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15/08/2025

Il Kerala è ancora la roccaforte del movimento comunista indiano

Il governo di Narendra Modi è apertamente ostile all’alleanza di sinistra guidata dai comunisti che governa il Kerala, poiché quest’ultima vanta un notevole record nel miglioramento degli standard di vita della popolazione – a differenza di Modi e dei suoi compari dell’Hindutva.

Il governo centrale indiano guarda con sospetto e disprezzo lo stato del Kerala. I politici del Bharatiya Janata Party (BJP) di Modi spesso lo dipingono come un nemico interno, una sorta di quinta colonna.

Il Kerala è da decenni un cuore pulsante del movimento comunista del Paese. Nonostante la sua condizione sempre più isolata, continua a votare regolarmente per il Fronte Democratico di Sinistra (LDF), guidato dai comunisti, come è avvenuto più recentemente nel 2021.

Quell’anno ha segnato la sesta vittoria elettorale dell’LDF dal 1980, e la prima volta in cui ha ottenuto due mandati consecutivi.

Cos’è che ha reso questo movimento così duraturo, in un’epoca in cui la politica indiana è virata nettamente a destra a livello nazionale? E ci sono lezioni che la sinistra internazionale può trarre?
 
La particolarità del Kerala

Fort Kochi è un caldo porto di pescatori del Kerala, affacciato sul Mare delle Laccadive, dove gli aironi bianchi camminano cautamente tra le onde e i venditori attendono all’ombra di giganteschi alberi di banyan, offrendo gelati, succhi di frutta, chaat o ananas affettato cosparso di peperoncino in polvere.

La quiete umida del pomeriggio è interrotta dalle voci dei pescatori, sospesi in alto sulle precarie strutture di bambù delle loro reti da pesca. I turisti curiosi li osservano, in attesa di una dimostrazione della loro tecnica. Fu l’ammiraglio e diplomatico della dinastia Ming Zheng He a portare qui per la prima volta queste reti, nel 1410.

Quando Zheng He arrivò, stranieri visitavano già la costa del Malabar fin dai tempi dei Sumeri, compresi Egizi, Fenici e Greci. I Romani erano particolarmente attratti dal pepe del Malabar, che scambiavano in grandi quantità con l’oro. Una comunità ebraica trovò rifugio qui dopo che il decreto dell’Alhambra del 1492, emanato dalla monarchia spagnola, che li espulse dalla penisola iberica.

Anche gli arabi ebbero un ruolo importante: già nel VII secolo d.C. i mercanti locali intrattenevano rapporti con navigatori desiderosi di portare le spezie verso i mercati in espansione di Aleppo, Baghdad e Il Cairo. L’influenza fu tanto culturale quanto economica, e il Kerala è oggi riconosciuto come il punto di ingresso dell’Islam in India.

Con l’avvento del capitalismo industriale, le relazioni mercantili cedettero inevitabilmente il passo a forme di sottomissione coloniale ancora più diseguali. Prima i portoghesi, poi gli olandesi rivendicarono le reti commerciali del Kerala, finché non si impose il dominio britannico.

Questa storia complessa e variegata, modellata da una geografia particolare – stretta tra il Mar Arabico e la catena montuosa dei Ghati occidentali – conferisce al Kerala un senso di unicità, di “alterità” rispetto al resto dell’India. Si percepisce che, nel profondo, l’identità keralese è intrinsecamente diversa da quella degli stati confinanti.

Ma l’indicatore più evidente di questa particolarità non si trova nei libri di storia, né nella varietà di architetture sopravvissute a ciascuna epoca. È invece impresso sui muri e appeso ai balconi, stampato su bandiere, striscioni e manifesti politici: l’iconografia comunista, onnipresente ovunque si vada. 

Sport e Socialismo

Due giovani siedono davanti al Red Youngs Sports Club, un edificio modesto a Calvathy, Fort Kochi. Una grande bandiera rossa con falce e martello è legata con orgoglio alle inferriate di ferro ricurvo delle finestre.

All’interno, un ritratto incorniciato di Vladimir Lenin occupa un posto d’onore sulla parete. Sotto, alcune fotografie: attivisti davanti al club, che leggono, fumano e posano davanti alle immagini di Fidel Castro e Che Guevara. L’edificio era un tempo la sede locale del Partito Comunista.

«Nel tuo Paese non avete club sportivi?» chiede, divertito dalla mia curiosità, uno dei giovani. «Non con le foto di Lenin all’interno» rispondo.

Adhil, ex membro del club, racconta che il Red Youngs fu fondamentale per formare la sua coscienza politica:
“Persone come noi sono influenzate dal luogo stesso. Quando ero piccolo, qui c’era la sede del partito, vedevamo le riunioni. Vedevamo le bandiere rosse, i poster di Che Guevara e Karl Marx. Così abbiamo imparato il comunismo crescendo.”
Non tutti, però, concordano sul fatto che questa proliferazione di simboli rappresenti un movimento vitale. Nissim Mannathukkaren, accademico e autore di Communism, Subaltern Studies and Postcolonial Theory: The Left in South India, sostiene che slogan e iconografia siano solo i resti estetici di qualcosa ormai perduto:
“Gran parte di ciò che il movimento comunista in Kerala fa, in pratica, è socialdemocrazia, racchiusa in una retorica rivoluzionaria d’altri tempi, legata all’Unione Sovietica o alla Cina... la retorica rivoluzionaria non è scomparsa, ma nella realtà si pratica la socialdemocrazia.”
Adhil ci tiene però a sottolineare che club come il Red Youngs non sono importanti solo per la riproduzione di simboli rivoluzionari:
“Facevamo soprattutto servizi sociali: raccoglievamo cibo dalle nostre case e da quelle dei vicini per distribuirlo. Organizzavamo tornei sportivi: calcio, cricket e carrom (un gioco da tavolo indiano).”
La sua è la descrizione di un’istituzione molto ordinaria, significativa più per il radicamento nella comunità che per altro. Racconta il modo normale e quotidiano in cui il comunismo è percepito in Kerala: parte integrante della vita di tutti i giorni, non solo della politica ma anche della sfera sociale. 

Nascita del comunismo in Kerala

Quando il Partito Comunista d’India (CPI) nacque negli anni ’20, la costa del Malabar era ancora divisa in principati che in seguito avrebbero formato lo stato del Kerala.

La regione era stata teatro di numerose ribellioni contro il dominio britannico. La popolazione, in gran parte povera e rurale, soffriva pesantemente a causa di un sistema delle caste controllato da governanti compiacenti verso Londra.

Queste insurrezioni non erano semplici esplosioni di rabbia prive di ideologia: le consolidate relazioni agrarie, frutto della lunga storia commerciale del Kerala, avevano creato le basi per un’azione coordinata e una facile circolazione delle idee radicali.

Anche sotto il dominio britannico, gli investimenti pubblici in infrastrutture agricole avevano mostrato i benefici della spesa pubblica, prefigurando i principi di uno stato sociale solido e contribuendo a erodere le distinzioni di classe e casta.

Dopo la Rivoluzione russa, il radicamento comunista nelle lotte agrarie locali crebbe: nacquero sindacati contadini, si organizzarono marce della fame per rivendicare i diritti dei lavoratori agricoli, e gli operai dell’industria della fibra di cocco iniziarono a organizzarsi.

Quando, nel 1921, i lavoratori musulmani occuparono le terre del distretto del Malabar, appartenenti ai latifondisti indù sostenuti dai britannici, proclamarono l’indipendenza e instaurarono un autogoverno temporaneo, trasformando gli affittuari sfruttati in proprietari.

L’episodio durò solo sei mesi, prima che le truppe britanniche riconquistassero l’area, ma dimostrò il legame profondo tra oppressione religiosa e lotta di classe anticoloniale.

Negli anni ’30, i comunisti del Kerala iniziarono a operare all’interno del Congress Socialist Party, la fazione di sinistra del Congresso Nazionale Indiano. Vijoo Krishnan, membro del politburo del Partito Comunista d’India (Marxista) [CPI(M)], descrive così quel periodo:
“I socialisti operavano come gruppo distinto all’interno del Congresso. A differenza del Congresso, affrontavano i problemi di operai e contadini... il Partito fin dall’inizio chiedeva l’indipendenza completa, quando il Congresso pensava ancora al dominio britannico limitato... Ci è voluto quasi un decennio perché il Congresso facesse la stessa richiesta.”

Nel 1942, con Gran Bretagna e URSS alleate contro i nazisti, il bando nazionale contro il CPI fu revocato. La popolarità del partito crebbe, in Kerala e altrove, ma la repressione continuò, costringendo molti comunisti alla clandestinità, tra cui E. M. S. Namboodiripad, storico e figura chiave del comunismo keralese. 

Dopo l’Indipendenza

Nel 1947 l’India ottenne l’indipendenza, ma la repressione contro i comunisti non cessò. Nel 1956, Travancore, Cochin e Malabar furono uniti per creare lo stato del Kerala. L’anno seguente, il CPI vinse le prime elezioni statali e Namboodiripad divenne il primo capo di governo comunista democraticamente eletto in India.

Il suo governo introdusse leggi a favore degli agricoltori e salari minimi, scatenando la furia delle classi proprietarie. Nel 1959, Nehru destituì il governo del Kerala utilizzando una norma costituzionale rara, rafforzando l’idea dello stato come “elemento disturbatore” all’interno dell’India.

Negli anni ’60 il partito si divise in CPI e CPI(M), con quest’ultimo destinato a diventare la forza dominante. 

Il Modello Kerala

Il governo comunista, pur operando in un sistema federale ostile, ha sviluppato un modello di sviluppo riconosciuto a livello internazionale: accesso quasi universale a sanità e istruzione, tasso di povertà multidimensionale più basso dell’India, aspettativa di vita tra le più alte del Paese (75 anni).

Dal 2017, il programma LIFE Mission ha costruito circa 450.000 case per le famiglie più povere, sostenendo decine di migliaia di nuclei con progetti di reddito e documentazione.

Alcuni studiosi sostengono che l’LDF pratichi oggi una forma di socialdemocrazia, costretta a compromessi con il capitale globale. Altri ribattono che il CPI(M) mantiene posizioni nettamente anti-imperialiste e a difesa della classe lavoratrice. 

Resistere sotto assedio

A differenza del Bengala Occidentale, dove il dominio comunista è crollato nel 2011, il Kerala continua a resistere alle pressioni dell’Hindutva. Nel 2024 il governo locale punta a dichiarare estinto lo stato “privo di povertà estrema”. Qualunque sia il futuro, la sua resistenza finora resta un trionfo.

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01/05/2025

Nina Simone era una radicale

“Non parlavamo mai di uomini o vestiti. Sempre di Marx, Lenin e rivoluzione – vera conversazione tra donne.”
Nina Simone

La battuta di Nina Simone sul non discutere di moda ma di “Marx, Lenin e rivoluzione” offre uno sguardo sulla sua vita politica quotidiana, lontana dalla sua storia più conosciuta di attivista per i diritti civili e musicista. Questa “conversazione tra donne” avveniva con la sua amica e drammaturga Lorraine Hansberry – un dialogo tra due donne nere che, come dice Simone, non riguardava uomini o abiti, ma il lavoro creativo che producevano e il ruolo che vedevano in esso per la liberazione della loro comunità.

Riferendosi all’opera autobiografica di Hansberry To Be Young, Gifted, and Black, Simone scrisse poi una canzone con lo stesso titolo, in tributo all’amica e compagna dopo che Hansberry morì di cancro al pancreas alla tragica età di trentaquattro anni.

Questa amicizia e complicità dimostra come i dialoghi intimi tra donne nere politicamente impegnate abbiano il potere di ispirare. Si svolgono lontano dallo sguardo degli uomini, lontano dai bianchi; possono essere spazi di rifugio in cui ricaricarsi e riunirsi al movimento più ampio che spesso emargina e cancella le intuizioni politiche delle donne nere.

Dire che Nina Simone sia stata “cancellata” sarebbe assurdo. È una delle musiciste più celebrate del XX secolo. Non c’è bisogno di scrivere un altro articolo, biografia o analisi delle sue canzoni politiche. Ma nell’anniversario della sua morte, possiamo osservare come viene raccontata la storia della sua vita politica, e chi la racconta; cosa scelgono di includere e cosa, in effetti, “cancellano”.

Di Nina Simone si parla spesso come di un’attivista per i diritti civili, e lo era. Ma il movimento per i diritti civili abbracciava molte visioni politiche diverse su cosa significasse la liberazione. Alcuni, come la NAACP, volevano riforme liberali criticate per essere vantaggiose solo per la classe media afroamericana.

I nazionalisti neri cercavano l’indipendenza economica e un nuovo stato nero, separato dall’America bianca razzista, anche se non era chiaro come sarebbe stato questo nuovo stato, oltre a una versione nera del capitalismo. Quindi, non tutti gli attivisti per i diritti civili citavano Karl Marx o Vladimir Lenin nelle loro conversazioni con gli amici.

Per una donna di feroce intelligenza, talento e brillantezza, che sapeva esattamente come voleva essere ascoltata attraverso la sua musica e le sue esibizioni, possiamo prendere questa affermazione come una dichiarazione d’intenti piuttosto che un commento casuale. Nina Simone ci stava dicendo che era una comunista, una compagna, una rivoluzionaria.

A volte, le artiste nere, specialmente le musiciste, che dimostrano una qualche forma di politica di sinistra vengono deradicalizzate in versioni più rassicuranti che mettono a loro agio gli ascoltatori bianchi, come cantò ironicamente il musicista folk comunista bianco Phil Ochs nel suo inno “Love Me, I’m a Liberal”. I bianchi liberali potrebbero partecipare a raduni per i diritti civili, canta Ochs, “ma non parlare di rivoluzione / quello è andare un po’ troppo oltre”.

Simone voleva andare oltre. Scritta in risposta all’attentato alla 16th Street Baptist Church nel settembre 1963 – un attacco terroristico suprematista bianco che uccise quattro ragazze nere tra gli undici e i quattordici anni – in “Mississippi Goddam” Simone canta:
“Provano a dire che è un complotto comunista / Tutto ciò che voglio è l’uguaglianza / Per mia sorella, mio fratello, la mia gente e me.”
Questa potrebbe essere letta come una risposta al Red Scare maccartista, in cui ogni discorso sull’uguaglianza veniva equiparato al comunismo e a sentimenti “anti-americani”. Ma se letta alla luce della sua “conversazione tra donne” con Hansberry e della politica della sua cerchia sociale, che includeva James Baldwin, Stokely Carmichael e Langston Hughes – tutti attivisti che si confrontavano con il socialismo – questi versi sono una dichiarazione politica. Simone sta dalla parte della sinistra perché la vede come l’unica via verso una vera uguaglianza; le riforme “lente” che placano uno stato razzista non sono un’opzione.

Vediamo anche riflessi di una politica internazionalista in “Backlash Blues”, il cui testo è tratto da una poesia scritta per Simone da Hughes:
“Ma il mondo è grande / Grande, luminoso e rotondo / Ed è pieno di altre persone come me / Nere, gialle, beige e marrone.”
Una delle ultime cose scritte da Hughes, la poesia riflette sul Vietnam e sugli uomini afroamericani mandati a combattere una guerra imperialista mentre erano trattati come cittadini di seconda classe in patria.

Simone dice all’ascoltatore che lei e altri gruppi razzializzati oppressi dalle molte incarnazioni di “Mr. Backlash” sono, in realtà, la maggioranza nel mondo – un’affermazione che riflette un momento politico in cui organizzazioni come le Black Panther Party cercavano di costruire coalizioni internazionali con altri popoli che soffrivano gli effetti dell’imperialismo americano.

La storia politica della sinistra nera statunitense è importante per contestualizzare e comprendere l’opera di Simone, ma voglio tornare alla “conversazione tra donne” tra Simone e Hansberry. Al mio orecchio, come donna nera, socialista, femminista e musicista, la politica di questi dialoghi privati e intimi tra donne nere radicali emerge nella musica di Simone.

Prendiamo la canzone “Four Women”. Spesso definita un inno femminista, il brano descrive i ruoli di classe e di genere imposti e gli stereotipi in cui le donne nere si sono trovate intrappolate: la “mamita”, la “mulatta tragica”, la sex worker, la donna nera arrabbiata.

Per me, la canzone va oltre un’analisi semplicistica della schiavitù e dell’effetto del suo retaggio sulle donne nere oggi. Piuttosto, immagino Hansberry e Simone parlare delle loro vite e di quelle di altre donne nere usando un’analisi marxista che include razza, genere e classe; discuterebbero di come razzismo e capitalismo abbiano creato le vite delle donne nella canzone – Aunt Sarah, Saffronia, Sweet Thing e Peaches – vite di donne nere costantemente in lotta, a sopravvivere e resistere.

Non si può rendere giustizia alla vita politica di Nina Simone in un breve articolo. Era una forza della natura che portava il messaggio di libertà, uguaglianza, giustizia e liberazione a chiunque avesse il piacere di ascoltare la sua musica.

Ma è importante non incasellarla semplicemente come un’attivista per i diritti civili: era una rivoluzionaria – una donna che si confrontava con le opere di Marx e Lenin, e che portava quella prassi rivoluzionaria nella sua musica in un modo che ancora oggi risuona in noi.

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25/04/2025

Un 25 Aprile all’altezza delle sfide

Mai come dopo ottanta anni dalla Liberazione del paese dal nazifascismo e dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il Mondo in cui viviamo sta facendo i conti con i mostri che pensava di aver seppellito otto decenni fa.

Le contraddizioni che portarono al più devastante conflitto in Europa sembrano addensarsi una in fila all’altra: guerre commerciali, riarmo, competizione esasperata sui mercati e sul piano ideologico.

Come ci ricorda lo storico Graham Allison le guerre vengono scatenate sicuramente per motivi economici e geopolitici (e questi ci stanno tutti), ma anche per “questioni di onore”, ovvero reputazione e perdita di autorevolezza di questo o quel governo. E le classi dominanti europee oggi danno questa esatta sensazione, alimentando un avventurismo militare estremamente pericoloso.

La sconfitta del nazifascismo che pose fine alla Seconda Guerra Mondiale aprì una nuova fase storica dopo quella che con la Prima Guerra Mondiale aveva messo fine alla Belle Epoque, ossia la prima grande globalizzazione del sistema capitalista mondiale avviata negli ultimi venti anni dell’Ottocento.

In quella nuova fase storica i comunisti ebbero un ruolo da protagonisti, sia perché in molti paesi avevano dato vita alla Resistenza partigiana contro l’occupazione nazista, anche senza attendere l’arrivo delle truppe alleate o sovietiche, sia perché i comunisti misero in campo una idea di società alternativa a quella delle disuguaglianze e della guerra che aveva trascinato il Mondo nella catastrofe.

I liberali in Occidente si professano antinazisti e anticomunisti e così hanno provato a riscrivere la storia in Europa a loro immagine e somiglianza.

Ma è sufficiente grattare appena un po’ sotto la superficie di documenti come la Risoluzione adottata e rinnovata ogni anno dal Parlamento europeo, per verificare come siano molto più determinati come anticomunisti che come antinazisti. Nel secondo caso il loro timore riguarda la sfera della politica, nel primo, oltre la politica, riguarda soprattutto la rimessa in discussione dei rapporti di proprietà, un tema al quale liberali e capitalisti sono molto più sensibili che alla stessa libertà.

È questa la ragione per cui una certa retorica antifascista liberale non può che suscitare forti perplessità.

Anche in Italia l’antifascismo liberale – di destra e “di sinistra” – si limita a condannare gli errori del fascismo limitandoli a quelli della entrata in guerra e delle leggi razziali. Di tutto il resto se ne vorrebbero far perdere le tracce, talvolta in modo sfrontato, altre invitando “alla sobrietà” nelle celebrazioni del 25 aprile.

L’antifascismo a intermittenza e limitato ad un “lontano passato” è diventato spesso una critica debolissima e del tutto inefficace, soprattutto per le nuove generazioni, alle quali andrebbero invece spiegate le responsabilità del neofascismo anche dal dopoguerra a oggi, quello coinvolto nelle stragi di stato, negli omicidi politici, nel sostegno a tutte le avventure belliche all’estero e reazionarie all’interno.

Alla prova del fuoco – la guerra – possiamo dunque verificare come le convergenze tra destra (neofascista o liberale) e liberali di “sinistra” diventino fin troppo evidenti, nei linguaggi come nelle scelte concrete, sia sul fronte ucraino che su Gaza. Ed è così che assistiamo alla stessa complice inerzia verso un genocidio in corso, quello dei palestinesi.

Questo 25 aprile ha un suo grande valore politico non solo perché celebra a cifra tonda l’anniversario della Liberazione del nostro paese e della sconfitta del nazifascismo in Europa. Per noi è stato sempre un momento per rivendicare il diritto alla resistenza di ogni popolo, incluso quello palestinese.

Ma il 25 aprile di quest’anno sarà anche un passaggio della urgente mobilitazione contro la guerra e il riarmo delle prossime settimane e della rivendicazione del ruolo dei comunisti nella sconfitta del nazismo che in tanti intendono a negare, rimuovere o addirittura criminalizzare.

Facciamo sì che ogni giorno che ci attende sia un 25 Aprile, una resistenza tenace, permanente, offensiva.

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05/03/2025

I comunisti e le comuniste hanno liberato l’Europa. 10 maggio corteo a Roma

I comunisti e le comuniste hanno liberato l’Europa 10 maggio corteo cittadino per ribadire e difendere il ruolo dei comunisti nella vittoria sul nazifascismo

Nel 2019 e nel 2025 due risoluzioni approvate dal Parlamento europeo hanno messo sullo stesso piano la storia e simboli del comunismo con quelli del nazifascismo. Tuttavia, la storia è andata diversamente.

La capitolazione della Germania di Hitler è dovuta in gran parte alla resistenza e all’offensiva dell’Unione Sovietica sul fronte orientale e alle radicate resistenze sul fronte interno dell’occupazione nazista, che insieme hanno portato alla resa incondizionata del nazifascismo, annunciata al mondo la mattina del 9 maggio 1945.

Il sacrificio dei comunisti e delle comuniste in tutta Europa, dalla Resistenza partigiana nel nostro Paese – formata in gran parte da comunisti e comuniste – all’Esercito di liberazione popolare della Jugoslavia, è l’esempio più concreto del ruolo svolto dai partiti e dalle organizzazioni comuniste per la liberazione del continente dall’occupazione nazifascista e per aver messo la parola fine al più grande conflitto bellico nella storia dell’umanità.

È contro questa verità che va inquadrata l’offensiva ideologica dell’Unione Europea, alle prese con la crisi di egemonia e la mai sopita aggressività militare dell’imperialismo occidentale e della Nato.

Ma i tentativi di revisionismo storico, come l’ultimo sulle foibe, necessitano di una risposta da parte di tutte e tutti i comunisti che sappia rilanciare il portato storico della propria azione.

Il 9 maggio allora i “comunisti e le comuniste della capitale” non festeggiano la Giornata dell’Europa, istituita non a caso dall’Ue nel 1985 per rispondere alla forza evocativa di quella nostra giornata, ma la Giornata della Vittoria sul nazifascismo, purtroppo non definitiva, e per aver posto fine alla guerra mondiale, oggi di nuovo alimentata dalla postura internazionale dell’Ue e dei governi dei suoi membri.

Su queste considerazioni, convocheremo un’assemblea pubblica per fine mese a Roma (maggiori info nei prossimi giorni) orientata alla costruzione di un corteo cittadino per sabato 10 maggio che riaffermi il ruolo dei comunisti nella liberazione dell’Europa dal nazifascismo e dalla guerra portando in piazza solo le bandiere del movimento comunista di ieri e di oggi.

Invitiamo le forze comuniste in tutte le città del paese a riunirsi per costruire, a ridosso del 9 maggio, momenti di rivendicazione del ruolo storico avuto dal comunismo per la liberazione e la sconfitta del nazifascismo.

Comitato promotore (in aggiornamento): Rete dei Comunisti, Patria socialista, Potere al Popolo, Rifondazione comunista, Partito comunista italiano, Cambiare Rotta, Opposizione Studentesca d’Alternativa, Csoa Macchia Rossa...

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05/01/2025

Jihadismo, capitalismo ed Erdogan. «Niente di buono per i siriani»

Quale ruolo possono avere le forze di sinistra nella realtà mediorientale ormai dominata da poteri fondamentalisti e da un neocolonialismo che vede in azione potenze regionali e globali?

Lo chiediamo a Kemal Okuyan, segretario generale del Partito comunista di Turchia (Türkiye Komünist Partisi, Tkp), dopo che di fronte ai droni delle colonne guidate da Hay’at Tahrir al-Sham (Hts) l’esercito siriano si è dissolto, stremato da 13 anni di guerra e sanzioni, con soldati di leva mal equipaggiati, perfino malnutriti.

Quali sono stati i burattinai?

Tutti i preparativi sono stati fatti a Idlib, area che era stata lasciata sotto il controllo della Turchia durante i colloqui di Astana. Non posso dire che Russia e Iran abbiano chiuso un occhio: alla fin fine, entrambi i paesi sono stati colpiti duramente dal cambio di regime. Ma non avevano colto la gravità della situazione.

Ci si è poi assicurati la non resistenza dell’esercito: generali e ufficiali siriani sono stati comprati. Così, quando a Doha il ministro degli esteri turco ha detto a Russia e Iran: «Non intervenite inutilmente, è finita», era vero.

Era poi chiaro che Putin non fosse ansioso di partecipare a un nuovo conflitto in Siria. Da un po’ pensavo che la Russia non avrebbe affrontato il blocco costituito in particolare da Israele, Turchia, Usa, Regno Unito. E infatti. Lo stesso per l’Iran.

Erdogan e il suo Akp hanno svolto un ruolo centrale nella guerra in Siria fin dall’inizio, permettendo a jihadisti da mezzo mondo di entrare nel paese, addestrandoli con il denaro del Golfo, in seguito occupando con i proxy parte del territorio.

E noi come partito, insieme ad associazioni pacifiste abbiamo condannato questo ruolo nefasto fin dall’inizio. Jihadisti di diversi paesi sono stati addestrati dai paesi della Nato davanti ai nostri occhi. Con l’aiuto anche dei media e delle fake news, hanno continuato a prepararsi. Alla fine ce l’hanno fatta.

Fahd al-Masri, portavoce dell’Esercito siriano libero, ha ringraziato Israele per il grande contributo dato alla cacciata di Assad, grazie all’indebolimento degli alleati sciiti. In passato Tel Aviv aveva aiutato militarmente l’opposizione islamista e curato jihadisti feriti; ora occupa altre aree del paese arabo. Ma anche Erdogan appare un protagonista centrale, con il Qatar. Quali le mire?

Il neo-ottomanesimo è l’ideologia fissa di Erdoğan e dei suoi. Non la abbandoneranno mai. Ma cercano di tenere insieme anche gli equilibri internazionali e l’alleanza con gli Usa. Talvolta vi è tensione, però è chiaro che è iniziata una nuova era di convergenza e cooperazione tra Stati Uniti e Turchia.

Indubbiamente, dietro a tutto questo ci sono le aspirazioni della classe capitalistica turca, che collegano il paese a Usa, Regno Unito e Germania, e promuovono iniziative nuove e peculiari. Il Qatar utilizza la Turchia come trampolino di lancio e vi ha fatto importanti investimenti. Grande l’intesa fra i due partner. Una «coalizione reazionaria».

I siriani, esausti dopo anni di guerra e sanzioni, rimangono in attesa, ma ci sono proteste per le violenze settarie da parte di gruppi jihadisti.

Tutti nell’insieme cercano di tenersi in vita. La situazione economica non era migliorata nemmeno nel periodo in cui la guerra era scesa di intensità. Adesso i jihadisti sono stati ben istruiti; sanno che se non agiscono con cautela, presto ci potrebbe essere una grande opposizione.

Mentre prendono il controllo dello Stato devono dare di sé un’immagine adatta a livello internazionale; in seguito potranno comportarsi più comodamente. Domani, forse, nessuno si preoccuperà più delle donne, degli alauiti, dei rivoluzionari...

Quali prospettive per la Siria?

L’ideologia jihadista è reazionaria, ma è una forza moderna in termini di capacità di adattamento al capitalismo. Il suo approccio pragmatico comprende bene gli affari e il profitto.

Dunque, due dinamiche negative si intrecciano. Niente di buono ne uscirà per quel popolo. Anche se non venisse spartito, il paese avrà una struttura frammentata e conflittuale. La pace imperialista conterrà magari per un certo periodo quei conflitti. Una sorta di stabilità caotica.

Quello che accadrà in seguito, dipenderà dagli sviluppi nella regione, ma soprattutto in Turchia.

C’è ancora uno spazio per i comunisti in questa regione?

Il movimento comunista nella regione deve rompere con gli stereotipi del passato e diventare una forza indipendente. Non è possibile essere un vero attore sociale in Medio Oriente senza difendere la laicità, superare il settarismo e prendere una posizione chiara contro gli Stati Uniti e altri paesi imperialisti.

Alcuni potrebbero pensare che ormai i jihadisti abbiano circondato la società. Se dopo tutti questi eventi non organizziamo una reazione che nasca dalle classi povere, con intelligenza e pazienza, come comunisti saremo una forza oppressa o ignorata, perdendo ogni opportunità di diventare attori importanti sul campo.

Noi in Turchia, un paese che è “a cavallo” nella regione, faremo del nostro meglio per una svolta.

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17/10/2024

In memoria del professor Saibaba, comunista indiano

È morto sabato, a cinquantasette anni, il professor Saibaba, intellettuale indiano di spicco sempre al servizio degli oppressi. La sua morte, causata dal peggioramento del suo stato di salute dopo dieci anni di carcere per motivi politici, rattrista profondamente tutti coloro che credono in un mondo migliore.

Proveniente da una famiglia contadina del Telangana, a cinque anni contrae la poliomielite, che lo costringe in sedia a rotelle. Nonostante la malattia, riesce ad andare a scuola (racconterà più volte nelle interviste che sua madre, pur di farlo studiare, lo accompagnava ogni giorno a scuola in braccio) e a laurearsi all’Università di Hyderabad, per poi ottenere una cattedra di inglese alla Delhi University.

Saibaba, però, non è stato solo un docente universitario brillante, ma anche un attivista politico sempre in prima linea, militando nella Radical Students’ Union prima – ai tempi della Mandal Commision e delle lotte per difendere le reservation di Adivasi e Dalit degli anni Novanta – e del Revolutionary Democratic Front (RDF) poi, un’organizzazione messa fuori legge nel 2012 per sospette attività sovversive vicine alle istanze maoiste.

Forte oppositore dell’Operazione Green Hunt, il primo piano del governo indiano per contrastare in modo radicale – con una vera e propria guerra – la guerriglia maoista nell’India centrale, non ha mai temuto di denunciare la violenza dello Stato indiano. Nel 2014 (anno in cui Modi inizia il suo primo mandato) si apre un processo contro di lui per presunti contatti con il Communist Party of India-Maoist che, con fasi alterne, lo terrà nel carcere di Nagpur in una cella di isolamento fino alla sua assoluzione definitiva a marzo 2024.

È un processo profondamente politico, che incarna perfettamente il rafforzamento dell’apparato repressivo dello Stato indiano, con l’applicazione di leggi antiterrorismo quali l’Unlawful Activities (Prevention) Amendment Act (UAPA) del 1967 per incarcerare senza processo e senza prove numerose attiviste e attivisti che si battono contro la predazione di risorse e l’impoverimento di ampie fasce della popolazione (a maggior ragione dopo gli emendamenti del 2019, che hanno reso questa legge ancora più draconiana), sulla cui legittimità le stesse Nazioni Unite hanno sollevato parecchi dubbi[1].

Accusare qualcuno di essere urban naxalite (naxalita urbano) è, infatti, diventato oggi un modo semplice e veloce per reprimere ogni forma di dissenso e attivismo politico. Nel 2017 è di nuovo condannato all’ergastolo, insieme ad altre cinque persone, per poi essere assolto dalla Corte Suprema nel 2022 e rimandato a giudizio dalla Corte di Sessione.

In questi dieci anni il suo stato di salute peggiora notevolmente a causa delle terribili condizioni di detenzione, tanto che dopo la sua assoluzione definitiva e il suo rilascio il 5 marzo 2024 racconta che «Sono vivo per miracolo. Quando sono entrato in carcere, non avevo altri disturbi oltre alla mia disabilità. Ora il mio cuore funziona solo al 55% e sto affrontando complicazioni muscolari. Anche il fegato, la cistifellea e il pancreas sono stati colpiti. La mia mano destra funziona parzialmente. I dottori mi dicono che ora ho bisogno di molte operazioni chirurgiche»[2].

E proprio durante uno di questi interventi, che avrebbero dovuto ripristinare uno stato di salute profondamente provato dalle terribili condizioni detentive, è morto ieri il Professore e Compagno Saibaba.

La sua storia non può non richiamare alla memoria una vicenda simile: quella di Stan Swami, difensore dei diritti degli Adivasi in Jharkhand, arrestato all’età di ottant’anni con l’accusa di presunti legami con i maoisti e rinchiuso per mesi, nonostante fosse già malato di Parkinson e con la pandemia di COVID-19 in atto, fino alla sua morte in carcere a luglio 2021.

Entrambi hanno lottato per una società più giusta e hanno pagato con la vita la scelta di stare dalla parte delle classi subalterne, di credere in un futuro di giustizia sociale per tutte e tutti. Ma se è stata necessaria la loro morte, vuol dire che Modi e il suo partito hanno paura di pensatori liberi come loro, disposti a mettere il cuore e la mente al servizio di tutti gli oppressi.

Raccogliendo la loro eredità, tocca ora a noi continuare a batterci per una società più giusta.

Note

[1] A febbraio e a luglio 2024 l’ONU ha pubblicato alcuni documenti in cui sollevava dubbi sulla legittimità dell’applicazione delle leggi antiterrorismo per reprimere l’attivismo per i diritti umani in India, soprattutto nello Stato del Kashmir e nella regione del Bastar.
https://documents.un.org/doc/undoc/gen/g24/033/44/pdf/g2403344.pdf

https://www.fidh.org/en/region/asia/india/india-un-human-rights-committee-calls-for-protection-of-human-rights

[2] https://timesofindia.indiatimes.com/india/released-from-nagpur-jail-after-a-decade-saibaba-says-its-a-miracle-to-be-alive/articleshow/108311408.cms

Fonte

05/10/2024

Il comunismo nel '900? Una sconfitta, non un fallimento

Ieri la prima giornata di lavori del Forum “Elogio del comunismo del Novecento”. Oggi si prosegue la mattina con la seconda e terza sessione, poi interruzione per partecipare alla protesta contro il divieto di manifestazione. I lavori riprenderanno domenica mattina con la quarta sessione.

Pubblichiamo il testo dell’introduzione ai lavori del Forum di Mauro Casadio della Rete dei Comunisti.

*****

La grande rimozione

In questo nuovo cambio epocale si stanno determinando le condizioni per affrontare in modo più oggettivo la grande rimozione politica fatta, in buona e mala fede, sul movimento di classe e comunista del ‘900; necessità che si impone non solo in termini storici ma anche per le prospettive di una, ora di nuovo, necessaria trasformazione sociale. Come RdC già dagli anni ’90 sentivamo questa esigenza tanto da produrre alcune pubblicazioni, titolate “Il bambino e l’acqua sporca”, per indagare più a fondo quelle esperienze cercando, appunto, di salvare il “bambino”.

Ci fermammo, però, in quella ricerca ed elaborazione sia per nostri limiti soggettivi sia perché, nel contesto dell’affermazione globale del neoliberismo, rischiavamo di oscillare tra suggestioni ipercritiche e continuismo dogmatico vista l’impossibilità di avere verifiche certe nella realtà. Ciò non esclude che avessimo già una idea di ciò che era avvenuto e si era prodotto nelle esperienze comuniste dell’est e dell’ovest dell’Europa in particolare, luogo dal quale era partito il moto rivoluzionario mondiale del Novecento.

Se per la soggettività gli esami non finiscono mai, sul piano dell’oggettività la situazione attuale viene ora in nostro aiuto in quanto la crisi di egemonia dell’imperialismo euroatlantico ci fornisce più strumenti per concepire una nuova possibilità di cambiamento di sistema.

Certo se il capitalismo non fosse ricaduto ancora una volta nelle sue intime contraddizioni di fondo parlare del movimento comunista del ‘900 sarebbe possibile farlo solo in termini di ricerca storica, utilissima ma non di nostra diretta competenza.

La fine della “fine della storia”.

Invece la fine della “Fine della Storia” ci permette di tracciare una linea rossa dalla rivoluzione Bolscevica del ’17 utile ad interpretare gli andamenti del conflitto di classe internazionale, ma soprattutto definire il ruolo avuto da essa nel processo di emancipazione generale di tutta l’umanità.

Ed anche di rivendicarlo come prodotto diretto di una grande soggettività, pur contraddittoria, che si è misurata per la prima volta con un progetto di trasformazione sociale radicale e razionale che oggi va colto e rilanciato, nelle forme e condizioni specifiche della nostra contemporaneità, in tutta la sua grandezza e complessità.

Almeno questo è il nostro punto di vista come RdC, la tesi che vogliamo sostenere.

D’altra parte possiamo dire di avere il “vantaggio” di una lettura storica relativa al susseguirsi di diverse fasi in tempi non lunghi come gli ultimi 50 anni, da quella rivoluzionaria a cavallo degli anni ’60 e ’70, alla crisi del socialismo reale fino alla perdita di egemonia del capitalismo reale, che ci permette di analizzare non solo le tendenze insite in questi veloci cambiamenti ma anche le potenzialità di trasformazione che riemergono e che per noi sono la riproposizione del socialismo possibile oggi.

D’altra parte per i comunisti è fondamentale avere il senso della Storia, leggere le forze materiali che la determinano, collocare se stessi dentro tale processo ma rifuggendo da ogni visione teleologica come quella avuta sulla inevitabilità del socialismo che dalla seconda internazionale in poi ha prodotto distorsioni e cecità politica.

Nel Forum fatto nel marzo del ’23 “Il Giardino e la Giungla”, e nei lavori prodotti precedentemente, avevamo individuato una tendenza sul piano strutturale che andava dalla implosione dell’URSS e dalla progressiva integrazione della Cina nel mercato mondiale alla crisi attuale letta come crisi di egemonia dell’imperialismo storico. Questa crisi ha come premessa materiale i limiti che si pongono alla espansione illimitata, quale tendenza immanente, del Modo di Produzione Capitalista sia per le contraddizioni interne sia per i limiti oggettivi che incontra a cominciare dai fattori di crisi ambientale.

La nostra lettura parte non dagli specifici dei singoli capitalismi ma dal moto generale del MPC che, trovando i limiti suddetti, cerca di ricreare i possibili spazi di crescita non più nella crescita generale, come è stato circa dal 1991 al 2007, ma nei molteplici fattori di competizione interna tra soggetti economici e statuali producendo la spinta verso la frammentazione del mercato globale ora confermata dal conflitto economico, politico e militare che sta attraversando il mondo.

Si può dire che la pervasività e trasversalità del conflitto oggi è molto più ampia di quella conosciuta durante i decenni del bipolarismo URSS-USA nato dopo la seconda guerra mondiale con alcuni momenti apicali: in Corea negli anni ’50, in Indocina fino ai ’70, nelle guerre israelopalestinesi ed in alcuni momenti rivoluzionari come quello cubano.

Indubbiamente il conflitto di classe interno ai singoli paesi fu molto alto sia in quelli capitalisticamente avanzati che in quelli del terzo mondo, dove spesso si è espresso con guerriglie e colpi di Stato, ma sempre comunque dentro un equilibrio sostanziale tra le potenze in campo rotto solo con la fine dell’URSS.

Oggi la situazione è diversa, non siamo in presenza di un equilibrio paragonabile al bipolarismo precedente ed avviene in un ambiente sociale molto diverso. Infatti oggi le diseguaglianze sono molto più accentuate e diffuse di prima in quanto la capitalistizzazione delle economie ha coinvolto di fatto quasi tutti i paesi scomponendo i sistemi sociali precedenti, a partire da quelli socialisti, e riproducendo gli squilibri classici delle società capitaliste. Questo avviene, seppur con tempi politici e materiali diversificati, anche nei paesi imperialisti in cui si incrementano crisi sociali profonde ed irrisolvibili.

Questa macerazione delle condizioni sociali complessive costituisce la premessa di molti conflitti e rotture che si riverberano nell’ambito politico, vedi la vicenda Trump e l’estrema destra risorgente nella UE, e spesso tracimano in quello militare a causa del conflitto geopolitico prodotto dalla frammentazione prima citata.

Le tracce di questo processo sono presenti ovunque. In occidente il rischio di una competizione interna più accesa tra USA e UE è latente ma è reale, la guerra in Ucraina è servita a interrompere le relazioni in particolare tra Germania e Russia mettendo però in difficoltà economiche la UE e si incrementerà ulteriormente se gli USA facessero una scelta “neoisolazionista”trumpiana; come è altresì reale la competizione monetaria tra Dollaro ed Euro.

Sempre nel quadrante occidentale del pianeta la riduzione di ruolo dell’imperialismo e del colonialismo produce conflitti e guerre. Il Sud Africa, con gli altri paesi del cono sud, ha scelto la strada dell’alternativa ed ha aderito ai BRICS; nell’Africa subsahariana interi paesi stanno voltando le spalle al colonialismo francese anche con conflitti militari mentre i paesi arabi, dopo gli interventi in Libia, Siria e in Iraq, vivono una condizione permanente di guerre e guerre civili. A questo scenario si aggiunge il ruolo genocida e di gendarme che continua a svolgere Israele contro i palestinesi, ma anche in relazione al Libano, all’Iran e all’insieme dei popoli mediorientali.

L’altra frattura importante è stata la nascita dei BRICS in quanto quella che può crescere è un’area economica autonoma e competitiva dall’Euroatlantismo che rafforzerebbe la sua crisi di egemonia con effetti economici e politici rilevanti indebolendo ulteriormente gli USA oltre che la UE.

Non è certo esplosa per caso la guerra in Ucraina che aveva come obiettivo, ad oggi fallito, di riprodurre con la Russia quello fatto a suo tempo con l’URSS aprendo un fronte militare sulla pelle in particolare degli Ucraini, usati come carne da cannone e che non accenna a chiudersi.

Anche le vicende Latino-Americane relegano il “cortile di casa USA” alla memoria in quanto esiste un fronte nettamente antimperialista che va da Cuba, con la sua grande capacità di esperienza e di lotta, al Venezuela, al Nicaragua, alla Bolivia che mantengono una prospettiva socialista mentre gli altri paesi del subcontinente oscillano tra posizioni reazionarie e riformiste in quanto conferma di una situazione in transizione, come hanno dimostrato le recenti manomissioni diplomatiche ed aggressioni internazionali fatte in occasione delle elezioni Venezuelane.

Se volgiamo lo sguardo nel quadrante orientale del mondo la situazione potenzialmente è ancora più esplosiva perché gli USA stanno costruendo un cordone “sanitario” attorno alla Cina, dall’Australia al Giappone con un accordo militare denominato AUKUS. Quella Cina con una dimensione demografica, economica, finanziaria e militare tale da rimettere in discussione a livello mondiale il primato degli USA, che ancora ragionano nei termini tipici della guerra fredda, sia per mancanza di prospettive alternative che per miseria culturale della sua classe politica democratica e repubblicana.

In circa trent’anni il neoliberismo è riuscito a produrre una crisi finanziaria piegando interi paesi come la Grecia, crisi sociali ed umanitarie fatte in nome della democrazia e dei diritti civili, due guerre come quella in Ucraina e quella pluridecennale della Palestina che invece di risolversi tendono ad estendersi ed incancrenirsi, oltre una miriade di conflitti catalogati sotto le categorie di integralismi religiosi o di nazionalismi prodotti dalla mondializzazione del sistema capitalista. Infine il tutto spinge verso la possibilità di una guerra nucleare che ormai viene evocata esplicitamente e programmata dai paesi che possiedono questo strumento di morte.

Insomma oggi possiamo dire che il capitalismo “vittorioso” ci sta regalando per ora un futuro di guerra “a pezzi”, una regressione sociale e politica generalizzata ed in prospettiva forse anche di guerra nucleare obbligandoci a ragionare sul percorso storico e sul ruolo avuto dal movimento di classe, di quello comunista e dei paesi socialisti nel secolo scorso.

I paradossi di una storia che non è finita.

Non solo è evidente la barbarie capitalista ma vanno rilevati una serie di paradossi da questa generati che mostrano quanto quel ‘900 è presente nella storia attuale alla faccia di chi “coraggiosamente” negli anni ’80 qui in Italia ebbe a dichiarare che la spinta propulsiva della rivoluzione di Ottobre fosse esaurita.

Il primo paradosso che si manifesta è l’odierna alleanza tra Russia e Cina, certo non in termini rivoluzionari come avremmo voluto ma sicuramente come elemento di crisi dell’egemonia occidentale. La rottura voluta da Kruscev nel ’56 non solo è stata un errore strategico ma ha mostrato il limite teorico del gruppo dirigente che si andava affermando alla direzione del PCUS in quanto lo scontro, anche in quella fase, con il mondo occidentale non era esclusivamente militare ma di capacità di crescita complessiva delle forze produttive e della loro possibile socializzazione in quelle società.

Determinare quella dimensione produttiva euroasiatica avrebbe offerto una possibilità di affermazione della prospettiva socialista molto più ampia di quanto sia stato poi effettivamente possibile. Questa necessità paradossalmente si ripropone in forme diverse e non socialiste ma è oggettivamente la base materiale necessaria per rompere, anche oggi, con il dominio occidentale.

La Russia anticomunista di oggi, come ulteriore incongruenza, di fronte allo scontro internazionale è costretta, per darsi legittimità e identità, a ricorrere a scadenze e simboli propri dell’Unione Sovietica, gli unici ad essere irriducibili alla rappresentazione ideologica della “civiltà” occidentale.

L’altro paradosso che si sta evidenziando è che nello schieramento internazionale contrapposto all’imperialismo si trovano quei paesi che hanno ancora un orientamento socialista se non dichiaratamente comunista oppure hanno dato vita alle lotte di liberazione, spesso vittoriose ma che poi hanno accettato i compromessi imposti dalla fine dell’URSS. Oltre la Russia e la Cina c’è Cuba, Nicaragua, Sud Africa, Iran, Corea del Nord, Yemen, Siria, Angola, Mozambico.

Questo è stato possibile perché nel MPC il capitale tende ad espandere la propria pervasività e per fare questo generalizza le forze produttive, la scienza, la tecnologia, la produzione, le infrastrutture e la circolazione di merci e la trasformazione della forza lavoro. Questo processo ha permesso la crescita anche di quella parte del mondo ormai non più alternativa come sistema economico ma non immemore della natura e della storia dell’occidente colonialista.

Molti e continui i detonatori politici che hanno smontato il mito del progressivismo liberale. Alcuni tra i tanti:

La crescita dirompente della Cina.

L’umiliazione imposta alla Russia portando la NATO fin dentro i suoi confini nonostante le rassicurazioni date a Gorbaciov.

La resistenza alle continue interferenze politiche in alcuni paesi come Cuba e Corea del Nord.

Le guerre coloniali iniziate fin dal 1991 contro tutti quei paesi che dovevano essere asserviti, dal Medio Oriente all’America Latina fino all’Africa passando per la ex Jugoslavia.

La truffa operata sulla pelle del popolo Afghano prima usato ed armato contro i sovietici e poi occupato per 20 anni con la retorica sulle donne oppresse e dei diritti civili.

Tutto ciò ha aperto la strada per la creazione di quella maggioranza di paesi oggi predisposti ad una alternativa economica e sociale. Alternativa che si materializza nei voti del Sud del Mondo espressi durante le Assemblee Generali dell’ONU.

Verso il multipolarismo

La forma che sta assumendo il cambiamento attuale è dunque quella del mondo multipolare, è uno scenario che rispecchia molto parzialmente il nostro pensiero sul cambiamento sociale, non ha necessariamente e formalmente l’obiettivo del socialismo, trascina con se elementi arretrati quali quelli religiosi ma è l’unica prospettiva, al momento, che può mettere in crisi il dominio occidentale. Questo per noi è fondamentale in quanto riteniamo sia necessario per i comunisti continuare a lottare e mettere in crisi il proprio imperialismo.

Se questa è la condizione oggettiva, storica, in cui ci troviamo riteniamo altrettanto importante avere le idee chiare di cosa stiamo parlando evitando illusioni di ritrovate patrie socialiste e capire quale funzione svolgere per le forze comuniste presenti nelle cittadelle imperialiste.

Per essere chiari, ed al di là delle tattiche politiche necessarie in una situazione di rimescolamento generale, continuiamo a pensare che Putin faccia parte di quel ceto politico-finanziario parassitario che ha tradito l’Unione Sovietica e la prospettiva socialista; ovviamente saremmo contenti se quello che sta avvenendo implicasse una modifica delle prospettive della Russia ma su questo manteniamo un certo scetticismo. Indubbiamente la difesa nazionale della Russia è una grossa contraddizione per l’occidente che va interpretata e gestita politicamente ma questo non deve incidere su una nostra capacità di lettura razionale, in quanto comunisti, dei complessi processi in atto.

Sempre per non divagare è per noi utile rappresentare con chiarezza quello che pensiamo sulla Cina. Nel gennaio del 2021, in piena pandemia partita da quel paese, abbiamo tenuto un Forum per elaborare un giudizio più organico su quello che stava accadendo nel paese, allora, più popoloso del mondo.

Senza entrare nel merito di quel confronto, il dato di fondo era che il PCC aveva accettato negli anni ’80 un rapporto politico con gli USA, scelta sostenuta già precedentemente da Mao e simbolica fu la partita a Ping Pong tra USA e Cina tenuta nel 1971, ed economicamente ha scelto di gestire il MPC operando su questo una sorta di scommessa strategica con i propri fini socialisti.

Questa, dal nostro punto di vista, non si è ancora conclusa ma certamente in parte è stata vinta con una crescita economica enorme e con un altrettanto enorme ruolo internazionale acquisito negli ultimi anni. Ma va detto anche che da questo punto di vista le contraddizioni che vive la Cina sono grandi, dal ruolo dello Stato nell’economia, alla corruzione diffusa, al rischio di far prevalere gli “istinti animali” del MPC visto che sul controllo di questo si basa la scommessa del PCC.

Per noi i rischi ci sono e sono molti e pensiamo che ne vada fatta una analisi lucida, ma su un punto abbiamo le idee abbastanza chiare cioè che la Cina non è un paese imperialista e questo lo affermiamo non per principi ideologici ma per un motivo materiale.

Se assumiamo una visione d’insieme, dallo specifico del “capitalismo” cinese ai verificati limiti allo sviluppo del MPC, la domanda da farsi è se in una situazione di questo tipo è possibile ipotizzare il passaggio del testimone imperialista dagli USA alla Cina, come molti sostengono.

In altre parole non riteniamo che ci siano le condizioni oggettive (lo spazio materiale) per un tale sviluppo a meno che non ci sia una guerra mondiale/nucleare con una distruzione generalizzata delle forze produttive i cui esiti appaiono difficilmente prevedibili per tutti i soggetti in campo.

Forse è proprio grazie alla coscienza di questa condizione generale che prende quota l’ipotesi del multipolarismo ed entra in crisi il comando occidentale a scala globale. Dunque l’uso del MPC, con tutte le contraddizioni e diseguaglianze che produce, non implica necessariamente una evoluzione imperialista della Cina.

Nel passato della Storia del capitalismo sono già avvenuti dei passaggi da una egemonia di un paese ad un’altra, è avvenuto con l’affermazione dell’Inghilterra divenuta l’impero più grande a livello planetario e con l’affermazione dell’egemonia Statunitense dopo la seconda guerra mondiale.

Il successo di questi imperialismi egemoni si è determinato non principalmente in via militare ma con la capacità di crescita industriale, economica, politica divenuta modello per i capitalismi nascenti dell’800 per quanto riguarda l’Inghilterra e per gli USA l’affermazione del mondo unipolare degli ultimi quarant’anni. Oggi quella dimensione della crescita per riproporre una nuova egemonia imperialista in relazione al capitale circolante a livello mondiale è per noi evidentemente difficile se non impossibile.

La Storia non è finita. La Storia si è rimessa in marcia ridando ruolo alle forze di classe nei paesi fuori dalle cittadelle imperialiste ed a quei paesi che in un modo o in un altro hanno inciso nella storia del ‘900. Per questo non siamo d’accordo con la categoria del fallimento del socialismo e pensiamo che la sconfitta ci sia stata, è stata evidente, va analizzata e compresa ma la sconfitta non è la chiusura di ogni prospettiva rivoluzionaria poiché oggi le contraddizioni stesse del capitale la rivitalizzano.

Questa valutazione non è un messaggio consolatorio per chi è “nostalgico” ma è invece un segnale che intende ridare una speranza a chi è colpito e penalizzato, in particolare in Europa, dal distorto sviluppo attuale: i lavoratori, le giovani generazioni, gli immigrati, e riaffermare che il cambiamento è in atto e che la partita si riapre per tutti coloro che la vogliono giocare senza illusioni e con la consapevolezza dello scontro brutale che implicherà questo livello delle contraddizioni.

Certamente parallelismi con il ‘900 sono fallaci, pensare di riprodurre quelle dinamiche nel nuovo contesto internazionale modificato sul piano sociale, politico e dei rapporti di forza internazionale è un errore di dogmatismo che non fa i conti con la potente dialettica “rivoluzionaria” prodotta dal Capitale in questi ultimi decenni.

Al contrario abbiamo bisogno, rivendicando comunque la nostra storia ma rimettendo mano alla cassetta degli attrezzi marxista, di adeguare gli strumenti analitici, di cogliere i caratteri nuovi e, per molti tratti, inediti della presente fase del capitale tentando di operare, anche per ciò che attiene alla soggettività comunista, un salto di qualità dell’agire politico ed organizzativo all’altezza dell’attuale soglia dello scontro.

Infatti va recuperato, valorizzato e rilanciato il movimento verso il socialismo, convinti di stare ancora dentro un processo storico di cambiamento del mondo essendo coscienti che l’attuale assetto sociale potrà solo peggiorare le condizioni di tutta l’umanità inclusi i popoli che vivono nei paesi imperialisti. Di questo noi come RdC ne siamo profondamente convinti ed è una delle ragioni costituenti della nostra soggettività e del nostro processo di costruzione organizzata.

Questa però non è solo una affermazione aprioristica ma nasce dalla constatazione che gli stessi sacri principi della borghesia internazionale stanno logorandosi dentro il riemergere di contraddizioni irrisolvibili e sempre meno occultabili dalle fumisterie ideologiche e narcotizzanti messe in atto dagli apparati ideologici del capitale.

Il neoliberismo, particolarmente dopo la fine dell’URSS e nei primi anni 2000 con il pieno dispiegamento della cosiddetta Globalizzazione, aveva promesso possibilità di crescita per tutti nella riaffermazione delle libertà borghesi, ma quello che si sta manifestando è una diseguaglianza economica e sociale sempre più profonda, sempre più riconosciuta dalle stessi fonti padronali, che aumenta la distanza tra popoli, all’interno stesso dei popoli, tra generazioni. Non a caso alcuni accademici, di parte borghese, alludono ad una crisi di civiltà delle società liberali e/o capitalistiche.

Il neoliberismo aveva affermato che lo Stato era un danno e che andava limitato al massimo procedendo con le privatizzazioni di aziende e servizi pubblici, con riduzione del personale a cominciare dalla sanità ed in tutti i servizi gestiti dal welfare.

Nei fatti le politiche liberiste hanno ingrassato i profitti delle grandi imprese, della finanza ed hanno impoverito non solo i settori popolari ma anche il “ceto medio” quale base sociale e politica per la stabilità dei governi. La pandemia del Covid 19 ha mostrato come l’impoverimento dei servizi pubblici producesse danni mai visti prima.

Oggi a smentire definitivamente l’assunto di “meno stato e più mercato” emerge chiaramente che il mercato non è in grado di sostenersi da solo ed ha sempre più bisogno del sostegno finanziario e normativo dello Stato e, come definitiva verifica, stiamo assistendo al ritorno del Keynesismo sotto forma di rilancio della produzione militare con tutto quello che ne potrà derivare per la pace nel mondo.

Infine anche il feticcio della democrazia borghese si sta sgretolando, a partire dai paesi imperialisti, con la corruzione sempre più profonda, il moltiplicarsi di fenomeni di grassazione, con una vera e propria degenerazione economica e culturale sempre più pervasiva a causa dell’affermazione delle lobby finanziarie ed industriali.

Anche la degenerazione di classi politiche indecenti, inconsistenti e asservite ai poteri forti sono un altro sintomo di crisi del sistema politico borghese come lo è la crescita dell’astensionismo che, nei paesi dell’est Europa, è arrivato al 70% nelle ultime elezioni Europee.

Elezioni durante le quali è emerso un ulteriore paradosso nelle elezioni in Germania dove le forze antigovernative di destra hanno ottenuto la maggioranza in tutta la ex Germania dell’est rialzando quel muro politico che qualcuno pensava di aver abbattuto.

Esito ripetutosi nelle due elezioni regionali successive che hanno riconfermato la divaricazione politica tra i Lander dell’est e quelli dell’ovest rafforzata proprio dalle politiche sociali di un paese capitalista, nonostante la cinica annessione fatta nel ’90.

Non solo, ma laddove i risultati elettorali non sono quelli desiderati vengono contestate le elezioni come elezioni farsa e vengono messi in moto ad arte movimenti che puntano a ristabilire l’ordine voluto, la vicenda Venezuelana ne è l’ultimo esempio in ordine di tempo. Cosa che si è ripetuta in altre forme anche in Francia con l’indicazione di un presidente del consiglio Gollista nonostante la vittoria e l’opposizione del Nuovo Fronte Popolare.

E noi?

Ricollocare la storia del movimento di classe e comunista del ‘900 è un elemento importante non solo per il passato ma anche per le prospettive; certamente va tenuto conto che questo tipo di ricostruzione di un filo rosso rivoluzionario noi lo dobbiamo svolgere in Italia ovvero nell’Unione Europea, ovvero in un polo imperialista di prima grandezza nonostante le sue molte contraddizioni.

Un polo che stenta a divenire entità statuale sulla base dei criteri storici a cui siamo abituati ma che procede, con percorsi tortuosi, verso una unificazione “sui generis” degli Stati europei, in questo senso la guerra in Ucraina sta fornendo un pretesto forte sia sul piano politico sia su quello più direttamente industriale. Va ricordato in proposito che la Germania e l’Italia si sono costituiti nel secolo XIX Stati Nazionali proprio grazie all’uso dello scontro militare.

Il piano proposto da Draghi parte dall’opportunità offerta dalla guerra in Ucraina ma punta su una omogeneizzazione del sistema industriale continentale fondamentale per procedere nel faticoso percorso di unificazione politica della UE.

Riaffermare un ruolo dei comunisti e del movimento di classe è complesso e difficile perché l’imperialismo, mentre sfrutta e produce diseguaglianze nel resto del mondo, deve in qualche modo non far precipitare le proprie classi subalterne in una condizione di povertà. Ciò per motivi politici, e questi già si vedono nell’astensionismo in crescita e nella volubilità dell’elettorato, sia perché l’occidente è pur sempre il mercato dove realizzare i profitti nella valorizzazione delle merci e dei servizi oltre che con le forme di sfruttamento del lavoro tecnologicamente più evolute.

Non si può prescindere, dunque, nelle analisi e nelle conseguenti valutazioni possibili da questo dato strutturale che, seppure viene sempre più ridimensionato dalla crisi generale, determina una condizione specifica in cui l’esistenza del cosiddetto “ceto medio” contiene le possibilità effettive di conflitto e di crescita per una forza radicalmente antagonista.

Agiscono in questa direzione di “freno” anche altri elementi strutturali quali la scomposizione tecnica e giuridica della forza lavoro; sappiamo bene che l’aumento della composizione organica del capitale, ancor più nei centri imperialisti, riduce la componente del lavoro vivo, sia manuale che mentale, e dunque ne deve abbassare necessariamente i costi cosa che avviene tramite la diffusione della precarietà in forme variegate sia nel settore privato che in quello pubblico.

Significativa è, in questo senso, la modalità mistificante con cui vengono fatte le statistiche sull’occupazione da cui risulta una ridicola percentuale di disoccupati in quanto basta aver lavorato 1 ora nella settimana in cui viene effettuata la rilevazione statistica per risultare statisticamente occupato a tutti gli effetti.

Infine la difficoltà principale che incontriamo nell’organizzazione del conflitto è il prodotto del tradimento delle organizzazioni storiche, politiche e sindacali, e della loro integrazione nella governance capitalistica che hanno portato alla scomparsa della coscienza di classe, all’assenza di riferimenti politici e culturali ed allo strapotere delle classi dominanti. Queste, infatti, operando in assenza di ogni tipo di coscienza e resistenza, hanno gioco facile non solo per ottenere i loro obiettivi ma anche per avere l’adesione passiva all’ideologia dominante.

Questo aspetto è particolarmente rilevante in Italia, a differenza di altri paesi europei come la Francia, la Spagna o la Grecia, dove i ceti dirigenti di derivazione PCI e CGIL sono stati particolarmente abili ad evitare che si ricostituissero forze politiche e sociali in grado di rappresentare una alternativa politica credibile potendo così riportare sotto l’ombrello dell’ideologia neoliberista le classi subalterne che fino agli anni ’80 avevano lottato e si erano battute per una società migliore.

Risalire la china prodotta dalle variegate forme del pentitismo nostrano non è facile proprio perché in chi è penalizzato c’è la convinzione che l’unico mondo possibile è questo, e bisogna accettarlo perché non ci sono alternative.

In realtà l’azione delle borghesie per mantenere in Italia ed in Europa l’egemonia si è collocata su diversi piani: il primo lo abbiamo visto con la politica dello “sgocciolamento” economico verso le classi subalterne, poi con un uso della repressione accorto ma sempre più presente, e su questo la sinistra di governo è stata sempre in prima linea e la più solerte. Anche se ora il governo Meloni cerca di superarla con il ddl 1660.

Ma l’arma principale che garantisce ancora la controllabilità politica dall’interno della classe è l’affermazione, la predominanza dell’ideologia borghese dove ognuno deve pensare a se stesso e dove si è convinti che non si possa immaginare l’esistenza di un mondo migliore.

Se sul conflitto politico e sociale e sulla repressione le forze antagoniste producono risultati a volte pure di rilievo, la sfida sull’ideologia intesa come concezione del mondo è stata completamente elusa.

Come RdC pensiamo invece che questa sfida sia la più importante, vada raccolta e ricostruita una visione generale, ideologica, al di là della paura delle parole a cui hanno tentato di assuefarci, perché il ruolo attivo della soggettività è l’unico che può lavorare per una prospettiva di cambiamento.

Lo “spontaneismo”, il “basismo”, “l’economicismo”, “il pan sindacalismo”, “l’elettoralismo” infatti, si sono esauriti nel momento in cui è stato definitivamente consumato il capitale politico, sociale e organizzativo del movimento di classe e di sinistra in continui tentativi politici fallimentari. Quel capitale inteso come “tessuto” materiale e base della coscienza di classe costruito proprio nello scontro politico del ’900 affermatosi con forza dalla rivoluzione bolscevica e resistendo per decenni ad un nemico certamente più forte.

Questo nostro Forum, dunque, titolato non provocatoriamente “Elogio del Comunismo del ‘900” nasce proprio dall’esigenza di costruire un’altra visione del ruolo del movimento comunista e di classe ed un altro punto di vista del mondo attuale come elemento costitutivo di un processo politico dove vogliamo riaffermare che da una sconfitta si può sempre rinascere, anche in quella avuta con le prime, difficili esperienze socialiste affermatesi per circa settanta anni nel ‘900.

Fonte

29/09/2024

Austria al voto. Vento di destra ma anche aspettative per il partito comunista

Oggi si svolgono le elezioni in Austria dove, come avvenuto in Germania, si attende una crescita del partito della destra Fpo che potrebbe andare al Governo.

Più di sei milioni di elettori sono chiamati alle urne per rinnovare i 183 seggi del Nationalrat, la camera bassa del Parlamento di Vienna.

Il favorito, nelle intenzioni di voto, è appunto il Partito della Libertà (FPOe, formazione di estrema destra) al 27%, seguito dal Partito Popolare Austriaco (OeVP), del cancelliere Karl Nehammer, al 25%. Il Partito Socialdemocratico (SPOe) potrebbe ottenere il 21% dei consensi e i Verdi, come in Germania parte della coalizione del governo uscente nei sondaggi hanno il 9% .

L’immigrazione è stato un tema centrale della campagna elettorale dove il FPOe di Herbert Kickl intende dare un giro di vite accelerando il rimpatrio degli immigrati nei loro Paesi d’origine.

L’OeVP (Partito Popolare) potrebbe però prendere in considerazione la possibilità di entrare in coalizione con il partito di estrema destra se Kickl fosse disposto a lasciare a un altro l’incarico di primo ministro.

Nel caso di una vittoria dell’OeVP, una coalizione con l’FPOe potrebbe essere più probabile: i due partiti hanno già governato insieme in passato, e le loro posizioni – soprattutto in materia di economia e immigrazione – non sono molto distanti.

Se il quadro generale, negativo, è quello di uno spostamento dell’asse politico verso destra, in Austria c’è anche una novità importante.

Il Partito Comunista Austriaco (KPO), è assente dal Parlamento dal 1959, ma è dato nei sondaggi sopra la soglia di sbarramento del 4%, e potrebbe quindi ritornare a pesare nel sistema politico austriaco, in controtendenza rispetto allo spostamento a destra.

Negli ultimi anni il KPO è cresciuto tanto da conquistare la città di Graz nel 2021 e da crescere in diversi Land, in particolare in Stiria e nel Salisburghese, dove ha ottenuto oltre l’11% nelle elezioni del 23 aprile 2023, pescando principalmente dall’astensione e riavvicinando le classi popolari alla partecipazione politica.

Il suo programma per le elezioni parlamentari di domani si basa su 4 punti chiari:

- Tetto massimo agli affitti, un moderno equo canone

- Ritorno integrale alla sanità pubblica, contro le privatizzazioni

- Neutralità dell’Austria e rifiuto delle politiche belliciste di Nato e Unione Europea

- Attacco ai privilegi dei politici stabilendo un tetto massimo ai loro stipendi

Il KPO ha indicato quindi una strategia e un programma sottoscrivibile da chiunque abbia chiaro che per battere le destre non è utile legarsi al centro sinistra, co-responsabile delle politiche antipopolari e dell’escalation bellica, ma che un’altra strada c’è e, come nel caso della Germania, sembra funzionare.

Fonte

25/09/2024

Sri Lanka - I comunisti vincono le elezioni presidenziali

Il 22 settembre 2024, l’autorità elettorale dello Sri Lanka ha annunciato che Anura Kumara Dissanayake, dell’alleanza National People’s Power (NPP) guidata dal Janatha Vimukthi Peramuna (JVP), ha vinto le elezioni presidenziali. Dissanayake, leader della sinistra del JVP dal 2014, ha sconfitto altri 37 candidati, tra cui il presidente uscente Ranil Wickremesinghe del United National Party (UNP) e il suo principale sfidante Sajith Premadasa del Samagi Jana Balawegaya.

I partiti tradizionali che hanno dominato la politica dello Sri Lanka, come lo Sri Lanka Podujana Peramuna (SLPP) e l’UNP, sono ora in ritirata. Tuttavia, dominano ancora il Parlamento dello Sri Lanka (lo SLPP ha 145 seggi su 225, mentre l’UNP ha un solo seggio). Il JVP di Dissanayake ha solo tre seggi in Parlamento.

Il trionfo di Dissanayake nell’essere eletto nono presidente del paese è significativo. È la prima volta che un partito della tradizione marxista del paese vince un’elezione presidenziale. Dissanayake, nato nel 1968 e conosciuto con le sue iniziali AKD, proviene da una famiglia della classe operaia del centro nord dello Sri Lanka, lontano dalla capitale Colombo.

La sua visione del mondo è stata plasmata dalla sua leadership nel movimento studentesco dello Sri Lanka e dal suo ruolo come quadro nel JVP. Nel 2004, Dissanayake è entrato in Parlamento quando il JVP ha formato un’alleanza con Chandrika Kumaratunga, presidente del paese dal 1994 al 2005 e figlia della prima donna primo ministro al mondo (Sirimavo Bandaranaike).

Dissanayake è diventato Ministro dell’Agricoltura, Territorio e Bestiame nel governo di Kumaratunga, una posizione che gli ha permesso di dimostrare la sua competenza come amministratore e di coinvolgere il pubblico in un dibattito sulla riforma agraria (che probabilmente sarà una questione che affronterà come presidente). Un tentativo di conquistare la presidenza nel 2019 si è concluso senza successo, ma non ha fermato né Dissanayake né l’NPP.

Turbolenza Economica

Nel 2022, Colombo, la capitale dello Sri Lanka, è stata scossa dall’Aragalaya (proteste) che sono culminate con l’occupazione del palazzo presidenziale e la fuga frettolosa del presidente Gotabaya Rajapaksa. Queste proteste sono state motivate dal rapido declino delle condizioni economiche della popolazione, che ha dovuto affrontare carenze di beni essenziali, tra cui cibo, carburante e medicinali.

Lo Sri Lanka è andato in default sul debito estero ed è finito in bancarotta. Piuttosto che generare un risultato che soddisfacesse le proteste, Wickremesinghe, con il suo orientamento neoliberale e filo-occidentale, ha preso la presidenza per completare il mandato di sei anni di Rajapaksa, iniziato nel 2019.

La presidenza debole di Wickremesinghe non ha affrontato nessuno dei problemi sottostanti delle proteste. Nel 2023, ha portato lo Sri Lanka al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per ottenere un salvataggio di 2,9 miliardi di dollari (il 17° intervento del genere nello Sri Lanka da parte del FMI dal 1965), che ha comportato la rimozione dei sussidi per beni come l’elettricità e il raddoppio dell’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto al 18%: il costo del debito è stato pagato dalla classe operaia dello Sri Lanka e non dai creditori esterni.

Dissanayake ha dichiarato che vorrebbe invertire questa situazione, rinegoziare i termini dell’accordo, mettere più pressione sui creditori esterni, aumentare la soglia di esenzione dell’imposta sul reddito e esentare diversi beni essenziali (cibo e assistenza sanitaria) dal regime fiscale aumentato.

Se Dissanayake riuscirà a fare tutto ciò e se interverrà con serietà per soffocare la corruzione istituzionale, lascerà un segno importante nella politica dello Sri Lanka, che ha sofferto per la brutalità della guerra civile e per i tradimenti della élite politica.

Un Partito Marxista alla Casa Presidenziale

Il JVP o Fronte di Liberazione Popolare è stato fondato nel 1965 come partito rivoluzionario marxista-leninista. Guidato da Rohana Wijeweera (1943-1989), il partito ha tentato due insurrezioni armate – nel 1971 e di nuovo dal 1987 al 1989 – contro quello che percepiva come un sistema ingiusto, corrotto e inamovibile. Entrambe le rivolte sono state brutalmente represse, causando migliaia di morti, compreso l’assassinio di Wijeweera.

Dopo il 1989, il JVP ha rinunciato alla lotta armata ed è entrato nell’arena politica democratica. Il leader del JVP prima di Dissanayake era Somawansa Amerasinghe (1943-2016), che ha ricostruito il partito dopo che i suoi principali leader erano stati uccisi alla fine degli anni ’80.

Dissanayake ha portato avanti l’agenda di costruire un partito politico di sinistra che promuovesse politiche socialiste nelle aree elettorali e sociali. La notevole crescita del JVP è il risultato del lavoro della generazione di Dissanayake, che è più giovane di 20 anni rispetto ai fondatori e che è riuscita ad ancorare l’ideologia del JVP in ampie sezioni della classe operaia, del contadinato e dei poveri dello Sri Lanka.

Rimangono domande sul rapporto del partito con la minoranza tamil, data la tendenza di alcuni suoi leader a scivolare nel nazionalismo singalese (soprattutto per quanto riguarda il modo in cui lo stato dovrebbe affrontare l’insurrezione guidata dalle Tigri di Liberazione del Tamil Eelam). L’ascesa personale di Dissanayake è dovuta alla sua integrità, che contrasta nettamente con la corruzione e il nepotismo della élite del paese, e al fatto che non ha voluto definire la politica dello Sri Lanka attorno a divisioni etniche.

Parte della rifondazione del JVP è stata il rifiuto del settarismo di sinistra. Il partito ha lavorato per costruire la coalizione National People’s Power di ventuno gruppi di sinistra e centro-sinistra, il cui programma comune è affrontare la corruzione e la politica del debito e dell’austerità imposta dal FMI alla massa del popolo dello Sri Lanka.

Nonostante le profonde differenze tra alcune delle formazioni nell’NPP, c’è stato un impegno per un programma politico minimo comune. Tale programma è radicato in un modello economico che dà priorità all’autosufficienza, all’industrializzazione e alla riforma agraria. Il JVP, come forza principale dell’NPP, ha spinto per la nazionalizzazione di alcuni settori (in particolare delle utilities, come la fornitura di energia) e la redistribuzione della ricchezza attraverso una tassazione progressiva e un aumento della spesa sociale.

Il messaggio di sovranità economica ha colpito nel segno tra le persone che da tempo sono divise lungo linee etniche.

Resta da vedere se Dissanayake sarà in grado di realizzare questo programma di sovranità economica. Tuttavia, la sua vittoria ha certamente incoraggiato una nuova generazione a respirare di nuovo, a sentire che il loro paese può andare oltre l’ormai stanco programma del FMI e cercare di costruire un progetto srilankese che potrebbe diventare un modello per altri paesi del Sud del mondo.

Fonte

05/09/2024

[Contributo al dibattito] - Se si va con un ladro...

di Nico Maccentelli

... non ci si può poi stupire se non trovi più il portafoglio. L’intera operazione del Nouveau Front Populaire delle sinistre francesi alle scorse elezioni è stato un potente assist a Macron, che è il nemico principale per le classi subalterne poiché diretta espressione delle oligarchie imperialiste atlantiste.

Questo argomento l’avevo già affrontato qui.

Infatti, scrivevo riguardo: “... al Front Populaire costituitosi in Francia, è ben evidente che il cuore del progetto guerrafondaio della NATO resta tutto ed è quello che per il nemico di classe conta realmente, in mezzo alla fuffa che la guerra stessa e la sua economia farà sparire come neve al sole. Questa è la tonnara di cui parlavo all’inizio. Una tonnara politica dove, spiace dirlo, gli attori finali sono degli utili idioti”.

A questo punto, sarebbe interessante sapere che ne pensa la base sociale che ha votato per il FP, i lavoratori, la gente delle banlieu, le componenti sociali scese in piazza contro Macron e le sue politiche, dagli aumenti del gasolio alle pensioni. Cosa ne pensa chi avrebbe vinto, riguardo la parte finale del copione macroniano: ossia del blocco anticostituzionale messo in atto contro il partito maggioritario della coalizione elettorale vincente? Questa base, composta da milioni di francesi, sarebbe stupita di questo?

In realtà tutto è andato secondo i piani dell’oligarchia imperialista espressa dal governo precedente, che poi è quello attuale degli “affari correnti”, e quindi nulla di cui stupirsi, come mostra di esserlo invece il Marrucci nel suo pippone su Ottolina tv. La scoperta dell’acqua calda. Pippone che tuttavia merita comunque di essere visto poiché fa una cronistoria puntale di tutta la vicenda francese del dopo elezioni europee e, per chi volesse saperne di più, rimando a questo contributo.

France Insoumise avrebbe dovuto correre da sola e non dare troppa importanza alla Le Pen, la cui vittoria, checchè ne dicano gli “antifascisti” di facciata, quelli che compaiono nei salotti solo nelle tornate elettorali, non sarebbe stato il male peggiore. Anzi, la linea francese sulla guerra in Ucraina con tutta probabilità avrebbe avuto un segno diverso dai desiderata imposti dal Washington consensus.

Una metodologia politica realmente marxista insegna che tra i nemici di classe esistono un nemico principale e uno secondario. E che ciò non ha nulla a che vedere con il sostrato ideologico, ma con i rapporti di dominio classista. Le oligarchie atlantiste ben espresse politicamente dalle sinistre dem e socialdemocratiche sono le frazioni di borghesia imperialista dominanti nell’Occidente collettivo, sono il nemico principale. Vedere l’orbace e il gagliardetto come grande pericolo per una democrazia che in Occidente non esiste, è un po’ come vedere il dito che indica la Luna. È lo specchietto per allodole. In altre parole non è politica di classe e rivoluzionaria. È bene che qualcuno lo ricordi ai vari Melenchon, così come alla nostra sinistra radicale che ripete un inciucio dietro l’altro senza sganciarsi dal treno dell’euroimperialismo di sinistra.

Se il metodo fosse stato questo, invece di scimmiottare il fronte popolare degli anni ’30, avremmo avuto il rafforzamento di un vero fronte di classe e non l’illusione di andare a governare con il vero nemico principale, o di esserne trombati come utili idioti. Ma soprattutto non si sarebbe servito lo scopo principale delle oligarchie imperialiste, ossia fare la guerra. Il che definisce anche lo scopo che dovrebbe avere qualsiasi forza realmente di classe e antimperialista: scongiurare la guerra, ostacolarla con ogni mezzo. Non ostacolare anche il peggiore dei fascisti se questi manda a carte e quarantotto il processo guerrafondaio USA-NATO. E che lo facesse pure per meri intressi meschini di volontà di potenza nel riprendere il gas russo. Senza radioattività e città devastate avremmo comunque la possibilità di rivolgerci contro questo nuovo nemico principale. Questo ci dice il leninismo (1). È con questo metro che va vista una certa destra trumpiana, orbaniana, lepenista. Utili nemici, non certo alleati, ma fermare la guerra nel nostro continente anche per interessi nazionali, serve anche la rivoluzione, servendo nel contempo le umane aspirazioni a non essere distrutti, a non far pagare il conto a noi europei per soddisfare i profitti di un’eventuale ma penso poco probabile ricostruzione da parte dei famelici speculatori di Wall Street.

E invece, se ci pensate bene, gli ultimi passaggi politici di certa sinistra nostrana che dicesi comunista, sono andati esattamente nella direzione opposta, andando a pestare i calli di chi da Putin per aprire un confronto ci è andato sul serio, prendendosi gli strali degli “antifascisti”(2) che governano a Bruxelles, quelli che danno armi e sostegno ai nazisti di Kiev, imponendo insieme agli USA il grande macello guerrafondaio del popolo ucraino.

Dunque, se poi ci pensate ancor meglio, i risvolti della vicenda politica nazionale francese sono un messaggio anche per la nostra sinistra radicale, anche per i comunisti nostrani più incalliti, capaci solo di ripetere le eterne verità sul piano ideologico, senza però fare alcun passo politico che li porti fuori da una deriva che ormai dura da decenni.

Occorre sganciarsi da una sinistra ormai neoliberale, filo-imperialista, che oggi serve devastazione sociale e guerra servendosi del paravento antifascista, buono per i gonzi, e dei “diritti umani” che però se al governo calpesta costantemente con misure economiche draconiane, che non favoriscono certo le classi popolari e chi arriva con i barconi. Occorre scegliere da che parte stare, multipolarsimo e non europeismo, decolonizzazione anche del nostro paese e non suprematismo per censo, anglocentrismo camuffato da mistificazione woke e cancel culture.

Fortunatamente in Germania la situazione è già un po’ diversa e con il BSW di Sahra Wagenknecht ci sono maggiori possibilità di affermazione di un’opposizione popolare antimperialista e antimilitarista. Nelle elezioni regionali in Sassonia e Turingia BSW è arrivato terzo, superando la sinistra neoliberale della ztl, socialdemocratici e verdi. La sua politica paga sul piano di un consenso crescente proprio perché fuori e contro la sinistra zerbino del neoliberismo atlantista, proprio perché recepisce tutto il disagio sociale dei settori meno abbienti, senza infingimenti, senza la falsa ideologia del politically correct, perché si pone contro la guerra non a chiacchiere, mettendo tutti i borghesi, le loro frazioni sullo stesso piano, ma facendo appunto politica (ho ampliato il ragionamento qui). Sarà interessante vedere le scelte politiche che BSW farà, se di coalizione, oppure di opposizione. Ma certamente la formula delle “sinistre unite” è proprio in Germania che si rivela inadeguata e controproducente.

C’è più leninismo (anche se elettoralistico) in una ex Die Linke come la Wagenknecht (3), che in un qualsiasi falcemartellaro dogmatico, con le iconcine di Marx, Stalin o Trotsky usate come i santini scacciamaligno. O in qualsiasi centrosocialaro dirittumanitarista che vota una Rackete che poi sposa la versione imperialista sul Venezuela bolivariano.

Quello che la sinistra “antagonista” nel suo complesso non comprende è proprio l’urgenza di andare oltre i giochi politici condotti dal mondo dem e dalle sue armi culturali di distrazione di micro-massa. Urgenza dettata da un ruolino di marcia che ci porta sempre di più dentro la guerra imperialista.

È inutile stupirsi come fa anche il pur acuto e bravo Marrucci del golpe di Macron. Il colpo di stato internazionale da parte dei signori di Davos è già in atto da anni: la fase del COVID, come annichilimento delle masse in un controllo distopico e biopolitico, ne è stato un passaggio che solo dei pesci in barile ostinati vogliono non vedere. E tutta la chiave di lettura di questa traiettoria si falsa.

La differenza sta nel fatto che Macron non deve più nemmeno fingere e costituzionalmente impedisce a una coalizione che ha vinto le elezioni di governare, pone dei veti illegali alla forza maggioritaria di questa coalizione, trombando France Insoumise nel nome di un presunto quanto inesistente antisemitismo. Una scusa vale l’altra, alla bisogna.

Ma già i parlamenti vengono bypassati in tutto l’Occidente atlantista, e i luoghi decisionali sono di fatto quelli tecnocratici del potere profondo, che hanno sede altrove, nei palazzi della finanza, e negli organismi che uniscono finanzieri e tycoon delle porte girevoli, economisti, politici, think tank, uomini d’apparato con tutti i massmediatici al seguito.

Forse l’operazione dovrebbe essere un’altra: denunciare questo passaggio francese del golpe permanente globale, dando un quadro complessivo della situazione, collegando tutti i puntini del disegno sovranazionale. Troppo per chi non ha ancora capito dove sia il nemico e cosa sia il suo piano o, per lo meno, nella migliore delle ipotesi, non ha inquadrato ancora bene la situazione.

Altro che fascismo: qui mancano solo le “leggi fascistissime” del 1925 in salsa francese. E domani è un altro giorno come se niente fosse, nella falsa realtà della comunicazione di massa drogata.

Questa traiettoria verso un bellicismo neoliberale che non ammette altri aggregati e contesti decisionali che non siano quelli voluti nelle stanze dei poteri più profondi, è proprio il passaggio odierno di questa guerra, che spiega l’accelerazione autoritaria decisa dai think tank imperialisti. La differenza con lo stillicidio del togliere spazi di democrazia e ambiti di decisionalità parlamentare un po’ per volta, sta nel fatto che proprio per il must guerrafondaio a tutti i costi, deciso dal Washington consensus e dai suoi satrapi, viene gestito in modo extra-costituzionale con le cannoniere dei media, che fabbricano nemici da criminalizzare e imbastiscono campagne basate su menzogne e sulla distorsione dei fatti. Un metaverso rovesciato, dove il genocidio del popolo palestinese è lotta al terrorismo, la guerra della NATO preparata in anni di espansionismo e aggressioni militariste contro la Russia è sostegno a una nazione invasa, i nazisti sono lettori di Kant, le vittime sono carnefici e viceversa, la guerra è pace... ricorda qualcosa?

Dov’è finito l’orbace di Orban? Se si uscisse solo per qualche istante da questa narrazione drogata che influenza persino le menti presuntuosamente più antagoniste al potere borghese, forse si inizierebbe a capire l’eurolager dell’indottrinamento di massa, la propaganda ossessiva che ci trasformerà in carne da macello.

E qui veniamo alla pars construens. Quello che i miopi non hanno compreso dalle loro torri d’avorio dell’avaguardismo politicante invisibile alla massa della popolazione italiana, è l’insegnamento che si deve trarre dal grande se pur breve movimento di popolo che si è avuto nei tre anni e passa di restrizioni biopolitiche e dall’uso delle tecnologie sioniste del controllo già sperimentate sui palestinesi (4), nei tre anni di cui sopra (5).

In presenza di un’avanguardia vera, le cose sarebbero andate diversamente, perché se la controparte ha capito che fino a che punto puoi restringere gli spazi di vita e socialità della popolazione, lo dovrebbe aver capito anche questa avanguardia. E una massa così vasta, se organizzata anche solo in parte, avrebbe dato dei bei problemi al nemico imperialista e colonizzatore del nostro territorio, delle nostre attività sociali ed economiche, della nostra cultura e della nostra mente.

Organizzazione, linea politica, programma, obbiettivi e un’egemonia da conquistare nel movimento stesso. Cosa c’è di tanto diverso da un impianto leniniano? Nulla, se si considera finalmente la situazione concreta. Con un’avvertenza che ci dà lo stesso Lenin. Non lo cito, ma il succo è questo: non esiste la rivoluzione che vorremmo nei nostri pii desideri, ma i movimenti sono quello che sono storicamente e il nostro compito è quello di organizzarli e orientarli verso obiettivi realistici. La politica è l’arte del possibile e non una lista della spesa delle migliori utopie. E se i ceti medi d’Occidente vengono devastati dalle tecnocrazie degli oligopoli finanziari e multinazionali, occorre capire che senza questi ceti in via di proletarizzazione e precarizzazione, defraudati di lavoro, risparmi, immobili e censo, non si andrà da nessuna parte. E che il problema semmai è lavorare per costruire un’egemonia che sappia affrontare una lunga fase che insieme al multipolarismo porrà nella lotta di classe questioni che oggi neppure possiamo immaginarci.

E ora passiamo alla guerra imperialista che stanno preparando nel continente, conducendoci dentro questa a passi da gigante. Una popolazione che vive uno stato di guerra da sempre ha più attitudine ad accettarlo. Ma provate a pensare a popolazioni che non l’hanno vissuta, dove da ottant’anni e passa vivono non come le generazioni che l’hanno subita, come la prenderebbero?

Come l’ha presa la situazione distopica delle limitazioni da covid gran parte della popolazione? Cominciate a capire? Comprendete a cosa è servito quel passaggio sociale, antropologico, non certo determinato da un pangolino amoroso? (6)

Per questo occorre prepararsi per la futura situazione in cui ci sarà il ripristino di una leva obbligatoria, di giovani e meno giovani a crepare nelle pianure ucraine, leggi d’emergenza, addirittura la realtà di un territorio messo a ferro e fuoco: tutto ciò che concerne una situazione di guerra. Ecco il nostro compito. Il loro problema è abituare le masse a tutto questo. Il nostro è quello di organizzare rivolte sociali nella massa critica che si formerà in opposizione a tutto questo, di fronte al dato di fatto che la democrazia liberale è morta, che un Macron qualsiasi, uomo dell’entourage di Rothschild, del simulacro della democrazia, ossia di ciò che resta, ne fa spazzatura.

Rendere ingovernabile il loro sistema e il loro ruolino di marcia, inceppare i loro dispositivi di comando in ogni ambito sociale, politico, mediatico, vertenziale e sindacale.

Non siamo di fronte a un attacco alla scala mobile o all’art. 18. In questi ultimi anni i mutamenti che stanno avvenendo sulla vita di milioni di persone, che sia l’economia di guerra, della quale abbiamo già iniziato a provarne i morsi, o uno stato di guerra vera e propria, non saranno così semplici da farli ingoiare a questo tipo di popolazione, agli abitanti dei paesi a capitalismo avanzato. La battaglia sociale va preparata in modo adeguato, poiché di questo si tratterà, quando le masse popolari si troveranno ancora di più in questa sorta di distopia antropologica. Anche se oggi ancora non se ne rende ancora bene conto, questa massa farà in fretta a divenire critica quando verranno superati certi limiti. La censura di regime, che ci parla di un popolo ucraino solidale e resistente, quando invece c’è una situazione di diserzione di massa e i civili scappano per non diventare carne da cannone per nazisti e angloamericani, è una censura che serve anche a occultare la traiettoria della guerra imperialista nell’Occidente europeo. Quello che ci aspetta.

Questa è la questione. E prima lo capiremo utilizzando ogni arma disponibile e opportuna, ogni possibile interlocutore pur di ostacolare il loro progetto criminale, di veri criminali di guerra, meglio sarà.

Note

1) Per approfondire questa questione di tattica leninista si legga:

di Mao Tse Tung: “Il ruolo del Partito Comunista Cinese nella guerra nazionale”, otttobre 1938, Opere di Mao Tse Tung, volume 7 e l’intervista a Lev Trotsky fatta da Mateo Fossa il 23 settembre 1938 farà tremare le vene ai polsi di chi definisce fascisti, intrisi di pensiero borghese e reazionari coloro dei quali non sanno dare una collocazione politica (tanto meno sociale) secondo l’analisi concreta della situazione concreta e dei movimenti di massa:
“In Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese potrebbe condurre al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!”

I vari “ismi” dottrinari di oggi, caricature del comunismo e vere e proprie tifoserie demagogiche, hanno in comune tra loro l’inconsistenza politica, quanto i padri della Terza e Quarta Internazionale hanno avuto invece come denominatore comune i fondamentali della strategia politica leniniana. Le divisioni e i conflitti interni al movimento comunsta non erano certo su delle stronzate come oggi.

2) Esilarante, se non ci fosse da piangere lacrime di sangue, il Borrell a Ventotene, che celebra Spinelli, lui che ha definito “giardino” l’Europa e “giungla” il resto del mondo, quello delle “autocrazie”

3) Giusto per capire la “rossobruna” Sahra, rimando al suo saggio: “Contro la sinistra neoliberale” Fazi Editore, e citando un post di Vallepiano, evidenzio una breve biografia e alcune prese di posizione nel tempo che ci fanno capire che solo dei dementi o in mala fede possona tacciarla di rossobrunismo. La Wagenknecht uno dei massimi quadri politici della sinistra tedesca, definita da sempre da lavoratori, disoccupati e semischiavi del sistema Hartz “Die Rote Sahra”. Cresciuta nella DDR, fu dirigente giovanile del Partito Socialista Unificato, Il suo idolo era Walter Ulbricht, leader della Repubblica Democratica Tedesca e fiduciario di Stalin, che nel 1953 sedò una rivolta fomentata dagli USA armando le milizie operaie e con l’aiuto dei carri armati sovietici. Ecco alcune sue frasi più che eloquenti:

Per lei la caduta del Muro di Berlino fu: “Il momento più difficile che avesse mai affrontato”.

Nel suo primo discorso al Bundestag disse della DDR: “Cinque anni fa è morto un Paese in cui c’era almeno un tentativo di costruire una società non guidata dal profitto. Oggi vediamo di nuovo il dominio del capitalismo. Per me questo è un chiaro passo indietro. La DDR è stata la Germania più pacifica, più sociale, più umana in ogni fase del suo sviluppo, a dispetto delle critiche specifiche che si possono muovere nei suoi confronti”

Nel 2004 ha pubblicato il saggio: “Al Presidente: Hugo Chávez e il futuro del Venezuela” dove tratta la rivoluzione bolivariana come modello rivoluzionario per il Socialismo, definendo Chavez come “Un grande Presidente che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per la giustizia e la dignità”

Di Fidel Castro ha detto: “Si è battuto per un mondo migliore, è un democratico in tutto e per tutto. Ha amato il suo popolo e il suo popolo ama lui”

Su posizioni filo-palestinesi, viene espulsa per “antisemitismo” dalla Die Linke, ossia la sinistra liberale delle ztl. Contro la guerra della NATO e per un Europa fatta di stati nazionali e sovrani, quando Zelensky è fu invitato a parlare al Bundestag, Sahra lasciò l’aula e organizzò una contestazione.

4) Utile è la lettura di “Laboratorio Palestina, come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto i mondo”, di Antony Loewenstein, Fazi Editore, che oggi è certamente tecnologia dello sterminio

5) Per un’analisi di classe su quelli che non sono movimenti prettamente e soltanto proletari, ma trasversali a una società, a settori sociali che si ribellano alla dittatura biopolitica, alla guerra sociale dall’altro contro il basso e come probabilmente sarà all’epoca di guerra che ci aspetta, di ceti sociali devastati dalla distruzione creativa draghiana, dalla amazonizzazione delle filiere produttive e del terziario, rimando al mio contributo su Carmillaonline qui e qui.

6) A tal proposito riprendo l’analisi di R.M. un compagno dell’Assemblea Militante, che definisce piuttosto bene il passaggio epocale che stiamo vivendo:

“Dal Covid in poi continuando con Nord Stream 2, guerre ed elezioni varie nella sfera occidentale è diventato lapalissiano che il patto sociale su cui si fondavano gli stati borghesi,comprese le istituzioni consociative tipo EU, FMI, NATO, ONU, multinazionali monetarie, nati dopo la rivoluzione francese e le due guerre mondiali è definitivamente saltato. Si è aperta una fase di conflitto civile e sociale prodromo di una imminente guerra. La società è a brandelli e c’è chi ne approfitta economicamente e politicamente per imporre un nuovo fascismo e militarizzare le nostre società”.

Fonte