Non c’è nulla di peggio, per il mondo, di un imperialismo in crisi che dà di matto, agitandosi molto ma senza raggiungere alcun risultato positivo.
L’impressione si rafforza mettendo in fila quel che l’amministrazione Trump ha combinato nelle ultime 48 ore. Trovarci uno straccio di “impostazione strategica” non è difficile. È inutile.
Tutti hanno tentato di capire cosa è stato detto nella telefonata di un’ora e un quarto che Trump ha tenuto con Vladimir Putin. E da entrambe le parti si è diplomaticamente concluso che è stata “positiva”, ma senza produrre risultati tali da metter fine ai combattimenti in poco tempo.
Del resto, se c’era una vaga possibilità di avvicinarsi al traguardo, convocando un nuovo giro di colloqui a Istanbul, gli attacchi ucraini a due ponti (con una strage su un treno passeggeri), quello di fatto fallito al ponte di Kerch e quello meglio riuscito contro alcune basi di bombardieri strategici lontanissimi dal fronte, hanno certamente rinviato a data da stabilirsi il prossimo passaggio concreto.
In questo passo indietro – o avanti verso la guerra nucleare, visto che toccare i bombardieri strategici equivale a portare un attacco nucleare (teso a ridurre le possibilità operative del nemico) – è notorio che hanno avuto un ruolo i servizi britannici, un cui esponente risulta tra i morti a Sumy, in Ucraina, a poche ore dagli attacchi.
E proprio i britannici sembrano i più infoiati nel piccolo manipolo di guerrafondai europei (quasi quanto i nanerottoli baltici, almeno), tanto da annunciare la costruzione di nuovi sommergibili nucleari, oltre a spingere apertamente Kiev a chiedere un “cessate il fuoco” durante il quale poter inviare nuove armi e persino truppe europee in Ucraina.
L’unico successo di Londra, per il momento, sta però nell’aver mantenuto al 25% i dazi imposti da Trump su acciaio e alluminio, mentre al resto d’Europa e del mondo sono stati raddoppiati al 50%.
Nelle stesse ore, per la prima volta da quando l’organismo è stato formato su decisione Usa, il nuovo segretario alla Difesa, Pete Hegseth, non ha partecipato alla riunione del gruppo di contatto per il coordinamento dell’assistenza militare all’Ucraina, noto come “formato Ramstein”.
Il significato appare inequivocabile: la guerra in Ucraina deve diventare soprattutto un affare degli europei, visto che ci tengono tanto a continuarla. Il che mette in qualche misura nell’incertezza anche “l’ombrello nucleare” statunitense nel caso l’escalation dovesse degenerare.
Fin qui la strategia ucraino-britannica (solo in parte anche francese e polacca) è stata quella di provocare la Russia perché mettesse in atto risposte “esagerate”, tali da far scattare un intervento diretto della Nato. Ma se questa visione sembrava approvata dal rimbambito Biden, certamente non appartiene all’amministrazione Trump, che punta invece decisamente al fronte del Pacifico come teatro principale per “contenere” la Cina.
Ma un imperialismo fuori di cranio moltiplica i fronti di conflitto quasi come fosse un gioco. Proprio ieri Trump ha annunciato un nuovo divieto o limite di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di 19 Paesi.
Secondo un documento diffuso dalla Casa Bianca, il provvedimento prevede restrizioni totali per alcuni Stati e limitazioni parziali per altri. Il divieto riguarda i cittadini di Afghanistan, Birmania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Restrizioni parziali si applicano invece a Cuba, Venezuela, Burundi, Laos, Sierra Leone, Togo e Turkmenistan.
Il tutto è stato giustificato con l’“attacco antisemita” di Boulder, in Colorado, dove una manifestazione della comunità ebraica locale è stata aggredita da immigrato con il permesso scaduto. Solo che quello era di nazionalità egiziana, ma l’Egitto – per molti buoni motivi, agli occhi degli Usa – non rientra nella lista dei paesi “bloccati”.
Indipendentemente dai paesi di provenienza, invece, prosegue la guerra di logoramento con Harvard e altre università di primo livello, con l’amministrazione che pretende di bloccare ogni programma di scambio con università straniere nonché di avere l’elenco completo degli studenti non “indigeni”. Per farci cosa non si sa, ma sicuramente non per promuovere gli scambi culturali.
L’unico fronte su cui la politica Usa appare chiarissima è il genocidio a Gaza. Il nuovo capo dell’Executive Team dell’organizzazione privata Ghf, incaricata di distribuire gli aiuti alimentari ai palestinesi prigionieri nel mattatoio, è Johnnie Moore, reverendo evangelico.
Uno che può vantare nel suo curriculum di essere “Vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui la Medaglia al Valore del rinomato Simon Wiesenthal Center”, “un’organizzazione globale di attivisti ebrei per i diritti umani che combatte l’antisemitismo e l’odio, difende la sicurezza di Israele e degli ebrei in tutto il mondo”. Ma che, da quando i nazisti storici sono passati a miglior vita, se la prende soltanto con chi critica Israele e il suo suprematismo razzista.
La comunità evangelica statunitense, del resto, è da sempre a favore del movimento dei coloni, alla costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania e al trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme.
La sua nomina è insomma una garanzia per Netanyahu, perché possa più agevolmente condurre la “soluzione finale” con gli strumenti che preferisce.
Stiamo insomma assistendo ad una serie di mosse il cui unico filo conduttore sembra il mantenere se stessi al centro dell’attenzione mondiale, moltiplicando i problemi senza saper indicare nessuna soluzione (fosse pure ultra-reazionaria).
Se è vero che “dio confonde coloro che vuol perdere”, gli Usa di Trump stanno certamente in cima alla lista...
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