Le due manifestazioni contro il riarmo e la guerra che hanno sfilato nelle strade di Roma sabato scorso, inducono a qualche considerazione utile per il presente e per il futuro.
Nel paese c’è una forte sensibilità contro le minacce di guerra che incombono nelle relazioni internazionali e nella tenuta democratica del “fronte interno”. Come questa sensibilità troverà la strada per darsi rappresentanza politica nel paese è ancora una incognita e una sfida tutta aperta.
La partecipazione di massa, niente affatto scontata ma visibile a tutti, rende superflua ogni guerra di cifre tra le due manifestazioni, anche perché i due cortei hanno indicato una composizione sociale – oltre che piattaforme e prospettive politiche – diverse tra loro.
La composizione sociale del corteo partito da Porta San Paolo non è andata oltre i soggetti tradizionali dell’associazionismo, del terzo settore, dei sindacati concertativi e di qualche residuale partito e realtà della sinistra radicale. Una composizione vista e ripetuta nel tempo che ripropone un consueto perimetro sociale, politico e culturale che si riproduce ma non si espande.
Quasi spontaneamente emerge la domanda su come dovrebbero sentirsi le migliaia di persone che, generosamente e magari dopo aver viaggiato per centinaia di chilometri, hanno partecipato alla manifestazione partita da Porta San Paolo con vagonate di buone ragioni, ma che poi hanno visto la gestione politica delle stesse ragioni affidata quasi esclusivamente alle dichiarazioni dei vari Conte, Bonelli, Fratoianni. Per chi non ha un rapporto fideistico o stipendiale con tali leadership non deve essere proprio un piacere.
Dentro lo schema bipolarista che il sistema politico intende imporre come una gabbia alla dialettica politica nel paese, non c’è stato e non ci sarà spazio alle loro ragioni ma solo per quelle previste da tale schema.
Si fa invece francamente fatica a sorvolare sull’opportunismo di settori “di movimento antagonista” che, con una subalternità disarmante, hanno scelto di essere in quella piazza e in quella composizione sociale, dalla CUB che il giorno prima sciopera con i sindacati di base e il giorno dopo va in piazza con quelli concertativi, ai vari gruppi o collettivi ultracomunisti che pensano sempre di poter influenzare le piazze di altri ma ne vengono sempre e sistematicamente risucchiati.
Portare uno striscione contro la Nato o avere l’uscita dalla Nato come tema della piattaforma è cosa ben diversa e non produce certo risultati duraturi sul piano dell’orientamento e dell’azione politica.
Ancora una volta, dunque, vediamo zero spazio per l’autonomia dei movimenti contro la guerra, degli uomini e donne che li animano materialmente e un tentativo di ferreo controllo da parte della “politica”, un controllo visibile oggi per essere giocato domani sul piano elettorale per il campo largo e, se possibile, di governo.
Un destino amaro, ma che tale rimarrà, se non emergeranno nuove ipotesi di spazio ed espressione politica, sui temi della guerra e della pace sicuramente, ma anche più complessivamente sugli assetti politico-sociali del paese.
Diversamente la manifestazione partita da Piazza Vittorio ha mostrato materialmente un blocco sociale possibile e alternativo, fatto visibilmente di studenti, lavoratori, realtà sociali di lotta. Dagli occupanti delle case ai lavoratori della logistica, delle fabbriche, della ricerca e del Pubblico Impiego fino ai camionisti organizzatisi recentemente in modo indipendente con l’USB; e poi gli studenti di Cambiare Rotta, di OSA e del CAU fino alle strutture locali di Potere al Popolo, ai NO TAV e a molti altri comitati territoriali.
Da qui è derivata non solo la maggiore vivacità, combattività e nuova anagrafe politica del corteo ma anche la possibilità di una nuova composizione sociale e politica alternativa e indipendente dallo schema bipolare che si vorrebbe imporre.
Una condizione, questa, importante per costruire una prospettiva indipendente ma radicata nel complesso tessuto sociale, rifiutando il politicismo imperante a sinistra e mirando ad allargarsi alla nuova composizione di classe maturata nel paese.
Lo stesso sciopero generale del 20 giugno ha dimostrato come la realtà stessa stia producendo una politicizzazione della lotte sindacali suscitando tra i lavoratori una crescente attenzione e presa di coscienza sui pericoli di guerra e i danni derivanti dall’economia di guerra.
D’altra parte l’aggressione statunitense all’Iran, avvenuta nella notte tra il 21 ed il 22 giugno, è talmente grave e foriera di sviluppi drammatici per tutti, anche per il nostro paese, che potrebbe incrinare quella passività che da troppo tempo è stata ideologicamente assorbita dal mondo del lavoro. Lo sciopero del 20 si è posto appunto su questo crinale della contraddizione in antagonismo ai sindacati complici.
È una condizione nuova e di enorme interesse ma che, appunto, deve trovare all’appuntamento organizzazioni sindacali e ragionamenti come quelli messi in campo dall’USB e non comunicati formali che non si trasformano mai in azioni coerenti.
Le contraddizioni della realtà stanno infatti producendo condizioni nuove che lasciano intravedere un blocco sociale possibile da mettere in campo contro i governi e gli apparati che stanno portando l’umanità di nuovo dentro il gorgo del riarmo e della guerra.
La piena riuscita della manifestazione del Coordinamento Disarmiamoli del 21 giugno ci restituisce un ottimo risultato ma anche stimoli e indicazioni utili per il prossimo futuro.
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