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07/03/2014

Gli sciamani della legge elettorale

Da ormai un quarto di secolo ogni tentativo di manipolazione della legge elettorale rappresenta una vera e propria promessa dello sciamano. Quella di un’era di pace, armonia e forza interiore una volta conclusosi il rito, reso estatico dai titoli dei giornali, del passaggio da un sistema elettorale all’altro. In verità il rito di passaggio si è già compiuto due volte, nel 1993 e nel 2005, ci sono stati due referendum in cui il capro espiatorio della legge elettorale in vigore non è stato ammazzato mentre, nel corso di 25 anni, si sono susseguiti decine, se non centinaia, di sciamani. Ognuno con le loro formule di rito, ce n’era uno (Guzzetta) che era riuscito a proporre un qualcosa di peggiorativo persino della legge Acerbo (quella che portò al potere Mussolini). Nessun paese occidentale ha perso un quarto di secolo in queste stupidaggini, che si sono imposte in ogni lessico politico: Francia e Germania, quest’ultima in forma residuale, hanno riformato pochissime volte la loro legge. Ma perché si impone in Italia, alla fine degli anni ’80, il dibattito ufficiale sulla riforma elettorale?

Per un motivo molto sistemico e molto legato alla fine della rappresentanza tramite i partiti di massa dell’epoca del fordismo: si trattava di verticalizzare i poteri nella società, e nelle istituzioni, espellendo il potere di interdizione di settori di società (lavoratori, pubblico impiego) ormai inservibili nella prospettiva allora definita postfordista. La legge elettorale doveva quindi semplificare la rappresentanza, lasciando potere sufficiente ad una nuova classe dirigente per ristrutturare, da destra, istituzioni ed economia del paese. La legge elettorale sarebbe stato lo strumento più semplice, viste le difficoltà procedurali per “riformare” la Costituzione, per compiere significativi passi avanti in questo processo di semplificazione e di verticalizzazione della rappresentanza. C’era però un problema, non certo legato alla resistenza di una società polimorfa e complessa quanto sostanzialmente fuori dalla politica: quello della classe dirigente che ha dato vita a questo processo. Animandolo con le sue filiazioni nel corso del quarto di secolo successivo. A differenza del periodo del "discorso di Bayeux", l’annuncio da parte di De Gaulle della fine del potere di interdizione del Parlamento e successive riforme, la classe dirigente italiana è (ed è stata) qualcosa di diverso rispetto a quanto necessario, anche a destra, per questo tipo di verticalizzazione. Il gollismo, soluzione da destra della crisi della quarta repubblica in Francia, era espressione di un gruppo dirigente coeso ed intelligente, formatosi con la guerra e con una strategia di società. Le infinite riforme elettorali italiane sono espressione di un gruppo dirigente frastagliato, barocco, nel quale, ad ogni occasione, una cordata cerca di imporre la propria egemonia non in termini di proposta politica ma cercando di imporre l’ennesima riforma elettorale. Riforma che va quindi letta per come è: una continua ristrutturazione dei flussi (e degli equilibri) di potere al vertice della politica italiana. Ristrutturazione che, a modo suo, insegue le mutazioni presenti nelle reti di potere bancarie, finanziarie, industriali. In un modo che, è sotto gli occhi di tutti, non trova mai una forma definitiva. Resta così un conflitto infinito alimentato dal desiderio di aver indovinato la formula aurea, che garantisce la cordata di chi la propone, del trasferimento di potere verso l’alto che liquidi ogni reale problema di rappresentanza. L’ironia della storia si manifesta qui: il potere diffuso della società, che si voleva liquidare con le “riforme”, in un quarto di secolo non ha quasi mai realmente reagito con efficacia (se non per qualcuno che si è innamorato della propria propaganda). La paralisi, venticinquennale, della crisi del sistema politico è quindi dovuta ad una guerra civile permanente tra cordate di ceto politico. Cordate che, oltretutto, fanno valere il proprio potere di interdizione ad ogni tentativo di ristrutturazione. Le mitiche riforme, come all’inizio degli anni ’80 l’ormai celeberrima separazione del tesoro da Bankitalia serviva per introdurre il sistema economico-finanziario alla futura moneta unica, sarebbero dovute servire per avvicinare le modalità di decisione del potere italiano all’ormai imminente trattato di Maastricht.

Oggi, con una governance Ue-Bce che predetermina, da tempo, molti passaggi sostanziali, ed anche formali, del governo, parlare di riforme elettorali è un esercizio ancora buono per riempire pagine di giornali in declino di lettori, ma sempre meno utile per riprodurre reale potere politico. Specie in un governo, quello Renzi, spaccato tra due opzioni reali: quella del Presidente del Consiglio, promossa da chi pensa che l’Europa debba tornare a far crescere il mercato interno come il Financial Times, e quella del Ministro dell’Economia, un superfalco dell’austerità, diretto responsabile del default argentino del 2001, che guarda al rigorismo neomercantilista berlinese come ad una stella polare. Renzi, che sta cercando di mediare tra queste due diverse opzioni, si dimostra uno e centomila anche nel momento in cui deve azzeccare l’ennesima formula del rito della legge elettorale. Il fenomenale statista di Rignano, infatti, di fronte al più colossale pasticcio politico-costituzionale dai tempi di Cavour ad oggi, con la nuova prospettiva di una legge elettorale differente per ognuna delle camere (grazie ad una modalità legislativa che ricorda il future di borsa piuttosto che il dettato della Corte Costituzionale) è infatti riuscito a congegnare una delle sue storiche dichiarazioni. “Spero”, ha detto Renzi, che “l’accordo raggiunto sulla legge elettorale alla Camera sia utile al proseguo della legislatura”. Tattica delle dichiarazioni a parte, “spero” è un verbo, un auspicio in prima persona che rivela il fiato corto di un uomo, di una politica, del futuro di una classe dirigente. Basterebbe guardare alla Germania, che ha vissuto benissimo politicamente parlando, i suoi tre mesi di trattative per la formazione di un governo, dopo le elezioni, per capire che la questione della legge elettorale è un falso problema politico. Dopo una quasi guerra dei 30 anni non sarebbe male.

Matteo Renzi, politicamente parlando, è uno di quegli sciamani che, sapendo di non poter guarire nessuno, eccede in pratiche ipnotiche. Diciamo che è quel tipo di sciamano che, dopo “il viaggio”, non rientra mai nel mondo reale con la soluzione del problema. Dopo averla promessa a tutti, s’intende.

L’unica curiosità, più antropologica che politica, è che Renzi ha trovato una platea di gruppi sociali che ritrovano coesione spontanea proprio grazie a queste pratiche ipnotiche. Che dire infatti degli insegnanti che vanno in estasi quando Renzi parla di scuola, senza sapere che sono pronte riforme thatcheriane che li ridurranno in condizioni peggiori rispetto alla Gelmini? O del pubblico impiego che applaude “al Renzi” quando è atteso da riforme che sembrano dettate dai Chicago Boys a Pinochet dopo il golpe? O dai pensionati, spesso disconnessi cognitivamente dalla società reale, che lo applaudono non sapendo che, proprio loro, dovranno finanziare qualche ristrutturazione suggerita dalle Cayman?

Che dire, c’è solo da sperare che questo governo si blocchi, come accaduto per Letta.

Il riformismo del Pci, quello funereo dell’unità nazionale, una base materiale ce l’aveva: equo canone, servizi, istruzione. In cambio di un mondo del lavoro domato. Le “riforme” del Pd non hanno alcuna base materiale, salvo per i vertici della società, o comunque minore rispetto a quella generata dal laissez-faire berlusconiano, in compenso necessitano di pratiche sciamaniche. E la questione andrebbe presa più sul serio da chi pensa che la politica sia uno scontro, o una sommatoria, tra interessi razionali, espressi da individualità riflessive in vista di un equilibrio complessivo. Il politico è un animale che promuove emancipazione nel momento in cui è consapevole della propria animalità. Altrimenti la società resta in mano agli sciamani.

Per Senza Soste, nique la police

5 marzo 2014


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