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25/06/2025

Ogni “pace” ha almeno uno sconfitto. Stavolta tocca ad Israele

Facciamo finta che ora ci sia “la pace”. E facciamo anche finta di prendere per buone le dichiarazioni di giubilo di tutti e tre i protagonisti della “guerra dei dodici giorni”: Usa, Israele e Iran.

Primo problema: si smentiscono una con l’altra. Del resto è inevitabile, visto che tutti e tre dicono di “aver vinto” e “raggiunto tutti propri obiettivi”.

L’analisi dei fatti è un po’ meno ecumenica, com’è giusto che sia per essere credibile.

Trump ha raggiunto certamente l’obiettivo di far capire a tutti, soprattutto dentro l’“Occidente collettivo”, che sono gli Stati Uniti il capotreno di questo convoglio, non certo Israele e in primo luogo Netanyahu.

La reprimenda allo scolaretto indisciplinato che voleva continuare a bombardare anche dopo “l’ordine di tregua” arrivato da Washington, ha chiarito che Tel Aviv è stata e resta un “proxy” della politica Usa in Medio Oriente. Un proxy che si era montato la testa illudendosi di poter costringere “il cervello della piovra” occidentale a seguire le proprie finalità.

Il rapporto era apparso decisamente invertito quando Trump, rovesciando la sua posizione, aveva dato infine l’ordine di bombardare con le bunker-buster i tre siti nucleari iraniani più noti. Poi si è visto – stante anche alle sue stesse dichiarazioni – che l’attacco Usa era stato “telefonato” in tempo, così come aveva poi fatto Teheran quando, “costretta” a dare una risposta, ha spedito un numero di missili limitato nei pressi della base statunitense in Qatar.

“Non si è fatto male nessuno!”, ha gioito The Donald ringraziando platealmente gli ayatollah.

Il successivo attacco israeliano è stato stoppato quando era già in corso, concedendo soltanto un colpo su un vecchio radar di poco conto. La “pace” era salva, Trump era il leader che impone la sua volontà a tutti, e il business poteva riprendere (“l’Iran è un paese di grandi commercianti, ha un sacco di petrolio, si può fare molto con loro”).

Anche Teheran, a ben vedere, ha molte ragioni per dichiararsi vittoriosa. Come spiega l’inchiesta del New York Times, l’attacco Usa “ha ritardato il programma nucleare del paese solo di pochi mesi”. Infatti “gli attacchi hanno bloccato gli ingressi di due delle strutture ma non hanno fatto crollare gli edifici sotterranei”.

Calcolando che comunque, da “americani”, bisognava rivendicare di aver fatto un certa quantità di “lavoro”, si può stimare che in effetti il potenziale nucleare di Teheran – solo civile, bisogna ricordare – è rimasto praticamente intatto.

In più, i dodici giorni di bombardamenti reciproci hanno fatto vedere al mondo che Israele non è affatto invulnerabile e che – al netto del possesso (illegale) di testate atomiche – uno scontro di lunga durata con l’Iran non è sostenibile. Anche se il livello tecnologico degli armamenti di Tel Aviv resta ancora superiore a quello iraniano, il differenziale si è andato riducendo moltissimo.

E l’osannato “scudo antimissile” Iron Dome, pur restando una copertura efficiente, non riesce a contenere attacchi “a saturazione”, condotti cioè con un numero di missili superiore a quanti ne può abbattere lo “scudo”. Appare significativo che a soli quattro giorni dall’inizio delle ostilità Tel Aviv era costretta ad ammettere che il tasso di abbattimento dei missili in arrivo era sceso dal 90 al 65%. Cifre oltretutto probabilmente gonfiate dalla propaganda di guerra, abituata a dipingere Israele come untouchable.

Del resto le immagini sui circuiti internazionali descrivevano città israeliane somiglianti ormai alla Beirut di qualche mese fa, e neanche la censura di Netanyahu riusciva più a impedire che il mondo vedesse quel che i cittadini israeliani toccavano con mano.

Il vero successo di Teheran, insomma, è duplice: aver mantenuto quasi integralmente il proprio programma nucleare civile e aver sostanzialmente ridimensionato Israele.

Di conseguenza il vero sconfitto è Tel Aviv. Il che garantisce che “la pace” sarà probabilmente di breve durata. Ma costringerà Netanyahu e la sua banda di invasati millenaristi a rivedere quanto meno i mezzi con cui cercare di realizzare una strategia che non sa e non può cambiare.

Qualcosa in questo senso già si sta vedendo, con diverse fonti che descrivono un aumento del traffico di armi leggere attraverso il confine azero, probabilmente finalizzato a rendere operativi gruppi di opposizione interni al paese. Un po’ di guerra civile interna all’Iran, insomma, da accompagnare magari con altre campagne di omicidi mirati contro generali e scienziati nucleari.

Come si vede, non c’è grande differenza con la strategia seguita finora, tranne per una maggiore accentuazione dei “problemi interni” rispetto all’attacco frontale dall’esterno, che resta come possibile “martellata decisiva”.

Sia Washington che Tel Aviv sembrano essersi decisamente sbagliate nel valutare le capacità di tenuta del particolarissimo regime di Teheran – dove si vota e si può eleggere un presidente laico e moderno come Pezeshkian, ma il potere politico finale resta in mano agli ayatollah e buona parte dell’economia e dell’esercito sono sotto il controllo delle Guardie della rivoluzione – illudendosi che un po’ di bombardamenti duri e qualche decina di omicidi “eccellenti” potessero innescare rovesciamenti politici clamorosi.

E non tornano certo a gloria del regime israeliano le telefonate fatte a diversi generali di Teheran, nelle prime ore della guerra, per minacciare di uccidere mogli e figli se non avessero registrato un messaggio di “resa”. Messaggi rimasti peraltro inascoltati, altrimenti verremmo mediaticamente sommersi da “generali che si arrendono”.

Una logica da killer mafiosi, da “corleonesi” e non da militari con un “codice d’onore”. Un abisso nazistoide che difficilmente può suscitare simpatie o ammirazione al di fuori della cerchia ristretta degli squadroni della morte.

Il punto di massima debolezza nella strategia israeliana sembra in fondo proprio questo.

Puoi benissimo, per ottanta anni (quelli trascorsi dalla fondazione dello Stato ebraico), giocare la parte del cane feroce che ogni volta, e contro chiunque, grida “fate come dico io o vi ammazzo tutti”.

Non è bello, ma ha funzionato per un po’... 

Il problema sorge quando il grido non può essere seguito fino in fondo dai fatti, perché l’avversario si mostra all’altezza – sempre facendo la tara sul possesso di armi nucleari – e addirittura fa vedere che non sei più così “invulnerabile”.

Può funzionare fin quando nel sistema di alleanze cui appartieni non è ben chiaro se il tuo ruolo è preminente o solo “prepotente”, tanto da sollevare risentimento nel “capotreno” (Trump) e far muovere passi concreti ad attori fin qui sullo sfondo ma che hanno tutti interesse forte a che Teheran resti un paese solido, industrializzato, ricco e indipendente (Cina, Russia, i Brics+ in genere, compresa l’Arabia Saudita).

Il genocidio a Gaza ha reso Israele un parìa agli occhi del mondo (resistono solo le cancellerie occidentali e la finanza internazionale), mostrando come non riesca a “vincere” neanche contro un piccolo grande popolo di fatto disarmato. La guerra senza vittoria contro l’Iran ne ha scontornato ulteriormente i limiti.

Se non sei più onnipotente e invulnerabile, e quel poco di onore l’hai buttato nel cesso, anche sulla tua strada comincia a scendere il crepuscolo.

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