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26/09/2024

Frankie Hi-Nrg Mc (1997) La morte dei miracoli

Facile dire oggi "rap italiano". Leggendo le classifiche degli ultimi dieci anni, a balzare agli occhi, oltre all'incredibile svolta "autarchica" che ha relegato ormai le star internazionali nelle retrovie, è proprio l'affollamento impressionante di rapper nelle posizioni di vertice. Il linguaggio hip-hop è diventato così pervasivo, nella scena musicale nazionale, da violare anche santuari ritenuti un tempo inaccessibili, come, sul versante pop, il Festival di Sanremo e, su quello della canzone d'autore, il Premio Tenco, espugnato già da Caparezza nel 2014 e conquistato nel 2022 da Marracash senza neanche troppo clamore. D'altronde la frase "i rapper sono i nuovi cantautori", che all'inizio poteva suonare provocatoria, è diventata ormai quasi un luogo comune, a conferma di come ciò che inizialmente poteva apparire, se non oltraggioso, inconsueto, risulti oggi del tutto commestibile. Nel frattempo, lo stesso rap italiano ha smesso le vesti più ruvide e intransigenti, avvicinandosi progressivamente (e a volte spudoratamente) a quell'itpop che ormai domina ogni contesto. In sintesi: l'Italia ha metabolizzato il rap, oppure quest'ultimo si è omologato ai modelli nazionali dominanti, a seconda di come la si voglia vedere.

Facile oggi, dunque, certamente molto meno nell'anno 1992 in cui inizia ad farsi conoscere un occhialuto nerd intellettuale di nome Francesco Di Gesù, per gli amici Frankie Hi-Nrg Mc.

Di origini siciliane, nato a Torino e cresciuto tra Caserta e Città di Castello, Frankie Hi-Nrg Mc è attivo fin dagli albori del movimento hip-hop italiano, o almeno da quando quel movimento sotterraneo inizia ad attecchire presso un pubblico più ampio e, soprattutto, lo si inizia a declinare nella lingua di Dante. Non si tratta di un semplice processo di traduzione linguistica ma di adattamento a una cultura e a una società differenti che, inizialmente, rifiutano l'idea stessa di poter fare rap italiano e preferiscono tributare i fondatori statunitensi, percepiti (non senza ragione) come inarrivabili. Il vero scoglio da superare, quello che simbolicamente rappresenta l'appropriazione della cultura hip-hop da parte del nostro paese, è principalmente linguistico. Ritrovare nel dizionario i corrispondenti dello slang statunitense, attingendo quando possibile alla cultura giovanile e al serbatoio inesauribile delle creazioni locali, informali eppure spesso molto efficaci. Intercettare il gergo per farlo dialogare con lo slang, e poi metterlo alla prova inserendolo nei brani: la prova del fuoco, insomma, è riuscire a rappare in italiano. Ci sono dei tentativi negli Ottanta, come la Devastatin' Posse di Torino, ancora troppo acerbi, e poco altro, in termini di album e brani. Se escludiamo brani demenziali come "Faccia da pirla" (di Charlie, 1988) o l'approdo sanremese degli Aeroplanitaliani con "Zitti zitti (il silenzio è d'oro)" nel 1992, l'unica eccezione rilevante, aspramente discussa quando non totalmente dimenticata, nascosta spesso come qualcosa che susciti vergogna e imbarazzo, è quello del guascone sorridente conosciuto come Jovanotti, cioè Lorenzo Cherubini, destinato a un successo di dimensioni e trasversalità tipicamente pop. Altra carriera e altro mondo musicale, rispetto al nostro Francesco Di Gesù.

Nel 1992 Frankie irrompe sulla scena con un singolo che è un devastante atto d'accusa contro l'intera società italiana, col suo sistema di collusioni e corruzioni dilaganti: "Fight Da Faida", con il suo peculiare uso del marranzano e con un testo diviso tra italiano e siciliano. Il rapper si presenta da subito come un artista impertinente, anticonvenzionale, libero. Al punto da mettersi perfino contro quei centri sociali autogestiti (CSA) che, all'alba del decennio Novanta, facevano da cassa di risonanza per gli aspiranti paladini dell'hip-hop nazionale, rifiutando un contatto con il mercato. Non c'è da stupirsi, allora, se nello stesso anno quel nerd dagli occhiali spessi come fondi di bottiglia, figlio di un ingegnere elettronico e di una ex-insegnante di Italiano ed egittologa, sarà anche chiamato a fare da supporter per leggende dell'hip-hop mondiale come Run Dmc e Beastie Boys durante il loro tour italiano.

Dopo quel folgorante brano d'esordio, arriva l'album "Verba Manent", il primo di hip-hop italiano a essere stato pubblicato per una major, la Bmg. È un peccato che gli integralisti non perdoneranno mai, una breccia tra l'hip-hop, sacro e puro, e il mercato, consumistico e infetto.

"Verba Manent" è un lavoro che consacra Frankie come uno dei più importanti esponenti dell'intero movimento hip-hop italiano, grazie ai suoi testi intelligenti, arguti e velenosi, imbevuti di rime geniali e di impegno sociale, e alle sue basi funk dinamiche e incalzanti, ispirate agli anni Ottanta statunitensi. Prezioso anche l'apporto di Dj Style, al quale viene affidato il processo di missaggio, decisivo nel costruire le tessiture che fanno da fondale allo scatenato flow, sempre forbito e torrenziale, dell'artista torinese.

Oltre all'epica "Fight Da Faida", trovano posto in scaletta brani destinati a imprimersi nella memoria collettiva, come la militante "Faccio la mia cosa", l'inno da rave "Disconnetti il potere", a un passo dal big beat dei Prodigy, il proto-rap retrò di "Omaggio Tributo Riconoscimento" - dedicato agli Otierre, band di Varese antesignana dell'hip-hop tricolore, destinata a diventare una new sensation nazionale insieme agli Articolo 31. Spettacolare anche il sample dei King Crimson di "Elephant Talk" su "Potere alla parola", filastrocca in apnea tutta costruita su spiazzanti cambi di tempo, con strofe fulminanti. Testi duri e raffinati al tempo stesso, che sembrano guardare più a fenomeni internazionali come Public Enemy e Rakim che alle posse dei centri sociali che stanno spuntando come funghi in tutto lo Stivale.

Come si diceva, infatti, i centri sociali sono il megafono ideale del rap underground italiano, quello che non andava (ancora) in tv. Tra 1991 e 1994, infatti, contribuiscono alla diffusione su scala nazionale dell'hip-hop. Il centro sociale autogestito diventa un luogo dove consolidare la propria conoscenza dell'hip-hop, fare rete sociale e organizzare i primi eventi, ispirati certamente dalle idee che abitavano questi luoghi fra i due decenni. Se l'hip-hop è nato nei quartieri poveri di New York, nel marcio della capitale del mondo del secondo Novecento, allora la versione e derivazione italiana nasce nei CSA di una manciata di città universitarie, con un'ispirazione quasi sempre antagonista, sinistrorsa, extra-parlamentare. Dal milanese Leoncavallo al napoletano Officina 99, dallo Zapata di Genova al Corto Circuito di Roma e all'Asilo Politico di Salerno, le posse (termine inglese che sta per "gruppo", "collettivo", "giro") si moltiplicano. I grandi spazi, le capacità organizzative e l'attitudine do it yourself li rendono i luoghi ideali per le lunghe session d'improvvisazione hip-hop e alcune crew puntano a sostituirsi a (e confondersi con) i messaggeri di punk, hardcore, reggae e ska, abitanti prediletti delle realtà occupate.

Anche il movimento studentesco della "Pantera", esploso tra il 1989 e il 1990, fornisce un grande impulso a tutta la scena, soprattutto a quella romana, in cui si affermano fenomeni come Assalti frontali e Colle der fomento (vicino ai quali gravita un giovane Piotta). E così i centri sociali diventano luoghi più aperti, frequentati anche da persone estranee a quella realtà politica e magari semplicemente interessate ad ascoltare quelle sonorità. Musica nuova per il nostro paese, in cui la cultura hip-hop era lentamente penetrata durante gli anni Ottanta grazie al primo tour mondiale di Afrika Bambaataa, attraverso la trasmissione su canali privati locali di alcune pellicole statunitensi dedicate al movimento, quali per esempio "Beat Street" (1984), "Style Wars" (1983) e soprattutto il lungometraggio del 1983 "Wild Style".

Ma Frankie Hi-Nrg Mc, pur destinato a rimanere nella storia come uno dei capofila di quella generazione, sfoggia in realtà l'approccio più moderno di tutti. Da rapper e cantautore al tempo stesso. Da musicista, capace di creare architetture sonore ben più articolate e melodiche della concorrenza. Da artista totale, si direbbe. Non è un caso, allora, che un gigante del cinema come Vittorio Gassman lo voglia al suo fianco per produrre parte della colonna sonora dello spettacolo "Camper", da lui stesso interpretato insieme al figlio Alessandro al Festival dei due mondi di Spoleto.

Segue una pausa in cui Di Gesù raccoglie le idee per il suo nuovo album, restando volutamente lontano dai riflettori (se si eccettua la serata del 25 aprile 1995, quando insieme al celebrato sassofonista Michael Brecker, vincitore di 15 Grammy Awards, suona "La cattura" in piazza Plebiscito a Napoli). Ed è una pausa quantomai opportuna, perché prelude a quello che resterà in assoluto il suo capolavoro.

Quando esce "La morte dei miracoli", nel 1997, il rap ha ormai varcato i confini delle classifiche italiane e non fa più paura. Ha esaurito la spinta più intransigente e barricadera dei suoi progenitori, si è mescolato con mille altri stili e linguaggi. Secondo alcuni, la sua magia si è dissolta quando ha iniziato a inseguire una nuova hit, un nuovo trend. La breccia è diventata una voragine, la crepa nel muro che divideva l'hip-hop dal mercato ha comportato una commistione tra un mondo che era, nella sua struttura, ancora underground e un improvviso e crescente interesse del mainstream, dalle case discografiche alle radio, fino al cinema e alla televisione generalista. I cortocircuiti sono numerosi: la scena, che in una prima fase ha accolto positivamente l'afflusso di soldi e mezzi, è diventata progressivamente più ostile, aggressiva perché apparentemente depredata della sua libertà creativa, della sua potenza espressiva. Di più, nel fagocitare l'hip-hop italiano, l'informazione di massa ha confuso questa musica con altre realtà sonore, dal raggamuffin all'hardcore-punk fino allo ska e al punk (!), trasformando una novità in una massa informe di suoni apparentemente accomunati più dai luoghi di provenienza, i già citati centri sociali, che qualche elemento del sound. Ancora oggi, la legge non scritta che il vero hip-hop sia quello con un messaggio sociale e politico permane presso il pubblico non più giovane ed è frutto di questo imprinting.

All'epoca delle "posse", quindi, ne segue una in cui una guerra intestina ammala la scena poco dopo che un mercato si è creato e ha guadagnato un peso considerevole su tutti i media. La presunta purezza della scena precedente ai grandi successi commerciali vorrebbe ribadire l'esistenza di un hip-hop italiano a prescindere dall'incontro con il mercato e la contaminazione con il pop. Chi si oppone a questa crociata viene spesso messo ai margini. Dj Gruff sarà uno dei portabandiera di questa battaglia contro i "sucker", con risvolti che hanno contribuito a immaginare una qualche forma di hip-hop puro, pensato per i cultori e gli iniziati, totalmente incompatibile con il grande pubblico.

Fra le ragioni di questa insofferenza c'è il modo famelico e disorganizzato, superficiale e poco informato con cui la stampa, la televisione e soprattutto la discografia italiana hanno saputo raccontare, onorare, aiutare il genere nel suo passaggio alla maturità. Se, insomma, queste idee legate alla mancanza di contaminazione con il grande pubblico e con il mercato in senso ampio possono sembrare, col senno di poi, ottuse e miopi, è da valutare anche il peso che hanno avuto le deludenti esperienze di interpretare, raccontare e organizzare l'hip-hop da parte dell'industria dell'informazione e della musica.

Il 1994 è l'anno in cui i due mondi giungono, virtualmente, a scontrarsi: l'hip-hop creativo e inedito dei Sangue Misto entra nella storia con "SxM" mentre in classifica troviamo "Serenata rap" di Jovanotti. Nel giro di un paio di anni, la bolla dell'hip-hop italiano si è gonfiata così tanto che è evidente che debba scoppiare, sotto la pressione di troppi singoli pop-rap, crossover vari e carriere fugaci, costruite per spremere il possibile da questa musica prima che l'industria musicale e dell'intrattenimento possano passare ad altro. Tra una "Tranqi funky" degli Articolo 31 e una strofa rap infilata alla bell'e meglio nei brani pop, la materia originale viene diluita così tanto da risultare al contempo ubiquitaria eppure inconsistente. Certamente, resiste un underground fiero e senza compromessi, ma la "terra di mezzo" diventa un luogo inospitale, dove il rapper di turno si espone alle critiche incrociate: fuori dal trend e quindi obsoleto per il mercato trasversale, reo di aver perso la purezza originaria per gli oltranzisti (all'epoca spesso etichettati come "estimatori", da contrapporre ai suddetti "sucker").

Frankie Hi-Nrg è ben consapevole di tutto questo. E va ancora oltre. Puntando su tonalità più cupe, amare e riflessive, racconta a modo suo quell'Italia aggressiva, incattivita e ipocrita per la quale prova un misto di disprezzo e rabbia. Mentre la scena troppo spesso fatica a mettere a fuoco quello che succede al suo interno e tutt'intorno, intontita da un'esplosione d'interesse inaspettata, Frankie guarda al quadro ampio. E lo fa con un brano, "Quelli che benpensano", destinato a rimanere nella storia della canzone nazionale, non solo in quella del genere. Quando parte il groove ansiogeno della base - un sample in loop di Ice One, che aveva scoperto quel brandello di tromba strozzata in un brano jazz-funk di Jimmy McGriff ("Blue Juice") - si intuisce subito di essere al cospetto di un singolo-killer. Ma è solo all'ascolto del testo che il brano si conficca inesorabilmente nella mente e nel cuore, attanagliando l'ascoltatore in quel groviglio di rime colme di solenne indignazione snocciolate a mo' di mantra-invettiva:

La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere
E non far partecipare nessun altro
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro
Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili
Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili
Sono tanti, arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti...
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno
Spendono, spandono e sono quel che hanno
Poi l'altro colpo di scena, il ritornello cantato da Riccardo Sinigallia, all'epoca membro dei Tiromancinoe guru della scena romana. Parole sentite, sincere, scolpite nel granito:
Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio.

In una manciata di versi, perfettamente scanditi da vero funambolo della parola, Frankie tratteggia un quadro da incubo dei "nuovi italiani" del dopo-Tangentopoli, quelli che pensano che il peggio sia passato (o sia semmai a carico degli altri) e sono soltanto intenti a dominare, prevaricare e scavalcare il prossimo, senza provare alcun senso di colpa ("si sentono meglio"). È il j'accuse definitivo del rapper contro la borghesia cinica e opportunista che ha fatto affari, ha corrotto, rubato e scalato posizioni sociali senza scrupoli ("Come lucertole s'arrampicano/ E se poi perdon la coda la ricomprano") trovando solo nella ricchezza, nel potere e nell'apparenza la propria ragion d'essere. Anche se superficialmente ostenta ideali e convinzioni spirituali puramente di facciata ("Ognun per sé, Dio per sé/ Mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica/ Mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano/ Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano/ Si scandalizzano/ Mani che poi firman petizioni per lo sgombero"). Sono gli aspiranti yuppie che, nell'era dell'esplosione della tv satellitare, sfoggiano i loro nuovi status-symbol ("In costante escalation col vicino costruiscono/ Parton dal pratino e vanno fino in cielo/ Han più parabole sul tetto che San Marco nel Vangelo"), vivendo al di sopra delle proprie possibilità e affidando a fiumi di cocaina e alcol il compito di farli evadere dalla realtà ben più misera contro la quale inevitabilmente si schianteranno ("Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano/ E poi s'impastano su un albero/ Nasi bianchi come Fruit of the Loom/ Che diventano più rossi d'un livello di Doom").

A contribuire alla popolarità di "Quelli che benpensano" sarà anche un videoclip da antologia, con Frankie hi-nrg e Sinigallia che ciondolano la testa in taxi, a spasso per una Roma desolata di periferia, in mezzo a nuovi mostri metropolitani: un insolito caso di una canzone italiana dello scorso millennio con oltre cinquanta milioni di visualizzazioni su YouTube.

Il brano, che nel 1998 vince anche il Premio Italiano della Musica (PIM) come canzone dell'anno, diverrà anche oggetto di innumerevoli cover: sarà reinterpretato anche da Fiorella Mannoia, Caparezza, Jovanotti e Marracash, divenendo di fatto una nuova pietra miliare della canzone di denuncia italiana, seppur aggiornata al tempo dell'hip-hop e seppur inserita in una visuale ben più ampia della semplice protest song. Una invettiva che, in fondo, non risparmiava anche i sedicenti progressisti, che avevano appena conquistato la guida del paese con il primo governo di centrosinistra composto anche da post-comunisti. E chissà che non sia rivolto anche a loro quell'iniziale riferimento alla perdita d'innocenza e alle promesse non mantenute ("In molti casi siamo noi a far promesse/ Senza mantenerle mai se non per calcolo").

Ma non è solo quel singolo da ko immediato a far brillare "La morte dei miracoli". In una scaletta di ben quattordici brani - inclusi incipit, "outcipit" e quattro interludi - Frankie dispiega tutta la potenza e la fluidità del suo political-hip-hop, calato nella realtà malata dell'Italia degli anni Novanta, con i suoi versi pungenti e sottili, ricchi di metafore ma capaci sempre di andare dritti al punto. Fustigando tutte le malefatte e le cattive abitudini di un paese avvelenato dalla violenza e dal razzismo. Una "corte dei miracoli" di disastrati, poveri nell'anima e nel corpo, destinati, come suggerisce il titolo del disco, alla morte.

Ecco allora l'inquietante parabola di "Accendimi", che ammonisce sulla dipendenza televisiva in una sorta di versione più cupa de "La strana famiglia" di Giorgio Gaber. Se il cantautore milanese la buttava in farsa facendo cantare a Ombretta Colli (futura forzista inconsapevole): "Pronto, pronto, pronto, stiam diventando tutti coglioni/ Pronto, pronto, pronto con Berlusconi o con la Rai", Frankie mette a fuoco soprattutto il potere ipnotico e manipolatorio del tubo catodico: "Ti dico quel che vuoi, ti mostro come sei/ accendimi la bocca e ti vedrai/ nel mondo nella scatola/ e vivere una favola potrai/ se resterai a casa senza uscire mai". La lugubre "Giù le mani da Caino", invece, sposta il mirino sulla pena capitale e sui loro sostenitori, con un incedere funereo dettato dalla chitarra:

Ma ancora non è nato il delinquente
che veda nella pena della morte un deterrente
E spesso capita di fare fuori un innocente come niente
E questo me lo chiami un incidente?
Boia dal cappuccio trasparente vivi nell'anonimato
Immune dal peccato, signore incontrastato della tua mediocrità
Orfano del dubbio, testa nella sabbia: vittima della tua stessa rabbia
Non meno duri i versi di "La cattura", crossover funk imbottito di beat e scratch, che parte subito con un folgorante incipit - "Sono solo, braccato come un cane e non mi muovo, se abbaio muoio" - seguito da una sequenza di parole incalzante come un thriller:
L'adrenalina sale in un flash
e spalanco le ganasce in un grido silenzioso
e l'angoscia di colpo si mette a riposo
perché c'è la morte, di cuoio, con una frusta
Ingoio la saliva e me la gusto
e se questa dunque deve essere la mia ora
dico: prego, dopo di lei Signora
E se "Il beat come anestetico" quantomeno aumenta i giri e l'euforia, con un battito pulsante e contagioso, il mantra intimista di "Autodafé" ripiomba in un vortice di più cupo pessimismo, puntellato nel refrainda un campionamento di Ice One:
In cattiva compagnia soprattutto se sto solo
Negativo come i G in una picchiata
Prendo il volo, salgo, stallo e aspetto il peggio
Che non sta nella caduta ma nell'atterraggio
Come dice Hubert
Malato immaginario più di quello di Molière
Sono il mio gregario e mi comporto da Salieri
E non chiedermi il perché
Che come il Tethered quando perdo il filo poi non mi puoi più riprendere

Pienamente riusciti anche skit spiazzanti come "Cubetti tricolori" e "Manovra a tenaglia", decisamente avveniristici per il periodo. E se "Cali di tensione", con beat quadrato e scratch, avvicina Frankie alla cosiddetta "scena", "Fili" osa ancora, campionando addirittura "Questione di feeling" di Mina-Cocciante, per una nuova disincantata riflessione sui rapporti sociali.

Pietra angolare e cuore nero del decennio dorato dell'hip-hop, "La morte dei miracoli" è un'istantanea spietata dei mali dell'Italia dell'epoca, ma forse anche di ogni epoca. Un'opera che si rivelerà di enorme ispirazione per i rapper più raffinati e forbiti a seguire: si era già detto, ad esempio, di Fabri Fibra, ma si potrebbero citare, ad esempio Caparezza e Murubutu, legati a Frankie dalla propensione alla velocità, alla verbosità, all'utilizzo di strofe lunghe e di versi che costringono a esercizi respiratori intensivi. Uno stile che il rapper ha mutuato dai suoi maestri hip-hop d'oltreoceano: "In parte utilizzo il metodo tradizionale dell'hip hop: prendo una base che mi piace e ci scrivo sopra - ha raccontato Di Gesù in un'intervista - Ma sono abbastanza elastico, le fasi possono anche non svolgersi in quest'ordine". Il suo rap/spoken-word è un fiume in piena, verboso e squadrato, ma senza mai "bisogno di riempire il minutaggio": forse anche per questo è sopravvissuto alle varie mode e ondate della cosiddetta "scena rap italiana".

Inserito da Rolling Stone Italia alla posizione numero 39 della classifica dei cento dischi italiani più belli di sempre, "La morte dei miracoli" sarà ristampato in varie riedizioni, a cominciare da quella del 1998 con l'aggiunta di quattro tracce bonus. Il 10 marzo 2017, in occasione dei suoi venti anni, è stato ripubblicato in formato Lp dalla Sony Music.

La successiva carriera di Frankie Hi-Nrg Mc proseguirà all'insegna di una produzione piuttosto parca: solo cinque album in trent'anni, nessuno rilevante quanto i primi due. Negli ultimi anni 90 l'hip-hop italiano annaspa, sfuma, tramonta o si rinchiude in nicchie sempre più asfittiche, sperimentali, visionarie. A inizio millennio, la morte annunciata da Frankie sembra essersi tristemente avverata e questo rende la successiva rinascita, anche sul fronte commerciale, un colpo di scena che ha pochi paragoni nella musica italiana.
Negli anni, Frankie ha alternato al suo mestiere di musicista anche quello di conduttore televisivo, per la stagione 2004 di Brand:new su Mtv e per il programma Street Art sul canale SkyArte nel 2013. Si è anche tolto lo sfizio di fare l'attore, nel film "I più grandi di tutti" di Carlo Virzì (2011).

Nel frattempo, la sua opera di analisi sociale a colpi di rime hip-hop va avanti tra luci e ombre, con una progressiva, pericolosa tendenza a una retorica un po' demagogica, distante dall'arguzia pungente e chirurgica dei primi lavori. Niente, comunque, potrà mai scalfire l'importanza del suo ruolo nell'evoluzione del rap italiano, di cui resta uno dei pionieri e maestri indiscussi. Con buona pace di quelli che benpensano.

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