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07/06/2025

Trump telefona a Xi

di Michelangelo Cocco

Dopo quella, formale, con la quale Xi Jinping, il 17 gennaio scorso, si congratulò per il ritorno alla Casa bianca di Donald Trump, la telefonata di 90 minuti di ieri ha rappresentato il primo vero confronto tra i presidenti di Cina e Stati Uniti, in un contesto mai così teso tra i due paesi negli ultimi anni.

Più volte annunciata da Tariff Man negli ultimi mesi, la comunicazione era stata rimandata a lungo, anche perché la diplomazia di Pechino ha assistito con sconcerto alle due “imboscate” a favore di telecamere tese da Trump al presidente ucraino, Volodymyr Zelenski, e al sudafricano Cyril Ramaphosa, e ha voluto concordare il copione da seguire nei minimi dettagli, in modo che la comunicazione tra il numero uno della potenza in ascesa e il capo di quella in declino procedesse senza sbavature. Soprattutto, così come per il summit Cina-Usa dell’11 maggio scorso a Ginevra, i cinesi hanno puntualizzato che sono stati gli americani a richiederla ufficialmente.

Xi ha utilizzato la telefonata per ricordare ai cinesi che lui è un quasi-imperatore, mentre l’altro tra meno di quattro anni dovrà sloggiare da Capitol Hill; e per confermare la validità delle sue politiche. «Trump ha espresso grande rispetto per il presidente Xi Jinping, sottolineando che le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono di grande importanza. Gli Stati Uniti accolgono con favore la continua e forte crescita economica della Cina», ha riferito la CCTV.

I due presidenti si sono scambiati l’invito a visitare al più presto i rispettivi paesi.

Pechino non aveva fretta di confrontarsi col supereroe dei dazi, perché in risposta al suo sfoggio di muscoli ha utilizzato “l’arma fine di mondo” del monopolio delle terre rare (fondamentali in una vasta gamma di prodotti hi-tech, tra cui i caccia F-35), centellinandone l’esportazione.

Inoltre, come in altri momenti difficili nelle relazioni sino-statunitensi (vedi il fallito tentativo di Bill Clinton di togliere alla Cina lo status di “nazione più favorita nel commercio”), ha utilizzato corporate America per ammansire Trump. E così, nei giorni scorsi, mentre a Washington le organizzazioni imprenditoriali statunitensi lanciavano la China Business Conference per convincere Trump a garantire il futuro dei fornitori cinesi, Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, volava in Cina per esprimere al vicepremier, He Lifeng, l’auspicio di ulteriori investimenti nel paese.

Infine, da quando Trump ha imposto tariffe urbi et orbi, la Cina alfiere del libero commercio – secondo uno studio della compagnia d’intelligence Usa Morning Consult – ha un rating favorevole netto di 8,8, rispetto a -1,5 per gli Stati Uniti, un’inversione netta rispetto a gennaio 2024, quando la valutazione degli Stati Uniti era superiore a 20 e quello della Cina era in territorio negativo.

Dopo la comunicazione di ieri, Trump ha ostentato il suo incrollabile ottimismo: la chiamata «è risultata in una conclusione molto positiva per entrambi i paesi», ha assicurato. Quale? Bisognerà attendere i prossimi giorni per capirlo.

Secondo il presidente Usa, il flusso di terre rare dalla Cina riprenderà regolare: «Non dovrebbero più esserci dubbi sulla complessità dei prodotti derivati dalle terre rare. I nostri rispettivi team si incontreranno a breve».

Nel comunicato cinese si afferma che «a Trump fa piacere che i giovani cinesi vadano a studiare negli Stati Uniti», ma non si fa accenno alle terre rare. In quello statunitense si sostiene che Pechino si impegna a riprendere l’export regolare delle terre rare, ma non si parla degli universitari cinesi.

Forse hanno ragione entrambi: l’apparente discrasia è solo un modo – concordato – di mettere in risalto il risultato ottenuto, nascondendo la concessione fatta all’avversario.

Inoltre, secondo Trump si è parlato praticamente solo di commercio, mentre Xinhua riporta che «Xi ha sottolineato che gli Stati Uniti devono gestire la questione di Taiwan con prudenza, affinché i separatisti estremisti che vogliono “l’indipendenza di Taiwan” non trascinino la Cina e gli Stati Uniti nel pericoloso terreno dello scontro e persino del conflitto. [...] Trump ha affermato che gli Stati Uniti rispetteranno la politica di una sola Cina».

Durante la chiamata, Xi ha invitato Stati Uniti e Cina a «cercare risultati vantaggiosi per tutti in uno spirito di uguaglianza e nel rispetto reciproco delle rispettive preoccupazioni», esortando Washington a «rimuovere le misure negative adottate contro la Cina». «Ricalibrare la direzione della gigantesca nave delle relazioni Cina-Usa richiede che prendiamo il timone e impostiamo la rotta giusta», ha detto Xi alla controparte statunitense.

Dopo la tregua di 90 giorni sottoscritta tre settimane fa tra le due amministrazioni a Ginevra – che ha sospeso la maggior parte dei super-dazi reciproci sulle importazioni di merci – Trump aveva accusato Pechino di aver “violato” quell’accordo (probabilmente in riferimento ai controlli sull’export di terre rare da parte della Cina, non oggetto di quell’intesa) e aveva rilanciato imponendo restrizioni all’export in Cina di macchinari per la progettazione di microchip e attraverso l’annuncio del segretario di stato, Marco Rubio, sulla revoca dei visti ai cinesi studenti negli Usa “legati al partito comunista” o che si occupano di “materie sensibili”. La tensione era insomma salita alle stelle, con tanto di retorica da caccia alle streghe maccartista.

Ora secondo Pechino quello raggiunto nella città svizzera è un “buon accordo” e «gli Stati Uniti lavoreranno con la Cina per applicarlo».

Insomma si riparte da lì. Ma per Trump, che ha già dovuto cedere sulla tempistica del dialogo, sarà altrettanto difficile portare a casa risultati sostanziali per quanto riguarda i suoi contenuti. Pechino infatti pretende – prima di eventualmente sedersi a un tavolo per discutere un accordo commerciale con Washington – la rimozione di tutte le tariffe rimaste in vigore sulle sue importazioni negli Usa, che ammontano complessivamente al 45,3 per cento, più che sufficienti per scoraggiare e in parte bloccare l’esportazione di prodotti cinesi negli Usa.

Si tratta di dazi unilaterali, contrari alle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio. Se non otterrà la rimozione totale o almeno della gran parte di questo restante 45,3 per cento, la Cina potrebbe riprendere a “reciprocare”: la guerra commerciale cioè ripartirebbe, con effetti devastanti non solo sui produttori e gli esportatori cinesi, ma anche sugli importatori e sui consumatori americani.

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