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29/09/2024

L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea

Qualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.

Il rapporto consta di due parti – parte A e parte B – e contiene 170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sottoproposte di vario tipo.

La prima parte è un’analisi riguardante la strategia di competitività per l’UE che vede condensate in circa 60 pagine i punti chiave del rapporto Draghi.

La seconda parte approfondisce in 328 pagine i vari punti individuando dieci principali settori di intervento (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) e cinque policy orizzontali, rispettivamente accelerazione dell’innovazione, riduzione del gap delle competenze, sostegno agli investimenti, ripresa della competitività e rafforzamento della governance. Nella parte B sono contenute le proposte dettagliate corredate da grafici, dati e tabelle che spiegano in particolare i costi della sovranità nazionale e le potenzialità della sovranità europea.

Diverse sono state le reazioni politiche in Italia. Mentre partiti come il Partito Democratico, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione e Italia Viva hanno ampiamente concordato – anche se con sfumature diverse – che le proposte di Draghi sono un passo nella giusta direzione, la Lega, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi Sinistra, dall’altro, con motivazioni antitetiche, hanno manifestato forti perplessità critiche.

Posizioni analoghe si sono riscontrate in diversi paesi d’Europa. Le forze moderate e liberiste del centro sinistra hanno manifestato apprezzamento, a differenza dei partiti populisti e sovranisti. Fortemente critica, per i motivi che ora vedremo, risultano le posizioni della sinistra radicale.

Sorprende l’endorsement al piano Draghi dell’economista Thomas Piketty, che ha affermato: “Il rapporto sulla competitività e il futuro dell’Europa, presentato alla Commissione europea dall’ex presidente della BCE, è un passo nella giusta direzione”, scrive l’economista nella sua rubrica e ”Il rapporto Draghi ha l’immenso merito di sfidare il dogma dell’austerità fiscale”. Come cercheremo di argomentare, ci permettiamo di dubitarne.

1. La prima osservazione da fare è che il piano Draghi si muove all’interno di una logica “supply-side”, quindi sul lato dell’offerta produttiva. Ora è vero che il rapporto si focalizza sul tema della produttività, ma l’assunto di partenza, non messo in discussione, è ancora una volta il mito della crescita:

“Se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare contemporaneamente leader nelle nuove tecnologie, faro della responsabilità climatica e attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. È una sfida esistenziale”[1]

A tal fine, secondo il rapporto, L’Europa deve affrontare tre grandi trasformazioni:

a. La prima è la necessità di accelerare l’innovazione e di trovare nuovi motori di crescita.

“La competitività dell’UE è attualmente compressa da due lati. Da un lato, le imprese dell’UE devono far fronte a una domanda estera più debole, soprattutto da parte della Cina, e a crescenti pressioni competitive da parte delle imprese cinesi. La BCE rileva che la quota di settori in cui la Cina è in concorrenza diretta con gli esportatori dell’area dell’euro è ora vicina al 40% rispetto al 25% del 2002, con un aumento della pressione competitiva da parte delle imprese cinesi. La quota dell’UE nel commercio mondiale è in calo, con una notevole diminuzione dall’inizio della pandemia. Dall’altro lato, la posizione dell’Europa nelle tecnologie avanzate che guideranno la crescita futura sta diminuendo. Solo quattro delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee e la posizione dell’UE nel settore tecnologico si sta deteriorando: dal 2013 al 2023, la sua quota di ricavi tecnologici globali è scesa dal 22% al 18%, mentre la quota degli Stati Uniti è salita dal 30% al 38%. L’Europa ha urgentemente bisogno di accelerare il proprio tasso di innovazione sia per mantenere la propria leadership produttiva, sia per sviluppare nuove tecnologie all’avanguardia”.[2]

b. L’Europa deve ridurre i prezzi elevati dell’energia, continuando a decarbonizzare e a passare a un’economia circolare.

“Il panorama energetico è cambiato in maniera irreversibile con l’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente perdita di gas naturale da gasdotto. Sebbene i prezzi dell’energia siano notevolmente diminuiti rispetto ai picchi massimi, le aziende dell’UE devono ancora affrontare prezzi dell’elettricità che sono 2-3 volte quelli degli Stati Uniti e i prezzi del gas naturale pagati sono 4-5 volte più alti. La decarbonizzazione potrebbe essere un’opportunità per l’Europa, sia per assumere un ruolo guida nelle nuove tecnologie pulite, sia per spostare la produzione di energia verso fonti energetiche pulite sicure e a basso costo, di cui l’UE ha una generosa dotazione naturale”[3].

c. In terzo luogo, l’Europa deve reagire a una governance geopolitica meno stabile, in cui le dipendenze stanno diventando vulnerabili e non può più contare su altri per la sua sicurezza.

In altre parole, Draghi afferma che l’Europa deve acquisire un maggior grado di autonomia economica e politica, affrancandosi dalla eccessiva dipendenza dagli Usa, se vuole riprendere un sentiero di crescita economica.

Si tratta di un’analisi che è suffragata dalla constatazione che l’economia Usa è cresciuta negli ultimi anni molto più di quella europea, grazie proprio alla dipendenza tecnologica e al ruolo di bacino di consumo dei cittadini europei. Un tempo si sarebbe parlato di imperialismo economico! Al quale è seguito anche un imperialismo militare, alla luce della dipendenza di molti paesi (Italia inclusa) ai diktat della Nato nella crociata anti-russa, per ribadire ancora una volta l’egemonia nord-americana.

Si tratta di un’analisi che non fa che registrar la realtà di oggi ma che nessuno ha mai esplicitamente dichiarato (con l’eccezione di parte della sinistra radicale). Per questo, il rapporto Draghi piace a sinistra e sconfessa le pretese di sovranismo della destra.

Tuttavia, due sono le possibili criticità in questa premessa, da cui dipende tutto il ragionamento successivo.

La prima riguarda il postulato della crescita economica come unico strumento per generare ricchezza. Tale idea, che accomuna destra e sinistra riformista, si fonda sull’idea che solo un processo di accumulazione fondato sul libero mercato e sull’iniziativa privata sia in grado di realizzarla. Alternative non sono ammesse. L’idea che solo il libero mercato sia efficiente conferma, almeno teoricamente, che il neoliberismo è ancora un punto di riferimento. Ma, come vedremo, non è proprio così.

Questa premessa, tuttavia, contraddice le buone parole sulla transizione energetica, parole che smascherano il marketing ideologico del “green-washing”, come ampiamente dimostrato dalle recenti scelte europee in materia che hanno allungato i tempi per la decarbonizzazione e il passaggio alle energie rinnovabili. L’accumulazione capitalistica privata, orientata, come è oggi, al profitto a breve-medio termine a causa della finanziarizzazione dell’economia, risulta incompatibile con la sostenibilità ecologica. Perché si possa seriamente pensare a una effettiva transizione ecologica è necessario uscire dalla logica di accumulazione dell’attuale capitalismo delle piattaforme. È questo il nodo e la contraddizione delle politiche ambientali istituzionali. A meno che non si consideri come unica fonte energetica pulita il nucleare di nuova generazione (rimanendo, però, del tutta insoluto il problema dello stoccaggio delle scorte radioattive)[4].

La seconda criticità riguardo la governance dell’Europa[5]. Veramente si ritiene possibile che l’Europa possa acquisire maggiori gradi di autonomia economica e politica con la presente tecnocrazia al potere, rappresentata dalla Commissione Europea a guida Von der Leyen? Persino il politologo della Liuss Sergio Fabbrini su Il Sole 24ore coglie questa carenza di capacità governativa. Non si discutono qui gli obiettivi:

“il Rapporto è tanto coraggioso sul piano delle politiche da promuovere (ampiamente analizzate da questo giornale), quanto è timido sul piano della governance necessaria per realizzarle. Forse, ciò è dovuto al bias tecnocratico-funzionalista di Draghi e del suo staff (in base al quale, le policies determinano la politics) o, più probabilmente, alla loro decisione di non attraversare il campo minato di quest’ultima. Qui risiede, però, il tallone d’Achille del Rapporto. Senza una governance adeguata, infatti, quelle politiche non potranno essere promosse. …Insomma, il Rapporto Draghi, insieme al Rapporto Letta sul mercato singolo, hanno alzato la riflessione sul futuro dell’Ue al livello delle sfide che essa deve affrontare. (…) Tali sfide richiederebbero però un cambiamento di paradigma relativamente al governo dell’Ue. Non si va lontani, senza un’automobile adeguata”.

Un esempio eclatante della incapacità politica dell’Europa di avere una propria autonoma governance è fornita dalle scelte di politica monetaria della Bce, che hanno seguito in modo supino i diktat provenienti dalla Federal Reserve Usa. L’inflazione europea è stata causata esclusivamente dall’aumento del prezzo del gas e dalla collaterale speculazione finanziaria ed è stata poi alimentata dal mantenimento di elevati profitti (inflazione da profitti[6]). Venuta meno l’impennata dei prezzi energetici più di un anno fa con un dimezzamento del tasso d’inflazione già a partire da metà 2023, invece di ridurre i tassi d’interessi in linea con il calo della stessa inflazione, la Bce ha continuato con una politica di elevati tassi, fortemente incoraggiata dalla Federal Reserve. Il vero obiettivo della politica monetaria non era tanto comprimere un’inflazione solo parzialmente imputabile alla crescita della domanda ma mantenere elevato il corso del dollaro per rendere sostenibile il crescente debito interno e lo strutturale debito estero dell’economia Usa. In tal modo la Bce ha favorito la stabilità e l’egemonia finanziaria nord-americana e il relativo moltiplicatore ma penalizzando le economie europee strette tra crisi della produzione manifatturiera e stagnazione della domanda interna a causa del calo dei redditi reali di lavoro. Altro che capacità di autonomia. Qui siamo di fronte ad un vero e proprio servilismo.

2. Il rapporto Draghi sulla competitività propone una serie di interventi in quei settori che vengono considerati strategici non solo perché si collocano sulla frontiera dell’innovazione e dell’accumulazione ma anche perché sono quelli che più possono garantire un’autonomia del processo produttivo. I già ricordati settori citati dal rapporto (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) dovrebbero essere a trazione esclusivamente europea. Ciò non significa che le relative filiere produttive si debbano collocare esclusivamente nello spazio economico europeo (come vorrebbe una certa vulgata sovranista e nazionalista – il ministero del “made in Italy”, ad esempio, ne è la beota esemplificazione). Si tratta infatti di filiere già ampiamente internazionalizzate ed è impensabile un ritorno indietro verso una dimensione nazionale. La questione posta da Draghi è che l’Europa deve dotarsi degli strumenti per arrivare a comandare queste filiere. E oggi il comando economico si gioca su due livelli: la proprietà intellettuale con il conseguente controllo della tecnologia e dei processi di diffusione tecnologica e la gestione dei flussi finanziari, ovvero la capacità di generare bolle speculative a proprio vantaggio, in grado di indirizzare i finanziamenti laddove sono strategicamente necessari.

A tal fine il piano Draghi propone due possibili soluzioni

2.1. Politica di investimenti

La prima linea di intervento è promuovere un grande piano di investimenti nei settori della difesa, della transizione ecologica, dell’innovazione tecnologica (big data, biotecnologie, IA, logistica informatica) per un ammontare stimato in 750-780 miliardi di euro all’anno. Può sembrare una cifra ragguardevole ma in realtà è solo il 4,7% del Pil Europeo, una cifra quindi compatibile con la struttura dell’economia del vecchio continente. L’obiettivo è un incremento della produttività con interventi più mirati all’aumento della produttività del capitale. Occorre però affrontare due nodi: il primo è la creazione di poli produttivi multinazionali a guida europea in grado di favorire forti economie dinamiche (di apprendimento e di rete) in posizione oligopolistica. L’Europa deve entrare nel capitalismo delle piattaforme a gamba tesa, erodendo il monopolio della Silicon Valley a Ovest e della Cina a est. Il terreno di scontro è il continente africano, al cui interno sono in atti, non a caso, strategie di penetrazione assai influenti, soprattutto da parte cinese. Le corporation della Silicon Valley, oltre alla depredazione dei minerali strategici per l’IA e gli algoritmi di II generazione (come bismuto, cobalto, rame, gallio, germanio, litio, manganese, metalli del gruppo del platino, elementi delle terre rare per magneti, ecc.), stanno facendo forti investimenti per controllare la reti di connessione in Africa. Google ha ultimato il terzo cavo internazionale che collega il Portogallo con Città del Capo, attraversando tutto il continente. Realizzato da Alcatel Submarine Networks, è un’infrastruttura all’avanguardia con 12 coppie di fibre e una capacità di 144 Tbps che garantisce circa 20 volte più capacità di rete rispetto all’ultimo cavo posato in Africa. Nel primo trimestre del 2025 è prevista l’entrata in funzione del cavo 2Africa, finanziato da un consorzio nel quale è presente Meta di Mark Zuckerberg. Con i suoi 45mila chilometri, sarà il cavo sottomarino più lungo del mondo, collegando 33 paesi con 46 punti di connessione in Africa, Europa e Asia.

A inizio settembre 2024 si è svolto a Pechino il 9° Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC), a cui hanno partecipato 53 leader di stati africani (su un totale di 54: l’unico assente era il piccolissimo stato dell’Africa Australe, eSwatini). Il primo si era svolto nell’ottobre del 2000 sempre a Pechino. In questo quarto di secolo, la Cina è diventata il partner commerciale e tecnologico più importante del continente africano, favorendo ingenti investimenti nel controllo del settore minerario, della logistica e delle comunicazioni. Ora la Cina guarda all’Africa come un territorio a cui puntare per esportare quei prodotti (auto elettriche in primis, ma anche tecnologia green) che possono incontrare qualche difficoltà in Usa e in Europa in seguito all’introduzione di dazi.

In entrambi i casi, si tratta di strategie che richiedono la presenza di grandi oligopoli e autonomia finanziaria. Se le prime cinque corporation americane per capitalizzazione di borsa (Microsoft, Apple, nVidia, Alphabet, società madre di Google e Amazon). raggiungono valori pari alla somma del Pil di Italia, Francia de Spagna, le strategie cinesi sono supportato dallo stato.

Draghi pensa di destinare 750-800 miliardi di investimenti esclusivamente al settore privato in modo tale da creare quegli oligopoli in grado di competere con Usa e Cina.

Due veloci considerazioni. In primo luogo Draghi cade in contraddizione con sé stesso. Durante il suo operare politico, prima come governatore della Bce, poi come premier in Italia, ha sempre sostenuto che solo la concorrenza poteva creare le condizioni per migliorare la competitività europea. E infatti l’unica politica economica europea che è stata perseguita a livello comunitario è stata quella a favore della concorrenza, con l’obbligo per ogni paese membro di promulgare un disegno di legge annuale al riguardo. Oggi, ritiene, – a nostro parere correttamente – che nella competizione globali nei settori tecnologicamente avanzati sia necessaria la presenza di grandi imprese in grado di imporre la loro strategia (bye, bye libero mercato).

In secondo luogo – e qui ritroviamo il Draghi tradizionale –, ancora una volta per favorire la crescita si vogliono adottare politiche di offerta, come se dare soldi alle imprese (perché poi di questo si tratta) favorisca automaticamente la crescita della produttività. Il caso italiano è al riguardo emblematico.

Come è noto negli ultimi due decenni l’economia italiana ha registrato un drammatico rallentamento della crescita economica, accompagnato da una sostanziale stagnazione della produttività del lavoro. La recente letteratura economica mainstream ha attribuito il rallentamento della produttività a fattori tipicamente di offerta (quali la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, l’eccessiva regolamentazione, le rigidità del mercato del lavoro (!) e l’eccessivo intervento statale) oltre che al ruolo negativo del cambiamento strutturale inteso come spostamento verso i servizi.

Raramente si è affrontato il problema dal lato dell’eccesiva precarietà del lavoro, che impedisce il pieno utilizzo dei processi di apprendimento e di rete, oggi le determinanti principali della dinamica della produttività. La sola prospettiva supply-side non è sufficiente a spiegare il rallentamento della produttività. Per queste ragioni, occorre anche tenere conto dei fattori di domanda, fornendo supporto econometrico alla legge di Kaldor-Verdoorn. Per il periodo 1970-2016 si riscontra che anche la crescita della domanda aggregata ha un ruolo significativo nel determinare la dinamica della produttività, specialmente nel settore manifatturiero. La principale implicazione di politica economica per affrontare la stagnazione riguarda l’attuazione di politiche espansive e di stabilizzazione di reddito, garatendone la continuità, che farebbero da stimolo alla produttività, e che allo stesso tempo contribuirebbero a sostenere la ripresa occupazionale[7].

2.2. Un unico mercato europeo dei capitali

Il piano di investimenti annuali per 750 – 800 miliardi di euro richiede un finanziamento. Draghi propone, come già in parte successo per il PNRR e per il fondo europeo contro la disoccupazione ai tempi del Covid (programma SURE), di emettere titoli comuni europei. Si tratta cioè di creare un debito pubblico europeo. La proposta ha subito trovato un entusiastico supporto da parte del centro-sinistra e dei critici delle politiche di austerity ma un netto diniego dai cd. falchi europei, Germania in testa.

Se tale debito pubblico fosse il primo passo, insieme a quello che finanzia il PNRR (ma dalla durata triennale), verso l’attuazione di una politica fiscale comune, con un unico bilancio pubblico europeo che incorpora gradualmente i bilanci dei singoli stati nazionali, si tratterebbe effettivamente di un cambio di passo radicale, rispetto all’attuale inesistenza di una reale politica economica e, soprattutto, fiscale, europea.

Ma le cose non stanno così. Nel rapporto la costruzione di un debito pubblico europeo, in grado di attirare gli investimenti finanziari degli speculatori istituzionali e dei risparmiatori nazionali, deve essere infatti accompagnata dalla costruzione di un mercato europeo dei capitali in grado di competere con quello statunitense.

Come afferma Alessandro Volpi:

“La soluzione proposta da Draghi è netta e si costruisce sulla finanziarizzazione. In altre parole, occorre creare nel più breve tempo possibile un mercato unico dei capitali in Europa dove far confluire il risparmio dei cittadini dei vari Stati evitando che tali risorse siano drenate dai grandi fondi americani, un tratto questo già presente nel “Rapporto Letta” sulla competitività”.

Ammesso e non concesso che nel 2024, dopo quasi 50 anni di egemonia finanziaria Usa e del dollaro, nonostante il suo costante ridimensionamento come valuta di riserva internazionale (ma non a vantaggio dell’Euro), sia possibile creare un mercato europeo dei capitali indipendente e autonomo in grado di garantire costanti risorse al finanziamento del debito pubblico europeo, occorre considerare che tale debito si somma e non incorpora i debiti sovrani nazionali. Tale concorrenza obbligherà gli stati nazionali a pagare interessi più alti sul proprio debito nazionale proprio per la presenza del più solido debito comune.

Quindi, suggerisce Draghi, in presenza di un debito comune, i singoli Stati saranno costretti a ridurre il proprio debito pubblico con una severa politica di austerity anche perché non è possibile nessuna monetizzazione del debito: in altre parole, non è più praticabile l’acquisto da parte della Bce di quote di debito nazionale e ciò obbligherà gli stati con il maggior debito pubblico (ma non con il più alto debito complessivo, come l’Italia) a contrarre la propria spesa pubblica, facendo affidamento solo sulla spesa pubblica europea[8]. Una politica di quantitative easing come quelle effettuata dallo stesso Draghi, quando era governatore della Bce, oggi non viene proposta.

3. In conclusione possiamo affermare che le proposte contenute nel rapporto Draghi rivelano che la teoria del neoliberismo non è applicabile. Non è una novità. È da tempo che il neoliberismo come dottrina economica è in difficoltà. La crisi del 2007-08 ne ha accelerato il declino. Ma ciò che è interessante è che tale conclusione venga ora riconosciuto anche da chi in passato ne è stato uno dei più strenui sostenitori e che, di fatto, siamo in presenza di ciò possiamo definire autoritarismo di mercato.

La soluzione che viene prospettata, tuttavia, non va in una direzione di recupero di una strategia di ammodernamento del sistema economico europeo in senso progressivo. Non si tratta di essere rivoluzionari, ma nulla viene detto sulla necessità di una politica fiscale, sociale, industriale e del lavoro comune.

Siamo ancora alla necessità dell’austerity. Se negli anni successivi della crisi finanziaria globale del 2007-08 si parlava di “austerità espansiva”, oggi si parla di “finanziarizzazione austera”. Ma sempre lì, siamo

In più, ci si limita a individuare i settori del grande capitale privato come leva su cui imbastire un nuovo spazio economico e capitalistico europeo. E tale leva fa perno sull’apparato militare-industriale-algoritmico, di fatto una sorta di resurrezione di quell’apparato militare-industriale che era la punta di diamante dell’imperialismo Usa negli anni della guerra del Vietnam. Nell’attuale economia di guerra, non è un caso che la necessità di dotare l’Europa di un sistema di difesa comune sia una delle priorità politiche ed economiche più importanti, all’interno comunque del contesto Nato (per qualche tempo si era ventilata l’ipotesi di una candidatura di Draghi alla guida dell’Alleanza Atlantica).

Tutto ciò avviene all’interno e compatibilmente con il processo di “platformization” dell’accumulazione capitalistica, nel tentativo, in ogni caso, di ribadire l’egemonia del capitalismo occidentale a discapito del Sud Globale.

Si guarda così al passato con strumenti altrettanto del passato (supply side economics)[9] senza rendersi conto che il mondo sta andando verso un multipolarismo oramai irreversibile.

Mala tempora currunt.

Note

[1] Il testo del rapporto Draghi, nella versione italiana, è reperibile qui.

[2] Ibidem, p. 10

[3] Ibidem, p. 10

[4] Sebbene il rapporto Draghi si riferisca all’energia nucleare come a una “fonte energetica pulita” al pari delle energie rinnovabili, non è presente un riferimento specifico a una strategia per il nucleare. Le cinque volte che viene usata la parola “nucleare”, essa è sistematicamente associata e preceduta da “energie rinnovabili”.

[5] Sul tema, si veda anche Roberto Romano: “Perché il rapporto Draghi non è il piano Delors”, in Sbilanciamoci, 13 settembre 2024:

[6] Si rimanda a: Andrea Fumagalli, “L’’accordicchio’ sul gas di Bruxelles e l’inflazione da profitti”, Effimera, 2 novembre 2022:   e Christian Marazzi, “Chi paga l’inflazione da profitti?”, Effimera, 27 dicembre 2022

[7] Matteo Deleidi, Walter Paternesi Meloni, “Produttività e domanda aggregata: una verifica empirica della legge di Kaldor-Verdoorn per l’economia italiana”, in Economia & Lavoro 2019(2):25-44, November 2019(2):25-44

[8] Oggi costituita dal PNRR. Domani?

[9] Al riguardo, si veda l’intervista di Mario Pianta: “«Draghi guarda al passato. Finanziare le imprese non cambia lo sviluppo», in Valori.it, 20 settembre 2024

Fonte

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