L’ultimo editoriale pubblicato da The Economist si inserisce nella lunga scia di contributi che mettono in chiaro una cosa: l’enorme corsa al riarmo votata prima dalla UE, col proprio programmare Readiness 2030, e quella da poco approvata nella cornice NATO, col nuovo target per le spese militari al 5% del PIL, sarà un pericolo per i conti pubblici.
Ciò significherà, in pratica, che il riarmo potrà essere affrontato solo col taglio delle spese sociali, mentre la propaganda sullo straordinario ritorno economico che questo massiccio investimento in armamenti dovrebbe avere si rivela molto più flebile di quel che viene annunciato. Ma andiamo con ordine.
Il settimanale britannico fa un paio di conti: se davvero i paesi NATO arrivassero a spendere il 5% del proprio PIL in spese militari, ciò vorrebbe dire che entro il 2035 tale voce di bilancio sarebbe aumentata di 684 miliardi di euro, in termini reali, rispetto al periodo appena precedente al febbraio 2022. Secondo l’osservatorio Milex, per l’Italia significa 6-7 miliardi di euro in più all’anno rispetto a oggi.
Anche conteggiando esborsi prima non considerati come facenti parti della ‘difesa’, risulta evidente che tutto ciò metterà fortemente sotto pressione i conti pubblici. Anche per chi ha attivato la clausola di salvaguardia il faccia a faccia con i vincoli europei è solo rimandato. E poi c’è un ‘combinato disposto’ che farà peggiorare i valori per tutti.
Infatti, la spesa pubblica potrà aumentare in maniera diretta, ma anche per il semplice fatto che l’enorme investimento per un settore che è espressione per eccellenza di instabilità internazionale – quello militare – e l’incrementata emissione di titoli di debito spingerà gli interessi su questi e sul loro rinnovo. Il servizio sul debito diventerà quindi sempre più pesante.
Ciò varrà anche per quei paesi che, almeno per ora, hanno detto di non voler usufruire di alcuna clausola di salvaguardia, come appunto l’Italia. È ovvio che in mercati integrati come quelli occidentali si produca un effetto del genere, tra chi guarda alle aspettative di mercato. Era già successo qualche mese fa, e il nostro giornale lo aveva denunciato immediatamente.
Ultimamente, anche la BCE aveva sottolineato che il riarmo che Bruxelles ha approvato mette a serio rischio la stabilità finanziaria di tutti coloro che sono imbrigliati nella cornice UE. Per tamponare tale effetto, che colpirà ad ogni modo ogni paese NATO, per l’Economist l’unica possibilità è che, in concomitanza con l’aumento delle spese militari, vengano ridotte le spese sociali: dagli ospedali alle scuole, dalle pensioni ai sussidi di disoccupazione.
Inoltre, non funzionerebbe nemmeno la retorica per cui, almeno in parte, il riarmo porterà più lavoro, più PIL e, dunque, più entrate. “Tali argomentazioni sono sbagliate e politicamente fuorvianti”, dice il settimanale. E questo perché se è vero che l’innovazione militare può favorire l'aumento della produttività privata, le speranze occupazionali devono essere ridimensionate.
“La produzione militare, come gran parte della manifattura moderna – scrivono – è altamente specializzata e automatizzata. Ciò significa che il riarmo creerà meno posti di lavoro rispetto a quelli persi a causa delle nuove tecnologie o della concorrenza straniera”. Per di più, “secondo una stima, l’aumento della spesa per la difesa nei Paesi europei della NATO potrebbe generare 500 mila posti di lavoro, un numero irrisorio se confrontato con i 30 milioni di lavoratori nel settore manifatturiero dell’UE”.
La differenza nell’ordine di grandezza l’avevamo già notata in un altro articolo, appena uscito. Per quanto riguarda la concorrenza, è bene ricordare che molti dei soldi che verranno spesi in UE andranno a finanziare il complesso militare-industriale statunitense, come del resto ha reso chiaro anche l’Ufficio Parlamentare di Bilancio italiano.
Rimane da fare un ultimo appunto all’articolo dell’Economist, che ancora una volta ha palesato l’idiozia del riarmo, UE o NATO che sia. Il giornale evidenzia che una spesa non coordinata a livello europeo è foriera di sprechi e mancanza di interoperabilità. Se è vero che molto del riarmo serve a riattivare, almeno in parte, le industrie nazionali, lo strumento del SAFE è pensato da Bruxelles proprio per favorire la costruzione di un complesso militare-industriale integrato a livello europeo.
Dunque, i vertici europeisti stanno già lavorando nella direzione che indica l’Economist. Ma il problema di fondo rimane, soprattutto tutte queste armi acquisiranno senso – e l’industria bellica potrà continuare a essere stimolata – solo se, alla fine, un conflitto su larga scala verrà scatenato.
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