Ma quello che ci dice il testo di Bankitalia articola ancora più approfonditamente perché il nucleare è pura propaganda, e perché serve solo al complesso militare-industriale. Andiamo con ordine: “dati la struttura del mercato e della bolletta elettrica, una reintroduzione del nucleare non avrebbe significativi impatti sul livello dei prezzi”.
Questa è la prima presa d’atto sul tema. Bisogna dire che il documento afferma pure che il nucleare potrebbe aiutare a “stabilizzare la spesa per l’elettricità per i sottoscrittori di contratti a lungo termine”. Ma, allo stesso tempo, sottolinea anche che lo stesso risultato è possibile raggiungerlo con contratti simili riguardanti le rinnovabili.
Se parliamo di emissioni di gas serra, dice lo studio, il contributo del nucleare è “potenzialmente consistente”. Potenzialmente, perché la tempistica per la realizzazione di una nuova centrale è tra i 10 e i 19 anni, con i siti UE più vicini al limite superiore: in pratica, si arriverebbe molto vicini al 2050, cioè quando dovrebbe essere raggiunta la neutralità carbonica.
Non si capisce allora il senso del non investire massicciamente nelle rinnovabili, come del resto sta già avvenendo, soprattutto in Cina. Bankitalia ricorda che i reattori attivi oggi in Europa sono il risultato degli investimenti fatti ai tempi degli shock petroliferi degli anni Settanta e Ottanta. Ormai, le rinnovabili sono molto più competitive, e gli operatori privati “privilegiano tecnologie a minore intensità di capitale e con tempi di costruzione molto più rapidi”, come le rinnovabili, appunto.
Se si volesse fare un paragone tra nucleare e rinnovabili, il volume di investimenti sul primo è oggi minore di 10 volte rispetto a quello posto sulle seconde, ma l’espansione dell’energia davvero verde, in Italia, è nettamente rallentata da farraginosità normative e caoticità del complesso autorizzatorio. Su questo lato, il Belpaese è ben lontano dagli obiettivi fissati, ma non si sta muovendo con la stessa attenzione dedicata all’atomo.
Inoltre, gli impianti nucleari ora in costruzione hanno subito numerosi ritardi e aumenti di costi, mentre quelli su cui vuole puntare il governo italiano, basati sui famosi piccoli reattori modulari, sono ancora a un livello sperimentale. Insomma, si prefigura un pozzo senza fondo di sussidi pubblici per una fonte di energia che arriverebbe fuori tempo massimo.
Stando a valutazioni fatte dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), al 2040 gli impianti di piccoli dimensioni saranno competitivi rispetto al fotovoltaico su scala industriale con sistemi di stoccaggio solo assumendo che “il costo medio ponderato del capitale sia pari al 4% (una prospettiva ottimistica considerato che la IEA lo assume generalmente pari all’8-9% per le tecnologie nucleari)”.
Le quali non sarebbero nemmeno così funzionali: il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) prevede tra i 22 e i 42 siti nucleari (senza specificare dove), con una produzione che coprirebbe solo l’11% del fabbisogno elettrico stimato al 2050. Ma l’idiozia è tale che, seppur piccola, una parte di questa energia prevista viene ricavata dalla fusione nucleare, ben lontana dall’essere utilizzabile per questi scopi.
Lo studio afferma poi un’altra cosa ancora, che contrasta nettamente con l’idea che il nucleare serva a garantire alla UE una maggiore autonomia energetica. Infatti, “la riduzione delle importazioni di idrocarburi sarebbe compensata da una maggiore importazione della tecnologia e del combustibile per la produzione nucleare, in questo momento concentrati in paesi geo-politicamente poco affini all’Italia”.
Le tecnologie dominanti del comparto sono quelle russe e cinesi, sbandierati come i ‘nemici del mondo libero’ da anni, e se il know-how degli operatori italiani è buono, quello che gli manca è l’esperienza. Inoltre, il 90% dell’uranio viene estratto in sei paesi: Kazakistan, Canada, Namibia, Australia, Uzbekistan e Russia.
Un paragrafo è dunque dedicato esplicitamente alla dipendenza per il combustibile, dove viene sottolineato che il 43% della materia prima proviene dal Kazakistan, e che la sua politica estera non è sempre filo-occidentale. E gli europei non possono più nemmeno contare sulle miniere del Niger, ovvero sulla solita proiezione coloniale francese.
In pratica, la realtà è che a differenza di fonti energetiche diffuse e rinnovabili, la ricerca spasmodica del nucleare potrebbe portare persino ad aumentare le tensioni sui mercati e quelle geopolitiche, per accaparrarsi l’uranio necessario. È un quadro abbastanza esaustivo per capire che la reale finalità dietro il ritorno al nucleare è rappresentata dalle opportunità dual use che offre.
A conclusione di questo articolo, è bene riportare le ultime righe dello studio di Bankitalia, perché da sole dicono già tutto il necessario:
Di fronte a queste incertezze, è necessario adottare un approccio prudente nel considerare il ruolo che la reintroduzione del nucleare potrebbe avere nel raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione fissati dal Governo, valutando e preparando anche strategie alternative. In questo senso l’ampliamento del dibattito sulle opzioni disponibili, stimolato dalle recenti iniziative governative – e aperto anche a tecnologie ancora in fase di sviluppo – offre potenziali vantaggi a condizione che non ostacoli né rallenti il progresso di altre strategie per la diversificazione del mix energetico, in particolare l’espansione delle fonti rinnovabili. Va riconosciuto infine che, quale che sia la soluzione tecnica, difficilmente la creazione di nuovi impianti nucleari potrà esimersi da una compartecipazione del pubblico, o come investitore diretto, con finanziamenti o sussidi, oppure indirettamente, mediante società partecipate.Fonte
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