Cominciamo dalle menzogne di guerra diffuse in questi giorni.
Prima questione. Era il 2012 quando Netanyahu andò all’Onu denunciando con tanto di disegno che l’Iran stava arricchendo l’uranio nelle sue centrali nucleari al 60%. Da allora sono passati tredici anni.
Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, ha precisato nella giornata di ieri: “Siamo arrivati alla conclusione di non poter affermare che al momento ci sia stato alcuno sforzo sistematico in Iran per sviluppare un’arma nucleare”.
Ma il rapporto presentato dall’Aiea, utilizzato da Israele per giustificare l’attacco e come tale veicolato dai governi e dai mass media occidentali, dichiarava che l’Iran stava arricchendo uranio al 60 per cento, ovvero lo stesso livello denunciato da Netanyahu nel 2012 all’Onu.
Delle due l’una. O l’Iran non è riuscito in tredici anni ad arricchire l’uranio oltre il 60% certificato dall’Aiea oppure non lo ha proprio fatto, nonostante gli USA di Trump abbiano fatto saltare nel 2018 l’accordo siglato dall’Iran con diverse potenze mondiali (non solo quelle occidentali).
È allora evidente che questa aggressione militare israeliana all’Iran è esattamente come quella statunitense ed europea contro l’Iraq nel 2003, giustificata con l’esistenza di armi di distruzione di massa mai esistite.
Seconda questione. Un qualsiasi accordo sulle armi nucleari in Medio Oriente non può tenere fuori dalle trattative l’unico arsenale nucleare realmente esistente: quello israeliano.
Come noto non solo l’Iran ma anche l’Arabia Saudita punta all’energia nucleare. Ne consegue che un accordo regionale non può che tenere conto di tutti i fattori, quindi anche del nucleare israeliano, anche se Tel Aviv negli anni si è limitata a negare ogni ammissione sul proprio arsenale atomico, impedire ogni ispezione dell’Aiea nei propri impianti e a non firmare il Trattato di Non Proliferazione nucleare, come invece ha fatto l’Iran, aprendo così le porte alle ispezioni dell’agenzia.
Questa asimmetria non può essere rimossa, né dalla discussione né dalle trattative, tantomeno dalle valutazioni sulla guerra in corso.
Terza questione. È vero, Israele sta facendo “il lavoro sporco per conto dell’Occidente” come ha dichiarato l’inquietante cancelliere tedesco Mertz. Contestualmente Netanyahu ha dichiarato che “Israele modificherà il profilo del Medio Oriente”. Il significato di questa ennesima guerra d’aggressione israeliana sta tutto qua.
La regione mediorientale, a stragrande maggioranza arabo-islamica, dovrebbe continuare ad essere “profilata” da un potenza del tutto estranea a tale contesto ma sistematicamente sincronizzata sugli interessi strategici occidentali, statunitensi o europei che siano.
È ancora difficile fare previsioni durature sugli scenari con cui faremo i conti nei prossimi giorni, settimane, mesi, in Medio Oriente.
Ci auguriamo che l’Iran – in tutte le sue articolazioni statali e popolari – non pieghi la testa davanti all’aggressione israeliana e tenga botta, almeno fino a quando non si metterà fine all’escalation militare scatenata da Tel Aviv.
Non sono pochi gli esperti militari che osservano come Israele si trova a fare i conti con un soggetto sostanzialmente diverso dalle entità non statali con cui è stata abituata a fare il bello e il cattivo tempo (dalle organizzazioni palestinesi a Hezbollah agli Houthi yemeniti).
La risposta missilistica iraniana sulle città israeliane è una cosa ben diversa dai rudimentali razzi lanciati da Gaza o dal Libano, lo è per quantità e qualità, un fattore questo che mette a dura prova l’invincibilità declamata dei sistemi anti-missile israeliani abbondantemente – ma oggettivamente limitati – fornitegli dagli Stati Uniti in questi decenni.
Tutti questi fattori concomitanti concorrono a rendere la guerra in corso un conflitto sostanzialmente diverso e più grave di quelli che abbiamo vissuto in questi ultimi anni. Il suo impatto e le sue onde lunghe sono e saranno pesantissime, ma danno anche il segno della “precipitazione della storia” in cui siamo entrati in questi ultimi anni.
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