“Abbiamo gettato le basi per una NATO più forte, più equa e più letale. Un piano che rafforzerà la nostra difesa e creerà nuovi posti di lavoro”. Queste sono solo alcune delle parole pronunciate da Mark Rutte, segretario generale dell’alleanza atlantica, a margine del vertice dell’Aja in cui è stato deciso l’aumento delle spese militari fino al 5% (3,5% in difesa propriamente detta, 1,5% in cybersicurezza, infrastrutture critiche, mobilità militare, tecnologie dual use).
Lasciamo da parte quel “più letale”, che a quanto pare è un altro dei ‘valori occidentali’ tanto sbandierati… apriti cielo se una cosa simile l’avesse detta Putin o Khamenei. È interessante che il politico olandese ci abbia tenuto a sottolineare che questa corsa agli armamenti creerà tanti posti di lavoro. Qualcosa che fa molto gola in un’Europa in profonda crisi industriale.
Proprio il 25 giugno è uscito un articolo su Il Sole 24 Ore che analizzava la netta crescita di offerte di lavoro nel settore della difesa. Stando ai dati forniti da Indeed, una piattaforma online per la ricerca di un impiego, gli annunci nei comparti collegati crescono più della media in Europa.
L’analisi è stata effettuata sulle offerte di 25 grandi aziende della difesa europea, tra cui vanno sicuramente ricordate Airbus, BAE Systems, Dassault Aviation, KNDS, Kongsberg, MBDA, Qinetiq, Rheinmetall, Rolls-Royce, Saab, Thales, ThyssenKrupp, e infine le italiane Leonardo e Fincantieri.
Ebbene, nell’aprile 2025, seppur in rallentamento, l’aumento degli annunci per la ricerca di personale sono aumentati del 45% rispetto al 2021. Dopo la pandemia, se in generale il mercato dell’offerta di lavoro ha raggiunto il proprio culmine nel luglio 2022, per poi tornare a calare (è recentemente sceso del 2% al di sotto del valore di riferimento), non è stato così per l’industria della difesa.
La quota maggiore di annunci di lavoro proviene dalla Francia, circa il 46% e comunque in diminuzione rispetto al 57% di inizio 2020. Seguono poi Germania e Regno Unito, entrambe intorno al 17%. Togliendo momentaneamente l’Italia dal calcolo, le offerte di altri paesi UE o europei della NATO è aumentata dal 6% al 21%, con particolare attenzione ai profili informatici e ingegneristici.
Ad aprile 2025, il 9% del totale degli annunci proveniva da società italiane. Può non sembrare tanto, ma la ricerca di posizioni nel settore della difesa, tra gennaio 2022 e maggio 2025, si sono moltiplicate di 3,6 volte. I più richiesti, di nuovo, sono professionisti informatici e ingegneri, in particolare sviluppatori di software (16,5%) ed esperti di ingegneria industriale (14,1%).
Alla fine dell’articolo da cui sono stati tratti questi dati viene ribadito, come più volte nelle righe precedenti, che tuttavia la difesa esprime un’area di nicchia del mercato del lavoro. Al 2023, i dati dell’organizzazione Aerospace, Security and Defence (ASD), che rappresenta più di 4 mila compagnie in 21 paesi europei, segnalavano un netto aumento degli impieghi rispetto al 2022 (+8,9%) nell’industria della difesa, che tuttavia contava ancora 581 mila lavoratori.
Se volessimo fare un paragone con quella che è stata la spina dorsale dell’industria dei paesi avanzati negli ultimi decenni, ovvero l’automotive, si tratta all’incirca di un decimo di quanti sono occupati nella sola produzione diretta di auto, senza considerare l’intera filiera. È evidente perciò che la propaganda sul lavoro creato dal riarmo evita di citare delle evidenze facili a trarsi.
La prima, e probabilmente la più preoccupante, è che anche con un maggiore investimento nel settore, l’unico modo in cui l’industria bellica potrebbe in qualche modo coprire la desertificazione industriale che sperimentiamo da anni è, di fatto, con una guerra mondiale, cioè con la totale conversione – e militarizzazione – delle attività civili per uno sforzo bellico totale e totalizzante, tipico di un impegno ben al di sopra di quello sperimentato nelle invasioni militari di Afghanistan o Iraq, per citare alcuni ultimi esempi.
La seconda cosa è che comunque esiste una filiera legata alle produzioni militari piuttosto ampia, e che può sorprendere per la varietà di attività che comprende. In un’intervista fatta nel marzo di quest’anno a Carlo Tombola di The Weapon Watch, centro di ricerca sul traffico di armi in Europa e nel Mediterraneo, viene riportato che ci sono 150 aziende con contratti da oltre 25 mila euro col Dipartimento della Difesa USA.
L’ammodernamento delle basi fatto da aziende di costruzioni, ma anche le attività legate alla mobilità militare, non a caso inserita in quell’1,5% del nuovo target NATO e argomento molto attenzionato dalle politiche europee, allargano l’alveo dell’indotto prodotto dal riarmo. Anche se, pure in questo caso, viene ricordato che è pur sempre molto più ristretto che in altri settori.
Infine, bisogna sottolineare che una parte importante della guerra del futuro sarà fatta per mezzo di sofisticati strumenti ingegneristici e programmi informatici. Come già osservato, sono queste alcune delle figure più richieste nelle offerte di lavoro analizzate. Allora qui sorge un altro problema: l’evidente collegamento tra gli armamenti e un universo dual use che espande nettamente la platea delle persone da cui richiedere consenso alla deriva bellicista.
Migliaia di giovani laureati in discipline STEM – Science, Technology, Engineering e Mathematics – e dunque anche i loro dipartimenti di provenienza, affamati di fondi in seguito ai continui tagli alla spesa pubblica, e tutta una serie di imprese fino a oggi toccate marginalmente dal giro d’affari dell’industria bellica potrebbero essere coinvolte nella creazione di un blocco sociale, diciamo così, ‘guerrafondaio per necessità materiale’.
Tante persone, se vorrano lavorare, potrebbero ritrovarsi a essere impiegate, in maniera più o meno diretta, per i settori militari, magari anche protette, sotto il punto di vista etico, dalla distanza che un’interfaccia digitale crea rispetto al campo di battaglia. Forse non si tratta di un alveo sociale largo come quello dell’automotive, ad esempio, ma è sicuramente abbastanza sostanzioso da poter sviluppare su di esso una politica salariale alla ‘divide et impera’.
Ovvero, creare attraverso il riarmo un’aristocrazia di lavoratori con ampie garanzie di retribuzione e di diritti, abbastanza forte da sostenere nel campo delle classi subalterne le ragioni dell’imperialismo che si arma per la terza guerra mondiale. Questa dimensione non va dimenticata da parte di chi vuole continuare a costruire un’alternativa.
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