i natali a musicisti, pittori, scrittori e architetti del calibro di Rossini, Raffaello, Leopardi e Vanvitelli, solo per citarne alcuni.
D’altra parte, l’Itinerario Ebraico Marchigiano rappresenta uno dei tanti tasselli di iniziative sparse finalizzate a riscoprire le radici comuni delle comunità giudaico-cristiane nel quadro di un dialogo interreligioso dove spicca, per iniziative di rilievo e organizzazione, il Cammino Internazionale Neocatecumenale, con sede proprio tra Porto S. Giorgio e Fermo.
Ma è invece in Galilea dove, sul Monte delle Beatitudini, vicino al lago di Tiberiade, viene ospitata la cosiddetta Domus Galilaee, il Cammino Internazionale Neocatecumenale, esattamente dieci anni fa, si è reso protagonista dell’incontro forse più significativo della storia delle due religioni, cristiana ed ebraica: 120 rabbini provenienti da ogni parte del mondo si sono incontrati con laici e religiosi cristiani, tra i quali 20 vescovi e 7 cardinali.
Il tentativo, più che lodevole, di avvicinare le due religioni prosegue tuttora anche con visite svolte presso la Domus Galilaee addirittura dell’esercito israeliano. “A scaglioni vengono a visitare il nostro centro”, ci spiega il direttore, don Rino Rossi “incuriositi dalla struttura, ma soprattutto per conoscere la fede cristiana”. Una curiosità che deve aver contagiato anche un alto ufficiale dell’IDF, che visitando la Domus “ne è rimasto impressionato”.
Ciò che sorprende, però, vista la vicinanza tra questo centro di preghiera e i luoghi ad altissima intensità bellica, dove l’esercito insieme a coloni ebrei ultra-ortodossi sta spianando interi villaggi palestinesi in Cisgiordania, imprigionando decine di migliaia di persone attraverso l’abuso della cosiddetta detenzione amministrativa, è che la realtà del momento non traspare in nessun modo nelle parole dei responsabili del Cammino intervistati.
Nemmeno le notizie di guerra in un periodo tragico come quello recentissimo, intorno ai giorni di Pasqua, hanno fatto sì che durante l’incontro che ha coinvolto nella Domus 250, tra vescovi e arcivescovi, provenienti dai cinque continenti, per un totale di 500 persone tra laici e religiosi da tutto il mondo, si facesse il minimo cenno a un dialogo interreligioso che comprendesse, in maniera sistematica e concreta, la terza più importante religione monoteista al mondo, quella mussulmana, ampiamente maggioritaria, proprio lì, in Medio Oriente: insomma un dialogo interreligioso a dir poco sbilanciato verso la sola riscoperta delle comuni radici culturali giudaico-cristiane, considerato che musulmani e i cristiani rappresentano, ognuna, una fetta di circa il 30% della popolazione mondiale, mentre l’ebraismo sfiora lo 0,2%.
Leggendo il sito web ufficiale della location neocatecumenale di Porto S. Giorgio, l’unico scossone emotivo degno di essere riportato nella newsletter è stata la morte di Bergoglio.
Il cammino neocatecumenale, per quanto riguarda il dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani, secondo le testimonianze rilasciate al telefono dai responsabili, è molto attivo in numerosi Paesi del mondo, tra i quali gli USA, dove si cita anche un memorabile concerto a New York offerto dalla comunità ebraica locale.
Per quanto riguarda invece un’eventuale accoglienza in Italia di ebrei organizzati in gruppi, tutte le fonti laiche e religiose intervistate si sono trincerate dietro un generico “no-comment”; anzi, di eventuali presenze sul territorio marchigiano di gruppi provenienti da Israele non se ne vuole proprio parlare.
Su un piano invece laico, accademico e strategico-militare, prosegue a gonfie vele l’impegno dell’Italia, in questo caso lontano dai riflettori mediatici, in sostegno attivo all’IDF. È di non molte settimane fa, infatti, la notizia riportata da “Il Manifesto”, dell’ennesimo carico di armi che il tribunale del riesame di Ravenna ha definitivamente bloccato in porto confermando la sentenza di sequestro di 14 tonnellate di componenti per un valore di 250 mila euro.
La fornitura proveniva dalla Valforge di Lecco ed era destinata alla IMI System, principale produttore di armi e munizioni per l’esercito israeliano. Il tutto in violazione di quel che resta della legge 185 del 1990 e senza essere iscritta nell’infame registro nazionale degli esportatori di sistema d’armamento.
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Referendum 8-9 giugno: 5 SÌ contro lo sfruttamento. Ma solo la lotta cambia i rapporti di forza
USB sostiene il voto per 5 SÌ. Lo facciamo senza ipocrisie né deleghe.
Non dimentichiamo chi ha lasciato approvare il Jobs Act in silenzio, chi ha accettato in cambio di pochi spicci le leggi sulla precarietà, chi ha gestito con il cappello in mano le stagioni delle delocalizzazioni e dello sfruttamento.
Oggi molti di quegli stessi attori si ripresentano come promotori di una riscossa referendaria.
Ma la riscossa vera si costruisce nel conflitto sociale organizzato, non nelle cabine elettorali.
La verità è che questi quesiti non sono neutri né interclassisti: parlano il linguaggio del lavoro sfruttato, dei giovani costretti alla partita IVA, delle famiglie che vivono nel ricatto continuo degli appalti, dei migranti a cui si nega perfino il diritto a esistere.
Per questo non possiamo permettere che l’astensione consegni ai padroni e alla destra la narrazione che “va tutto bene così”.
Votare SÌ non basta, ma è necessario.
Per questo USB invita lavoratrici e lavoratori, giovani, migranti, disoccupati, a partecipare e a votare 5 volte SÌ.
Ma non ci illudiamo: il referendum non è il punto di arrivo, è solo un passaggio.
La vera sfida si gioca nei luoghi di lavoro, nelle vertenze, nella costruzione di un’alternativa politica e sindacale all’altezza del tempo che viviamo. Ecco perché USB ha proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie per il 20 giugno.
Ecco perché il 21 giugno saremo a Roma con una manifestazione nazionale che vuole rimettere al centro il conflitto, i bisogni popolari, la difesa del lavoro, dei salari, dei servizi pubblici, della pace e dei diritti sociali.
Sì al referendum. Ma soprattutto sì alla lotta.
20 giugno: sciopero generale.
21 giugno: tutti e tutte a Roma, ore 14:00 Piazza Vittorio Emanuele.
Solo il conflitto può cambiare i rapporti di forza.
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Cosa cercava il poliziotto infiltrato in Potere al Popolo?
L’agente si è aggregato a Potere al Popolo attraverso il Cau, articolazione universitaria legata a Pap. Ma da fine gennaio del 2025 ha iniziato a partecipare, come delegato degli studenti universitari, alle riunioni della Rete Set, per il diritto all’abitare.
È in questo campo che il poliziotto sembra avesse fatto un vero e proprio investimento di tempo e di attenzione. Ecco la testimonianza di Chiara Capretti, consigliera della Municipalità 2 del Comune di Napoli per Potere al Popolo, e attivista per il diritto all’abitare:
“Lui ha iniziato a frequentare le riunioni poco dopo l’inizio dell’anno, da allora non è mai mancato ad una riunione. E’ stato attivissimo, interveniva in assemblea e sembrava anche molto preparato sul tema, cosa che vista la sua giovane età, ha sorpreso molto. Ricordo che anche quando facemmo degli incontri con degli urbanisti esperti, lui partecipava intervenendo ed interagendo. A posteriori non posso che pensare che avesse fatto davvero un investimento in questo ambito, voleva diventare un punto di riferimento”.
Ma oltre alle assemblee, ai volantinaggi ed alle manifestazioni, presenziava anche al blocco degli sfratti, ma soprattutto era molto propositivo. “Spingeva per fare azioni concrete, soprattutto sul tema della lotta alla turistificazione, contro l’aggressione al patrimonio immobiliare da parte di B&B e case vacanze. Anche rispetto ad azioni più forti, si diceva favorevole”, spiega Capretti.
Un episodio molto strano si era verificato nel mese di febbraio 2025, quando a seguito di uno sfratto esecutivo che aveva colpito una famiglia nel quartiere di Montesanto, gli attivisti decidono per il giorno successivo di fare un blitz di protesta all’ufficio casa del Comune di Napoli.
“Quando è stata discussa l’iniziativa c’era anche lui, eravamo pochissimi, una decina di persone. Non se ne è più parlato, né al telefono e nemmeno nelle chat, anche perché era programmata per il giorno successivo. Quando all’indomani ci siamo recati alla sede dell’ufficio casa l’abbiamo trovato chiuso e con gli agenti della Digos sotto al palazzo. Una circostanza assai strana proprio perché era stata decisa in pochissimo tempo e senza discuterne altrove se non in presenza”, spiega la consigliera di Potere al Popolo.
Una grande attenzione è stata prestata dal poliziotto anche in occasione di un report, fatto in riunione da Chiara Capretti, di ritorno dall’assemblea europea dei movimenti per il diritto all’abitare. “Ad Aprile ho partecipato a Barcellona ad un meeting europeo dei movimenti per il diritto all’abitare, al mio ritorno ho relazionato in riunione. In quella circostanza lui era attentissimo, ci teneva a capire quali movimenti avessero partecipato, da quali paesi e per l’Italia da quali città”.
Poi all’inizio di maggio la scoperta della sua vera identità e quindi l’allontanamento da Potere al Popolo ha determinato la fine dalla sua presunta copertura.
Nelle riunioni del Collettivo autorganizzato universitario il suo atteggiamento invece è stato completamente diverso dall’ambito del diritto all’abitare. Secondo Maria: “Era presente in tutte le iniziative materiali, attacchinaggi, manifestazioni, presidi, partecipava alle riunioni ma non interveniva mai, anzi passava molto tempo a giocare al telefono mentre facevamo le riunioni”. Grande attenzione alle “cose materiali”, quindi, da parte del poliziotto, ma un atteggiamento distratto nei momenti di confronto.
Proprio per questo nei ricordi di diversi sono rimaste alcune sue domande insistenti che sono sembrate anomale rispetto al personaggio che si era costruito. “Verso la fine del 2024, durante una discussione interna sui rapporti tra le realtà di movimento e Potere al popolo, si inserì in una discussione chiedendo insistentemente chi fossero i vertici di “Cambiare rotta” di Roma. Un atteggiamento strano, anche perché lo chiese più volte, voleva sapere i nomi. Risposi io dicendogli che non c’era un capo, ma c’erano tanti compagni senza fare nessun nome”.
“Cambiare rotta” è una rete di collettivi molto legata a Potere al Popolo. Il termine “vertici”, abbastanza inusuale per il contesto politico, meravigliò molti, ma fu preso come un errore di lessico politico.
Ma non fu l’unico episodio, ci racconta Maria. “In un’altra occasione, stavamo organizzando la presentazione del libro “Torri d’avorio” dell’antropologa Maya Wind, discutevamo del fatto che era in atto un tour di presentazioni in Italia. Anche in quel caso, lui che stava sempre zitto alle riunioni, disse che probabilmente ‘Cambiare rotta’ di Roma avrebbe organizzato una presentazione e che conveniva mettersi d’accordo. Ebbi l’impressione che si volesse proporre come tramite per tenere i rapporti. Non se ne fece nulla e andammo avanti con l’organizzazione della presentazione”.
Un’attenzione particolare quindi veniva dedicata all’ambito giovanile di Potere al Popolo. Per il resto il poliziotto mostrava interesse per le dinamiche più radicali, come blitz, manifestazioni e robe simili. “In più occasioni si propose o venne scelto come responsabile per azioni di piazza, ma puntualmente non si presentava. La scusa più ricorrente era quella della presenza della sua fidanzata a Napoli che era molto gelosa e che non gradiva il contesto politico che lui frequentava”.
Per il resto la sua attività si caratterizzava per una totale assenza dai momenti conviviali e più spensierati, come la vita di gruppo, le uscite insieme. Aveva una socialità riservata che non condivideva con gli altri. “Il fine settimana diceva che tornava in Puglia, non lo vedevamo mai. Mai un compleanno, mai un sabato sera insieme. Il che strideva con la sua iper presenza in tutti gli appuntamenti militanti. Parlava molto di più con gli uomini, spesso di calcio, piuttosto che con le ragazze”. Ed è stata proprio l’assenza di una socialità condivisa che ha fatto scattare i sospetti sul poliziotto, fino alla scoperta della sua vera identità.
Pretendiamo risposte dal Governo su questa vicenda che lede il diritto di associazione. Chiediamo a tutte e tutti di attivarsi perché in gioco non c’è solo Potere al Popolo ma la tenuta della nostra democrazia.
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06/06/2025
Proletariato intellettuale e lavoro manuale nella fabbrica dei sogni
di Sandro Moiso
David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro
In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.
David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.
È stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.
Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.
In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.
Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.
Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.
Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.
Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe [...] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata [...] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[...] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[...] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film perfetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[...] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[...] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.
Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.
In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.
Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[...] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e, quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.
Note
1) Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90.
2) In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977.
3) D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20.
4) D. Mamet, op. cit., pp.9-10.
“Italia capolista mondiale del precariato, ai referendum 5 sì per cancellare anni di bugie”
Professor Brancaccio, lei ha sostenuto che la deregulation del lavoro è stato “lo spirito del tempo” che ha dominato l’ultimo trentennio. Può spiegarci?
Nei Paesi Ocse, dal 1990 abbiamo assistito a un crollo medio degli indici di protezione dei lavoratori di circa il 20 per cento e a una riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60 per cento. In sostanza, c’è stata convergenza internazionale al ribasso, nella direzione del precariato. In questa tendenza generale, l’Italia ha precarizzato più della media. Nel nostro paese, le politiche di flessibilità del lavoro hanno abbattuto le tutele di oltre il 35% per i contratti temporanei e oltre il 20% per i contratti a tempo indeterminato. Siamo stati ai vertici della corsa mondiale a precarizzare.
Il governo sostiene che se al referendum vincono i Sì, ci sarà un aumento della disoccupazione. È così?
È un vecchio slogan totalmente smentito dall’evidenza scientifica. L’88% delle ricerche pubblicate nell’ultimo decennio su riviste accademiche internazionali, mostra che la precarizzazione non stimola affatto le assunzioni e che le tutele non aumentano i disoccupati. Questo risultato è sempre valido, quali che siano le citazioni degli articoli, gli impact factors delle riviste scientifiche esaminate o le tecniche di indagine utilizzate.
Un risultato sorprendente...
Non più di tanto. Già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che “l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto”. Anche il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione”. E l’Ocse, nello stesso anno, ha ammesso che “la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti delle riforme per la flessibilità, suggeriscono che queste hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione”. Insomma, le stesse istituzioni che per anni hanno propugnato la deregulation, oggi ammettono che questa politica non crea posti di lavoro.
Se la flessibilità non stimola l’occupazione, quali sono i suoi effetti?
L’evidenza scientifica mostra che i contratti flessibili rendono i lavoratori più “docili”, e quindi provocano un calo della quota salari e più in generale un aumento delle disuguaglianze. Anche questo risultato trova conferme in studi pubblicati dalle principali istituzioni, tra cui il National bureau of economic research. Anche da questo punto di vista l’Italia è caso emblematico: da noi la precarizzazione ha contribuito fortemente ad abbattere i salari.
C’è poi il quesito contro gli appalti selvaggi, che mira a contrastare la tragedia delle morti sul lavoro. Che ne pensa?
In Italia, più che altrove, la tendenza storica al declino dei morti sul lavoro si è arrestata. E si intravede una pericolosa inversione della curva. Gli appalti senza regole sono sicuramente parte del problema.
C’è chi dice che la vittoria dei Sì comporterebbe un insostenibile aumento dei costi. Licenziamenti più gravosi e appalti più difficili metterebbero in crisi molte imprese che già faticano a restare sul mercato.
L’idea secondo cui bisogna aiutare in tutti i modi le imprese che non riescono a restare sul mercato è la ragione per cui, nel nostro paese, ancora prosperano enormi sacche di capitalismo inefficiente. Se abitui l’imprenditore a vivacchiare di prebende statali, bassi salari, evasione fiscale e assenza di controlli sulla sicurezza, togli qualsiasi stimolo all’innovazione produttiva. Al contrario, aumentare i costi per il lavoro e la sicurezza è una “frusta competitiva” che forza le imprese a migliorarsi.
Altri avanzano contestazioni politiche: i referendum sono appoggiati anche dal PD, che è lo stesso partito che in passato ha portato avanti le politiche di precarizzazione...
Questa obiezione mi sembra autolesionista. Da Treu a Renzi, ho sempre messo in evidenza le falsificazioni ideologiche dei propugnatori della precarietà che venivano dal PD. Ma se capita l’occasione di intervenire sul quadro legislativo, direttamente e nella direzione giusta, penso che si debba cercare di coglierla.
Anche perché il quorum è a rischio...
È a rischio non per beghe infantili tra fautori dei “piccoli passi” e apologeti del “tanto peggio, tanto meglio”. La verità è che manca la capacità di sviluppare tra masse totalmente depoliticizzate una critica del capitalismo all’altezza di questi tempi tremendi. Molti parlano di carenze organizzative che impedirebbero di creare il movimento. In realtà, opportunamente aggiornato, oggi vale più che mai il vecchio detto: senza moderna teoria “rivoluzionaria” non c’è movimento “rivoluzionario”.
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USA - Trump e Musk ai ferri corti
Elon Musk era stato tra i principali sponsor della rielezione di Trump nel 2024: 300 milioni di dollari in finanziamenti e un ruolo creato ad hoc – il Dipartimento per l’Efficienza Governativa – per dargli una poltrona e un megafono. Eppure, è bastata una legge fiscale per mandare tutto in fumo.
Trump ha presentato la sua “One Big Beautiful Bill” come una rivoluzione per l’economia americana. In realtà è un taglio secco a tutto ciò che odora di energia pulita. Addio ai crediti d’imposta per le auto elettriche: un colpo durissimo per Tesla e per l’immagine “green” (spesso di facciata) dell’industria americana. Musk, abituato a usare la mano pubblica come leva per il profitto privato, ha reagito con furore. Il presidente, invece di placare gli animi, ha rincarato la dose: “Senza quei contratti federali, risparmieremo miliardi e miliardi”, ha minacciato, riferendosi alle aziende di Musk.
La guerra verbale ha avuto conseguenze concrete. Le azioni di Tesla hanno perso oltre il 14% in un solo giorno, polverizzando 150 miliardi di dollari di valore. Trump Media and Technology Group Corp ha subito un calo dell’8%, segno che il duello tra giganti non risparmia nessuno. E mentre il Nasdaq annaspava, Musk lanciava sondaggi deliranti su X per creare un nuovo partito centrista e proponeva l’impeachment di Trump.
Il miliardario sudafricano ha anche lanciato un messaggio chiaro: “Senza di me, Trump non avrebbe vinto le elezioni del 2024”.
Al di là dello scontro personale, la vera vittima è la politica industriale americana. Tagliare gli incentivi per i veicoli elettrici significa regalare ulteriore vantaggio alla Cina, già leader nella produzione di EV. Lo hanno denunciato esperti del settore e associazioni ambientaliste. Ma Trump, nel suo ossessivo ritorno al carbone e al petrolio (e a contenere la spesa pubblica - ndR), sembra più interessato a combattere guerre culturali che a preparare il futuro.
Musk, dal canto suo, non è certo un paladino della coerenza. Solo pochi mesi fa sosteneva pubblicamente che i sussidi andavano eliminati, convinto che Tesla potesse sopravvivere anche senza. Oggi, con i conti in rosso e le vendite in calo, ha cambiato idea.
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La Commissione UE approva l’austerità italiana e invita a investire nella difesa
La pagella della Commissione era molto attesa dall’Italia, così come da tutti i governi che sono finiti sotto procedura di infrazione per disavanzo eccessivo. Questa volta, il nostro paese, insieme a Francia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia, ha ricevuto l’approvazione di Palazzo Berlaymont, mentre Belgio e soprattutto Romania devono avviarsi su di un nuovo percorso correttivo.
È interessante però vedere cosa abbia portato alle note positive della Commissione. Innanzitutto, i tipici complimenti per l’austerità: “la crescita della spesa netta è destinata a essere marginalmente al di sotto del tasso di crescita massimo raccomandato”. I conti italiani sono però ancora in squilibrio, a causa dell’alto debito e della bassa produttività del lavoro.
Poi l’inaspettata raccomandazione che sembra essere vicina alle esigenze dei settori popolari. Bruxelles, infatti, invita a promuovere salari adeguati, a ridurre la precarietà e le barriere all’accesso al lavoro, in particolare per donne e giovani. Per farlo, si chiede di rafforzare le politiche attive e i servizi per l’infanzia e la cura di lungo termine.
Lasciamo da parte il discorso articolato sul perché le politiche attive non sono la soluzione alla disoccupazione e al basso tasso di occupati italiani. Il discorso della Commissione ha una contraddizione di fondo: non si può elogiare la compressione della spesa pubblica per poi chiedere che ci sia un maggiore impegno nelle spese sociali... soprattutto se queste spese stesse vengono stigmatizzate.
Il nostro paese è chiamato, ad esempio, a “mitigare gli effetti dell’invecchiamento sulla crescita potenziale e sulla sostenibilità fiscale […] limitando l’uso dei regimi di prepensionamento”. In un paese in cui già l’età pensionabile si avvicina sempre più ai 68 anni, accanirsi sui pochi strumenti che permettono di accorciare la vita lavorativa è una logica da massacro sociale.
Bruxelles chiede poi di “affrontare le restrizioni rimanenti alla concorrenza, comprese quelle nei servizi pubblici locali, nei servizi alle imprese e nelle ferrovie”. In pratica, la UE spinge per un’ulteriore ondata di privatizzazioni. Una soluzione che non solo ha fatto uscire i soldi pubblici per altre vie – ad esempio attraverso sussidi alle imprese – ma che peggiorerà nettamente il servizio.
Per ciò che riguarda ancora la concorrenza, si vuole un mondo della formazione sempre più sottomesso al profitto. Per la Commissione bisogna “sostenere l’innovazione rafforzando ulteriormente i legami tra imprese e università, gli appalti innovativi, il capitale di rischio aziendale e le opportunità per i talenti”, oltre a “migliorare il ruolo delle università nella commercializzazione dei risultati della ricerca”.
Infine, la contraddizione principale deriva dal fatto che poi, in concreto, i vertici europei invitano a investire i margini dei bilanci pubblici in difesa. L’Italia viene infatti chiamata a “rafforzare la spesa complessiva per la difesa e la prontezza operativa”, in linea con le conclusioni del Consiglio europeo del marzo scorso.
La Commissione ha sottolineato che la spesa monitorata dal Patto di stabilità nel conteggio 2024-2025 dovrebbe essere circa lo 0,4% in meno rispetto a quanto chiesto all’Italia per il Piano strutturale di bilancio. Si tratta di una cifra che si aggira intorno ai 4 miliardi: non un ammontare di fondi risolutivo, ma di certo potrebbe dare una mano a voci compresse del bilancio.
E allora bisognerebbe far sì che la pressione popolare imponga al governo che questi soldi vengano messi in spese sociali. Ma stando a quel che ha chiesto Bruxelles, appunto, finiranno nel riarmo e nella difesa europea. È questa la contraddizione, quella tra le esigenze strategiche della UE e l’interesse generale, che allora va denunciato.
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I portuali francesi impediscono l’imbarco delle armi destinate ad Israele
Grande vittoria dei portuali del Golfo di Fos: sono riusciti a impedire l’imbarco di munizioni e mitragliatrici sulla nave Contship ERA della compagnia ZIM, diretta in Israele. A Genova, la nave farà scalo sabato mattina per un rifornimento tecnico. I portuali francesi ci hanno comunque chiesto di sorvegliarla per assicurarci che sia effettivamente vuota.
Il lavoro portato avanti in questi anni dai portuali genovesi, ai quali si sono poi aggiunti greci, marocchini e oggi i francesi, dimostra che il coordinamento sta dando risultati concreti.
Il presidio inizialmente previsto per le 15:00 di venerdì è sospeso: invitiamo tutte e tutti a partecipare alla conferenza stampa venerdì 6 giugno, alle ore 18:00 presso Music For Peace (sala Vick) e al presidio di sabato mattina, dalle ore 8:00, al Varco di Ponte Etiopia.
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Guerra in Ucraina - Gli afflati della stampa italica e la realtà sul campo
È un autentico pathos, quello con cui si esaltano le gesta «degli 007 ucraini alla Russia», specialmente dopo gli ultimi accadimenti, che hanno coinvolto treni passeggeri – en passant: quelli che il giornalaccio di via Solferino sbriga con «possibili sabotaggi ai treni», hanno causato sette morti e un centinaio di feriti, tutti civili; come dire: “Italicus” o “Rapido 904” furono “potenziali sabotaggi” – aeroporti militari e, in ultimo, il ponte di Crimea, rimasto chiuso al traffico martedì mattina per tre ore.
Già: appena tre ore; il tempo di rinsaldare il pilone danneggiato.
Ma quel pathos dannunziano si esalta: «E tre»; dopo i “sabotaggi ai treni”, all’aviazione strategica, ecco ora il ponte di Kerch; uno sballo! Roba da orgasmo! «Un gruppo d’incursori sottomarini, nello stile dei silenziosi “maiali” italiani della Seconda guerra mondiale».
Ce li immaginiamo, i cronisti nostrani che, mentre si raffigurano i moderni “maiali” cavalcati dagli incursori ucraini, nelle stesse righe avrebbero vergato volentieri anche la “X” della “Decima”: sono comunque dalla stessa parte, a Milano, al Varignano e a Kiev. Ma si sono astenuti, non essendo sicuri che si trattasse davvero di maiali, o di barchini esplosivi telecomandati.
Non fa differenza; l’importante è l’entusiasmo con cui si trasmette “l’impresa” al lettore. Che poi, insieme all’entusiasmo, gli si dica che i droni subacquei hanno colpito «il cordone ombelicale che nel 2014 aiutò ad annettere la Crimea invasa alla Grande Madre Russia», sarà ufficio del lettore stesso accertarsi che quel “cordone” era venuto alla luce solo quattro anni più tardi, a maggio del 2018.
Bazzecole. Essenziali sono le «beffe di Kerch e dell’attacco tipo Pearl Harbor all’aviazione russa, due in meno di 48 ore»; ragazzi, qui si va oltre lo sballo: questi incursori del “comsubin” in versione nazi-golpista sono davvero dei “ganzi”; «toccano l’orgoglio del Cremlino e dimostrano che nessun luogo putiniano è sicuro».
Questa proprio mancava: “luogo putiniano”. D’ora in avanti, quando si sfoglierà un qualsiasi atlante, toccherà ricordarsi che i nomi geografici sono appena relativi, mentre la realtà si nasconde dietro ai luoghi macroniani, meloniani, starmeriani; luoghi “più che volenterosi” di portar “beffe” e “attacchi tipo Pearl Harbour”, oggi a est del Dnepr, domani, chissà, nel Baltico o in Asia centrale.
Nei fatti, a dispetto dell’entusiasmo suscitato in qualche strada milanese, gli eventi degli ultimi giorni hanno mostrato piuttosto una discreta voragine nel lavoro dei Servizi russi, più che un successo ucraino, come sostiene anche il politologo Sergej Markov, riferendosi in particolare alle perdite dell’aviazione strategica. Tanto più che non è la prima volta che Kiev compie attacchi terroristici contro infrastrutture civili, come i «possibili sabotaggi ai treni», ma non ha potuto servirsene per far pressione ai negoziati.
Si è trattato di un «nostro fallimento e di un successo dell’intelligence ucraina», dice Markov; ma questo «non influenzerà in alcun modo le operazioni militari. Per quanto ne so, abbiamo avuto circa 5 bombardieri strategici e 5 aerei da trasporto danneggiati. Ma in totale contiamo 130 bombardieri: cioè, è stato danneggiato circa il 2%. Al fronte, in Ucraina, viene utilizzato il 10% di questi bombardieri, perché il limite è dato là dai missili da crociera: non ce ne sono molti e sono molto costosi, quindi non se ne usano molti».
Ma, intanto, i fatti sono che la junta neo-“Decima” sta passando, come afferma il politologo ucraino Pavel Shchelin, dalla tattica ptljuriana a quella apertamente banderista. Il riferimento è a quel Simon Petljura che, dopo la Rivoluzione d’ottobre e a inizi anni ’20, cedette Galizia e Volinja occidentale, in cambio del sostegno polacco all’Ucraina nazionalista contro la Russia rivoluzionaria e si distinse in pogrom di ebrei nelle regioni di Kiev, Poltava, Kherson.
Vale a dire, specifica Shchelin, la junta di Kiev, persa ogni capacità di organizzare la resistenza statale, per quanto contro-rivoluzionaria, come era per Petljura, si dà al banderismo, ovvero ai sabotaggio e all’attività terroristico-sovversiva.
Chiaro che non si tratti della sola Ucraina: sono gli stessi «Servizi occidentali che stanno rodando nuovi metodi». Si è di fronte a una escalation e nei prossimi mesi, prevede Shchelin, «assisteremo a un’ulteriore intensificazione, con una simultanea escalation di simili atti, contemporaneamente a momenti negoziali».
Lo stesso Shchelin afferma che, di fronte a una Russia che, al quarto anno di conflitto, non ha modificato le proprie richieste come condizione per porvi termine, Kiev sogna di scatenare un conflitto globale sul proprio territorio.
La “strategia” ucraina sembra voler dire: “siamo pressati da tutte le parti perché negoziamo”. In altre parole, la precedente strategia di puntare alla vittoria non ha funzionato. Gli sponsor sono cambiati e non finanziano più quella “strategia”. Pertanto, si deve ora imitare un processo di pace per intensificare il conflitto.
L’obiettivo finale del governo ucraino, dice Shchelin, non è cambiato: si va alla «terza guerra mondiale, con il coinvolgimento dell’Europa in un conflitto diretto sul territorio ucraino». L’ideale, per Kiev, sarebbe che vi prendessero parte sia gli USA che la UE; o «quantomeno i paesi europei, contro la Russia, sul territorio ucraino. Perché l’Ucraina, da sola, non può vincere».
Non può vincere nemmeno con le armi occidentali. Nemmeno coi “Taurus” tedeschi a lunga gittata, che potrebbero avere una qualche influenza sul corso della guerra solo se Berlino ne trasferisse a Kiev qualche migliaio: parola dell’ex vicecomandante delle Forze speciali ucraine, Sergej Krivonos.
Gli ucraini sono rimasti «scottati già più di una volta negli ultimi tre anni e mezzo, con queste speranze in un’arma miracolosa», dice Krivonos; perché i missili possano avere un qualche effetto, ne occorrerebbero «diverse migliaia. Anche se ce ne dessero un paio di centinaia, influenzerebbero la situazione a livello tattico, forse nell’attacco a posti di comando, fabbriche, ma non è un’arma miracolosa. È un’arma costosa e richiede un uso sistematico». Quello di Berlino, afferma Krivonos, è più che altro un «gesto politico, che dimostra che la Germania potrebbe aiutarci», ma non di più.
In sostanza, nonostante il segretario della NATO Mark Rutte allarghi a mar Nero e Baltico il raggio d’azione dell’Alleanza atlantica e questa intenda quintuplicare il proprio potenziale di difesa aerea, rimane il dato generale di arsenali europei abbastanza sguarniti. Ed è per questo che le cancellerie “volenterose” non prevedono di avere a disposizione, a breve termine, una tale quantità di risorse per combattere a lungo, in prima persona, contro la Russia.
È anche per questo, dice ancora Krivonos, che la UE continuerà a rinviare lo scontro con Mosca, a spese dell’Ucraina; vale a dire, continueranno a spingere la junta nazista a mobilitare con la forza e mandare al macello migliaia di giovani (e meno giovani: ora anche ultrasessantenni) ucraini.
Un po’ come se, verrebbe da dire, a Bruxelles si interpreti a modo proprio quanto sosteneva il grande Mao a proposito della “teoria dell’onnipotenza delle armi”. Noi, diceva Mao, «prendiamo in considerazione non solo le armi ma anche gli uomini. In guerra le armi sono un fattore importante, ma non decisivo. Gli uomini sono il fattore decisivo, non le cose. Il rapporto di forze non è solo un rapporto di potenza militare ed economica, ma anche un rapporto di potenziale umano e morale».
Ecco, mentre mandano al massacro migliaia di ucraini, Kiev e Bruxelles ne spingono decine di migliaia a fuggire dall’Ucraina o a disertare alla prima occasione: è questo il “fattore umano e morale” inteso alla maniera europeista.
L’importante, per loro, è prolungare la guerra e accrescere a dismisura i profitti dell’industria bellica.
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Argentina - Una folla eterogenea si unisce nelle strade contro i tagli di Milei
Il dibattito legislativo si è concluso con una vittoria dell’opposizione: la Camera dei Deputati ha approvato con 142 voti favorevoli, 67 contrari e 19 astensioni un aumento del 7,2% delle pensioni e quasi il raddoppio del bonus complementare per coloro che percepiscono la pensione minima. Se confermata dal Senato, dove il peronismo è la prima minoranza, la normativa porterebbe la pensione minima a circa 400 dollari.
La misura, tuttavia, ha i giorni contati. Milei l’ha definita “demagogia populista” e ha avvertito che la vieterà, così come qualsiasi altra legge che aumenti la spesa statale prevista dal governo, ritenendo che metta a rischio l’equilibrio fiscale. Il presidente ha già esercitato il suo potere di veto l’anno scorso quando entrambe le camere hanno votato a favore di un aumento delle pensioni e del finanziamento delle università pubbliche, e i legislatori sanno che non esiterà a ripetere la misura.
La vicinanza delle elezioni legislative del prossimo 26 ottobre rende l’orizzonte più incerto. Il governo punta tutto sull’economia, in particolare sulla lotta all’inflazione, contro la quale si sono scontrati i suoi predecessori. Con questo argomento, si rifiuta di deviare dal percorso tracciato, ma i tagli al principale ospedale pediatrico del paese, il Garrahan, e gli attacchi ufficiali contro un bambino di 12 anni con autismo sono diventati nuovi limiti segnati dalla società alla “motosierra” di Milei.
Dopo i tentativi falliti di screditare il Garrahan, il governo ha ceduto concedendo un bonus di 500.000 pesos (circa 400 dollari) mensili per integrare lo stipendio dei residenti. Questi hanno rifiutato l’incremento, ritenendolo insufficiente, e hanno annunciato che manterranno le misure di protesta, alle quali iniziano ad unirsi colleghi di altri ospedali. Milei mantiene i tagli alle prestazioni per disabilità, ma si trova di fronte a una crescente pressione per fare marcia indietro.
Nelle strade, gli animi oscillavano tra la speranza e l’indignazione. La mobilitazione è stata molto grande, ma inferiore a quelle che hanno avuto luogo in risposta al definanziamento dell’università pubblica nel 2024 e a quella organizzata lo scorso febbraio in ripudio alle dichiarazioni omofobe di Milei all’ultimo vertice di Davos.
“Neanche un diritto in meno”, “Non è un aggiustamento, è abbandono”, “Uniamoci contro la crudeltà”, si poteva leggere sulle bandiere collocate sul perimetro di sicurezza.
Fonte
05/06/2025
Strangers in the night, but no happy ending
Correre dietro ai numeri di Trump è un esercizio sterile, misurare l’incoerenza dei dazi è fuorviante, usare il sarcasmo per le sue espressioni è imbelle. Non che le esternazioni del Presidente non si prestino a critiche o che i suoi pensieri non si presentino incoerenti o improvvisati. L’errore ha invece radici nel volere trovare un filo che colleghi le decisioni, arrovellarsi per cercare una continuità nascosta, una strategia inafferrabile, un progetto impalpabile di lungo respiro. Insomma: scandagliare i segugi analitici per capire «cosa ha in mente Trump».
Certo: lui intende Make America Great Again; uno slogan chiaro e tuttavia di difficile declinazione. Per farlo bisogna mostrare i muscoli, costringere gli altri (non importa se nemici o ex amici, le differenze si annullano) alla trattativa da posizioni di forza. Imporre le proprie regole per strappare il miglior accordo, negoziare mettendo l’interlocutore nell’angolo. E se fosse proprio questa la strategia, coniugare cioè tattica e obiettivo, senza intermediazioni? Allora, l’importante non è misurare il valore del dazio, metterlo in relazione con improbabili tabelle al flusso di merci. Se fosse così, l’incoerenza delle misure sarebbe eclatante e centrale. Invece è stato riproposto lo schema del comando. I dazi vengono messi, tolti, rimandati, reintrodotti da un unico decisore. Gli altri devono adeguarsi e trattare sotto minaccia. Non hanno scelta, perché gli Stati Uniti sono la più grande potenza politica, economica e militare. Trump sa bene che la loro supremazia, pur se bisognosa di tornare ad essere grande, è ancora indiscutibile e inattaccabile. È una leva negoziale, che può essere spietata o benevolente, perché tutto può far parte del pacchetto, del deal: le terre rare, i rimpatri, lo jus soli, i jeans del Lesotho, i ghiacciai della Groenlandia. L’elenco potrebbe continuare perché non esiste nulla che non possa essere guadagnato quando si ritiene di essere in credito con il mondo.
Un primo risultato è stato ottenuto; si misura dalla fila di governanti che chiedono di incontrare la Casa Bianca con intenti prosaici. Non potrebbe essere altrimenti; tutti hanno bisogno degli Stati Uniti. Meno giustificata – con sconfinamenti nel patetico – appare la posizione Europea. Pur se ancora la più grande potenza commerciale al mondo, l’UE rimane un junior partner rispetto alla Casa Bianca. Non capitalizza sulla sua forza, è prigioniera delle tensioni interne. Rimane vittima di una politica subalterna; la sua capacità negoziale è pari all’inefficacia dei suoi rappresentanti.
Solo i paesi più grandi e non allineati – si sarebbe detto una volta – non si piegano alle decisioni unilaterali di Washington. Tra loro emerge la Cina. Pechino ha più volte richiamato la necessità del dialogo, di soluzioni condivise, ha messo l’accento sulla forma degli incontri. Afferma in sostanza: non si possono fissare i dazi e poi trattare. L’imposizione può essere una conclusione, non l’avvio delle trattative. Se si è bersaglio di punizioni tariffarie, la risposta immediata e doverosa è restituirli, con la stessa intensità e percentuale. Solo allora ci si potrà sedere al tavolo. Questa condotta è possibile se si è una potenza mondiale, un grande paese con un governo forte, unito e intriso di nazionalismo; appunto come la Cina. Qualsiasi mediazione, indipendentemente dal suo esito, per Washington e Pechino sarà lunga, difficile e probabilmente dolorosa.
Eppure, le clamorose decisioni dell’Amministrazione Trump hanno avuto il merito di svelare una situazione mondiale oggettivamente eccentrica e squilibrata: gli Stati Uniti continuano a vivere al di là delle proprie possibilità. Ne sono testimonianza il deficit di bilancio e quello commerciale. Il debito pubblico ha raggiunto livelli stratosferici, quello commerciale ha superato i 1.000 miliardi di dollari. Si tratta oggettivamente di una posizione insostenibile. La spiegazione economica è nota: i deficit si finanziano stampando moneta e titoli, fino a quando esiste qualcuno disposto a comprarli, per motivazioni ovviamente politiche che trovano origine nella potenza statunitense. Quando questa disponibilità è messa in discussione – come sembrano voler fare i paesi Brics+ o addirittura l’intero Global South – l’intero impianto americano-centrico viene messo in discussione.
Gli Stati Uniti vivono dunque con una credit card mentality, alla quale ovviamente è difficile e scomodo rinunciare. Per alimentare le proprie spese devono indebitarsi e una frazione ancora bassa ma crescente dei titoli di stato è in mani straniere. Fino a quando questi asset sono presso governi amici, occidentali, alleati docili, il problema può essere gestito. Ma la Cina non risponde a nessuna di queste caratteristiche. Inoltre, finanzia gli acquisti di bond americani con i proventi del suo enorme attivo commerciale (che ogni anno varia tra 300 e 500 miliardi dollari). Per dirla senza orpelli e con eccesso di sintesi: la Cina interviene nel twin deficit di Washington. Provoca quello commerciale e con gli introiti finanzia quello Federale, acquistando così pezzi di Stati Uniti.
Non è una situazione nuova. Le economie di trasformazione, cioè a forte impianto manifatturiero, traggono vantaggio dall’elevato consumo statunitense, un approdo redditizio e sicuro per le loro merci. Nessun esecutivo a Berlino, Roma, Tokyo, Seul e Pechino si è mai lamentato del deficit commerciale di Washington. Però quello cinese è contemporaneamente astronomico e dovuto ad un paese ostile. Senza dubbio, sta diventando – o è già diventato – un’emergenza strategica, al punto da allarmare la Casa Bianca.
La Cina diventa così, forse controvoglia da entrambe le parti, il vero obiettivo di Trump, quello verso il quale inevitabilmente si indirizzeranno le tensioni. Ma per Washington è un terreno minato. Il decoupling – il disaccoppiamento delle economie – sembra impraticabile. Non si costruisce in poco tempo un’altra titanica factory of the world. I dazi non riattiveranno le ciminiere in Michigan o i telai in South Carolina. Potranno invece dar fiato all’inflazione e forse punire la Cina. Sarà difficile immaginare una riduzione dei consumi interni perché i risultati potrebbero essere esiziali alle prossime elezioni.
Rimangono quindi aperte due soluzioni: la trattativa infinita o l’estrema tentazione del grilletto. Al momento – dato il pragmatismo di Trump e di Xi – la possibilità di raggiungere un accordo ha maggiori possibilità di successo. In ogni caso Trump dovrà essere ben consigliato: la Cina remissiva, intenta a sconfiggere il sottosviluppo è ormai al tramonto. Il paese timido in politica internazionale, interessato ad attrarre le multinazionali è consegnato alla storia. I risultati a cui ambiva sono stati raggiunti, paradossalmente proprio con l’aiuto degli Stati Uniti che ora cercano di limitarne i danni.
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Trump nel gorgo dell’impotenza Usa
L’impressione si rafforza mettendo in fila quel che l’amministrazione Trump ha combinato nelle ultime 48 ore. Trovarci uno straccio di “impostazione strategica” non è difficile. È inutile.
Tutti hanno tentato di capire cosa è stato detto nella telefonata di un’ora e un quarto che Trump ha tenuto con Vladimir Putin. E da entrambe le parti si è diplomaticamente concluso che è stata “positiva”, ma senza produrre risultati tali da metter fine ai combattimenti in poco tempo.
Del resto, se c’era una vaga possibilità di avvicinarsi al traguardo, convocando un nuovo giro di colloqui a Istanbul, gli attacchi ucraini a due ponti (con una strage su un treno passeggeri), quello di fatto fallito al ponte di Kerch e quello meglio riuscito contro alcune basi di bombardieri strategici lontanissimi dal fronte, hanno certamente rinviato a data da stabilirsi il prossimo passaggio concreto.
In questo passo indietro – o avanti verso la guerra nucleare, visto che toccare i bombardieri strategici equivale a portare un attacco nucleare (teso a ridurre le possibilità operative del nemico) – è notorio che hanno avuto un ruolo i servizi britannici, un cui esponente risulta tra i morti a Sumy, in Ucraina, a poche ore dagli attacchi.
E proprio i britannici sembrano i più infoiati nel piccolo manipolo di guerrafondai europei (quasi quanto i nanerottoli baltici, almeno), tanto da annunciare la costruzione di nuovi sommergibili nucleari, oltre a spingere apertamente Kiev a chiedere un “cessate il fuoco” durante il quale poter inviare nuove armi e persino truppe europee in Ucraina.
L’unico successo di Londra, per il momento, sta però nell’aver mantenuto al 25% i dazi imposti da Trump su acciaio e alluminio, mentre al resto d’Europa e del mondo sono stati raddoppiati al 50%.
Nelle stesse ore, per la prima volta da quando l’organismo è stato formato su decisione Usa, il nuovo segretario alla Difesa, Pete Hegseth, non ha partecipato alla riunione del gruppo di contatto per il coordinamento dell’assistenza militare all’Ucraina, noto come “formato Ramstein”.
Il significato appare inequivocabile: la guerra in Ucraina deve diventare soprattutto un affare degli europei, visto che ci tengono tanto a continuarla. Il che mette in qualche misura nell’incertezza anche “l’ombrello nucleare” statunitense nel caso l’escalation dovesse degenerare.
Fin qui la strategia ucraino-britannica (solo in parte anche francese e polacca) è stata quella di provocare la Russia perché mettesse in atto risposte “esagerate”, tali da far scattare un intervento diretto della Nato. Ma se questa visione sembrava approvata dal rimbambito Biden, certamente non appartiene all’amministrazione Trump, che punta invece decisamente al fronte del Pacifico come teatro principale per “contenere” la Cina.
Ma un imperialismo fuori di cranio moltiplica i fronti di conflitto quasi come fosse un gioco. Proprio ieri Trump ha annunciato un nuovo divieto o limite di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di 19 Paesi.
Secondo un documento diffuso dalla Casa Bianca, il provvedimento prevede restrizioni totali per alcuni Stati e limitazioni parziali per altri. Il divieto riguarda i cittadini di Afghanistan, Birmania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Restrizioni parziali si applicano invece a Cuba, Venezuela, Burundi, Laos, Sierra Leone, Togo e Turkmenistan.
Il tutto è stato giustificato con l’“attacco antisemita” di Boulder, in Colorado, dove una manifestazione della comunità ebraica locale è stata aggredita da immigrato con il permesso scaduto. Solo che quello era di nazionalità egiziana, ma l’Egitto – per molti buoni motivi, agli occhi degli Usa – non rientra nella lista dei paesi “bloccati”.
Indipendentemente dai paesi di provenienza, invece, prosegue la guerra di logoramento con Harvard e altre università di primo livello, con l’amministrazione che pretende di bloccare ogni programma di scambio con università straniere nonché di avere l’elenco completo degli studenti non “indigeni”. Per farci cosa non si sa, ma sicuramente non per promuovere gli scambi culturali.
L’unico fronte su cui la politica Usa appare chiarissima è il genocidio a Gaza. Il nuovo capo dell’Executive Team dell’organizzazione privata Ghf, incaricata di distribuire gli aiuti alimentari ai palestinesi prigionieri nel mattatoio, è Johnnie Moore, reverendo evangelico.
Uno che può vantare nel suo curriculum di essere “Vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui la Medaglia al Valore del rinomato Simon Wiesenthal Center”, “un’organizzazione globale di attivisti ebrei per i diritti umani che combatte l’antisemitismo e l’odio, difende la sicurezza di Israele e degli ebrei in tutto il mondo”. Ma che, da quando i nazisti storici sono passati a miglior vita, se la prende soltanto con chi critica Israele e il suo suprematismo razzista.
La comunità evangelica statunitense, del resto, è da sempre a favore del movimento dei coloni, alla costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania e al trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme.
La sua nomina è insomma una garanzia per Netanyahu, perché possa più agevolmente condurre la “soluzione finale” con gli strumenti che preferisce.
Stiamo insomma assistendo ad una serie di mosse il cui unico filo conduttore sembra il mantenere se stessi al centro dell’attenzione mondiale, moltiplicando i problemi senza saper indicare nessuna soluzione (fosse pure ultra-reazionaria).
Se è vero che “dio confonde coloro che vuol perdere”, gli Usa di Trump stanno certamente in cima alla lista...
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La Cina in prima fila nella creazione dell’Organizzazione Internazionale per la Mediazione
Alla cerimonia erano presenti ben 20 organizzazioni internazionali (tra cui i rappresentanti delle Nazioni Unite) e 85 paesi, di cui 33 sono i membri fondatori di tale istituzione. Tra di essi, oltre alla Cina, vi sono Venezuela, Cuba, Serbia, Bielorussia, Pakistan, Indonesia, e varie altre realtà appartenenti al cosiddetto Sud Globale, o comunque paesi marginali nello scenario politico.
L’iniziativa è partita nel 2022 dal Dragone e da altri 20 paesi, e rappresenta una novità significativa nella governance mondiale. Fino ad oggi, la soluzione delle controversie internazionali è stata affidata per lo più a strumenti giudiziari e arbitrali, che ovviamente hanno limiti e, soprattutto, vedono alla fine un vincitore e un perdente della controversia.
Alla cerimonia di nascita dell’IOMed, il ministro degli Esteri di Pechino Wang Yi ha detto che questo organizzazione “contribuirà a superare la mentalità del gioco a somma zero del ‘vincere o perdere’, promuoverà la risoluzione amichevole delle controversie internazionali e costruirà relazioni internazionali più armoniose”.
La portavoce del suo stesso dicastero, Mao Ning, durante una conferenza stampa lo scorso 20 maggio, aveva anch’essa già ribadito che la mediazione punta a rispettare “la volontà delle parti interessate”, e inoltre ha sottolineato che questa pratica “riflette la tradizione di amicizia e armonia, apprezzata in Oriente”, dando all’attività dell’IOMed una sorta di continuità col passato cinese.
È molto interessante il fatto che la sede di questa organizzazione sia stata posta a Hong Kong, luogo che esprime plasticamente già nel suo statuto giuridico una controversia internazionale. Così com’è interessante il fatto che l’iniziativa sia partita nel 2022, anno dell’operazione speciale russa in Ucraina.
Ma il ruolo che occupa l’ex colonia britannica in questa vicenda va oltre il simbolico. La deputata e delegata dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Priscilla Leung, giovedì scorso ha raccomandato alla Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong di nominare esperti legali presso il governo centrale, anche provenienti dai diversi sistemi giuridici della Greater Bay Area, per sostenere questa iniziativa.
Sempre lo scorso giovedì, al Global Times, anche Lau Siu-kai, consulente dell’Associazione Cinese di Studi su Hong Kong e Macao, ha commentato il senso della creazione dell’IOMed: “ciò riflette anche l’ulteriore rafforzamento del soft power della Cina e la sua determinazione a collaborare con i paesi del Sud del mondo per promuovere la costruzione di un nuovo ordine internazionale”.
Di fronte al marcescente ‘ordine basato su regole’, di dominazione occidentale e statunitense nello specifico, questo nuovo ordine perorato dalla Cina rimanda alla soluzione diplomatica delle controversie e al sistema delle agenzie ONU. Mao Ning ha posto l’accento sul fatto che la mediazione è una misura prevista nella Carta delle Nazioni Unite, e che l’IOMed servirà alla salvaguardia dei suoi scopi e principi.
L’ambizione è ancora maggiore. John Lee Ka-chiu ha affermato che, col tempo, si spera che la nuova organizzazione assuma uno status pari a quello della Corte Internazionale di Giustizia, organismo delle Nazioni Unite, e della Corte Permanente di Arbitrato. Quest’ultima non fa parte del sistema ONU, è nata nel 1899, e svolge appunto funzioni arbitrali.
Pechino mostra la volontà di rafforzare e allo stesso tempo competere per assumere un peso maggiore a livello globale, mentre gli USA rivedono l’impegno in varie agenzie ONU. Ora la convenzione di istituzione dell’IOMed dovrà essere ratificata. Quando almeno tre paesi lo avranno fatto, l’organizzazione potrà entrerà ufficialmente in funzione, si prevede a partire dal 2026.
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Le tre grandi rotture del Novecento
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti ed istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento? La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
Ciascuno dei singoli capitoli di questa grande fase storica (altrimenti definita “il trentennio glorioso”, ma non è questa la falsariga sulla quale tale riflessione intende situarsi) meriterebbe altrettanti luoghi e occasioni di confronto e di approfondimento.
Per citare solo, nell’ordine, i “contrassegni storici” di questa fase: la sconfitta del nazismo e del fascismo storico; la liberazione dell’Europa; l’affermazione del socialismo come forza sociale, politica, culturale a livello planetario; il protagonismo del movimento di classe nel processo di avanzamento democratico e di conseguimento di spazi sempre più avanzati di democrazia effettiva; nonché, sul piano internazionale, l’emergere della contrapposizione bipolare (avviata con la definizione della cortina di ferro e con la fondazione della Nato, 1949, da parte delle potenze imperialistiche, cui ha fatto seguito, in risposta, la definizione del Patto di Varsavia – Patto di amicizia, cooperazione e mutua assistenza, 1955); la fondazione delle Nazioni Unite e la creazione del sistema di sicurezza collettiva (con due capisaldi inediti e innovativi, la Carta delle Nazioni Unite, 1945, e la Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948); sino al successo dei movimenti di autodeterminazione e del processo storico di decolonizzazione e liberazione nazionale (con la nascita del Movimento dei Non Allineati, 1961, a partire dal “protagonismo delle eccedenze”, la Jugoslavia Socialista di Tito, l’Egitto di Nasser, l’India di Nehru).
Sconfitta del fascismo storico e affermazione dell’universalità dei diritti sono, non a caso, le grandi conquiste che vedono proprio nel movimento di classe il principale protagonista. È appena il caso di ricordare che l’Unione Sovietica pagò, nella Seconda guerra mondiale, un tributo di 27 milioni di caduti, di cui 18 milioni civili, e resse, da sola, per due anni, l’urto di 250 divisioni tedesche (circa il 90% dell’esercito tedesco) appoggiate dagli alleati fascisti rumeni, ungheresi e italiani, rappresentando quindi, evidentemente, il fattore determinante nella sconfitta del fascismo e del nazismo, ragione per la quale, citando Ernest Hemingway, ancora oggi, al di là e contro ogni revisionismo, «ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziamenti all’Armata rossa di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita».
Fu proprio quella sconfitta ad aprire la strada alla codifica, per la prima volta nella storia, di un catalogo di diritti universali, peraltro esteso in termini generali e indivisibili, come diritti civili e politici, diritti economici, sociali e culturali, diritti dei popoli e degli ecosistemi, e oggi ancora diritti digitali e della “infosfera”.
La stessa astensione dei Paesi socialisti (Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia) all’atto di approvazione della Dichiarazione indica una battaglia per diritti non solo da riconoscere “formalmente” ma da realizzare “positivamente”: nella posizione della delegazione sovietica, com’è noto, il catalogo dei diritti avrebbe dovuto promuovere positivamente il rispetto dei diritti e delle libertà universali, al di là di ogni differenza di nazionalità, lingua o religione, e avrebbe dovuto altresì non solo affermare (o dichiarare), ma soprattutto promuovere (e garantire) l’attuazione dei diritti universali, con obblighi positivi da parte dello Stato, come già previsto nel costituzionalismo sovietico. Diritti che, appunto, ieri le forze conservatrici e reazionarie, oggi le forze monopolistiche e tecnocratiche del capitale non smettono di contrastare e aggredire.
La seconda rottura storica è rappresentata dalla successiva parabola del declino e della crisi nella quale matura la sconfitta storica del movimento operaio e socialista in Europa (come è bene ribadire: in Europa) tra la metà degli anni Settanta e la crisi di sistema degli anni Duemila (la crisi strutturale del 2007-2008).
Le premesse sono gettate dalla fine del sistema di Bretton Woods (il sistema di cambi fissi ancorato al valore dell’oro e mediato dal dollaro statunitense, e quindi la fine della convertibilità del dollaro in oro) nel 1971, dall’esordio della Commissione Trilaterale nel 1973 e dal famigerato rapporto su “La crisi della democrazia” nel 1975 in cui l’attacco del capitale al lavoro e alla democrazia diventa frontale ed esplicito: critica del presunto “eccesso di democrazia”; affermazione del primato degli organi esecutivi sugli organi rappresentativi; rovesciamento del rapporto tra potere economico e potere democratico.
Sono gli anni della prima affermazione della destra (anche in forme radicale) su vasta scala nell’intero sistema occidentale (Margaret Thatcher, 1979; Ronald Reagan, 1981; Helmut Kohl, 1982; Yasuhiro Nakasone, 1982; Yitzhak Shamir, 1983). Le basi del liberismo radicale e della violenta aggressione ai diritti del lavoro e alle prerogative sindacali sono così gettate, rilanciando potentemente, anche sul piano della narrazione egemonica e della costruzione di immaginario, l’offensiva padronale, una rinnovata lotta di classe dall’alto.
Tuttavia, a dispetto di chi aveva cantato, di fronte alla fine dell’esperienza storica del socialismo sovietico, le “magnifiche sorti e progressive” del modello liberale e perfino la “fine della storia”, la storia non era (non è) finita e le sorti, lungi dall’essere magnifiche e progressive, si sono rivelate, per l’umanità e, in particolare, per il movimento di classe, segnate da nuove contraddizioni e sfide.
È il tempo segnato dalla terza rottura storica, quella tracciata dalla ripresa di vitalità e protagonismo dei movimenti di trasformazione dalla fine degli anni Duemila a oggi. La messa in discussione del paradigma liberista e la fine della stagione storica della “globalizzazione” (per come la si era conosciuta e descritta negli anni Novanta) conducono al mondo quale lo conosciamo oggi, con la rinnovata centralità della contraddizione e della conflittualità inter-imperialistica, con l’inedita affermazione di socialismi di tipo nuovo (dal “socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era” ai socialismi di ispirazione umanista e bolivariana che attraversano l’America latina, fino alle più recenti esperienze di progresso in Africa, un panorama che nell’insieme va spesso sotto la denominazione di “socialismi del XXI secolo”) e, in definitiva, con l’affermazione della grande contraddizione storica del tempo presente; imperialismo egemonico vs. mondo multipolare.
Peraltro, basterebbero gli esempi sopra rapidamente richiamati, per rendere conto della vitalità delle “vie nazionali” e della capacità del socialismo, sulla base della realtà storica, di esplorare forme e “vie nuove”.
La rinnovata centralità, cui si accennava, dell’imperialismo lo ripropone come categoria strutturale centrale del presente, dove si manifestano, in forma articolata e attuale, i ben noti “cinque contrassegni”: la concentrazione della produzione e del capitale con la formazione di monopoli con una funzione decisiva nella vita economica; la fusione del capitale bancario con il capitale industriale nel “capitale finanziario” e il formarsi, sulla base di questo, di una vera e propria oligarchia finanziaria; la crescente importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; l’affermazione di centrali monopolistiche internazionali, che si ripartiscono il mondo per aree e mercati di influenza; infine, la sostanziale ripartizione della Terra tra le potenze capitalistiche e la pulsione alla guerra che, non a caso, si riaffaccia come vera e propria “cifra” del tempo presente.
Quanto alla forma dell’oligarchia finanziaria e all’importanza (economica e, in definitiva, politica) dell’esportazione di capitale sostenuta dal ruolo attivo degli Stati (le potenze imperialistiche), basterà passare in rassegna alcuni elementi. I due principali fondi di investimento al mondo (BlackRock e Vanguard) gestiscono un valore pari a ca. il 15% dell’intero Pil mondiale; i principali dieci fondi detengono tra il 30% e il 40% delle prime 500 società mondiali; dei primi venti fondi di investimento, ben quindici (tra cui tutti i primi cinque) sono basati negli Stati Uniti, appena due in Francia, uno in Gran Bretagna, uno in Germania e uno in Svizzera, il che indica chiaramente dove si concentri il potere del capitalismo mondiale e dove si attestino le principali potenze imperialiste.
Per fare un confronto, i due più grandi fondi sovrani, di proprietà degli Stati, il Fondo petrolifero norvegese e il Fondo statale cinese, superano di poco i 2.000 miliardi di dollari, a fronte del fatto che i primi due gruppi privati superano rispettivamente i 10.000 e gli 8.000 miliardi di dollari.
Un’ultima riflessione può opportunamente esser riservata alla forma del cosiddetto «socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era».
Com’è noto, la struttura del sistema cinese, regolata dalla pianificazione e a prevalente proprietà pubblica e statale, è articolata in quanto comprende l’economia statale, collettiva, privata, individuale, a gestione congiunta, a composizione azionaria. Lo Stato mantiene il controllo su tutti i fattori fondamentali e su tutti i comparti strategici: terra, industria pesante, energia, trasporti, infrastrutture, comunicazioni, finanza e commercio estero, mentre la produzione privata è incoraggiata nella misura in cui stimola e dinamizza lo sviluppo tecnologico, il mercato interno e la modernizzazione.
Le imprese di Stato ricadono nel quadro della direzione economica statale e i loro obiettivi non rispondono a interessi di natura esclusivamente economico-quantitativa, come dimostra il fatto che “il margine di profitto medio delle imprese statali cinesi è di appena il 3,5%”.
Il complesso costituito dalle aziende di proprietà statale o sotto controllo statale costituisce la totalità delle più importanti aziende cinesi; la Commissione statale per la supervisione e l’amministrazione dei beni di proprietà statale del Consiglio di Stato cinese controlla 97 grandi aziende statali, con un patrimonio di oltre 30 mila miliardi di dollari (2023).
Le aziende statali rappresentano oltre un terzo dell’economia cinese e oltre un quarto di tutte le aziende maggiori nel mondo, presenti nella lista Global Fortune 500; delle prime dieci, tre sono cinesi (State Grid, Sinopec, China National Petroleum Corporation). Come ribadito peraltro in più occasioni dal presidente cinese Xi Jinping, «la modernizzazione cinese è la modernizzazione socialista perseguita sotto la direzione del Partito comunista cinese» (settembre 2023).
Riferimenti
“Elogio del comunismo del Novecento”, Le sessioni del Forum, 28 settembre 2024.
Gianmarco Pisa, “Il Giorno della Vittoria, il 9 Maggio”, Futura Società, 9 maggio 2025.
John Kenton, “Human Rights Declaration Adopted by U.N. Assembly”, The New York Times, 10 dicembre 1948.
Alessandro Volpi, “I fondi d’investimento, padroni del mondo”, Sbilanciamoci, 20 giugno 2024.
Steven Argue, “Russia e Cina non sono imperialiste”, The Greanville Post, 6 maggio 2015.
Allen J. Morrison, J. Stewart Black, “Il dominio economico della Cina è al punto di flesso?”, Harvard Business Review Italia, marzo 2024.
Xi Jinping: La modernizzazione cinese è la modernizzazione socialista guidata dal Pcc, originariamente apparso sul «Qiushi Journal», edizione cinese, n. 11, 2023, ripubblicato in italiano, 16 aprile 2024.
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