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04/03/2014

La Grande Bellezza: un Oscar al nostro disagio esistenziale


Una recensione profonda e intelligente, cui non ci è sembrato necessario aggiungere parole nostre. Però, ci sembrano molto adatte queste:
Nessun uomo è un'Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d'uomo mi diminusce,
perchè io partecipo all'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.
John Donne

*****

PensieriParole È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo

Alla fine il film di Paolo Sorrentino ce l’ha fatta: ha vinto l’Oscar come miglior film straniero poche ore fa. Al di là delle sterili critiche ricevute in “patria” e del fatto che si possa riconoscere legittimità o meno ad una simile manifestazione, è indubbio che La Grande Bellezza, presentato a maggio 2013, è riuscito a far discutere molto come film di critica sociale ed esistenziale.

Non è solo questione di aver palesato con immagini potenti, con un vero pugno nello stomaco, la decadenza dei frequentatori dei salotti romani o italiani, e nemmeno di aver mostrato quanto vuota sia l’esistenza di chi, annoiato dalla propria vita, si rifugia in pietosi rituali festaioli. Il film rompe un muro di omertà sui nostri rapporti sociali: infatti, pur in posti diversi da quelli mostrati attraverso il protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo) ricco scrittore nichilista e rassegnato rispetto ai tempi, la sostanza è la stessa. Un disagio presente e diffuso penetra le nostre vite, “l’imbarazzo dello stare al mondo”, il “chiacchiericcio e il rumore”, lo “squallore disgraziato”; sono tutti elementi presenti nelle nostre vite, anche se a livelli e modi diversi. 

Sensazioni, dentro e fuori da certi rituali più o meno attribuibili al concetto di “mondanità”, che a cascata, a partire da quella che nel film può esser definita borghesia (pur non mostrando figure attuali come l’industriale, il banchiere o il politico di professione) sono vissute da ogni essere umano. 

“A 65 anni ho scoperto che non posso perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”, dice il protagonista. 

“So’ belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so’ belli perchè non vanno da nessuna parte.” 

“Sono anni che mi chiedono perchè non torno a scrivere un nuovo romanzo. Ma guarda sta’ gente, sta’ fauna, questa è la mia vita. E non è niente.” 

L’omertà sui nostri rapporti sociali, appunto: come passiamo il tempo, con quali finalità, quello che definiamo “divertimento” e quindi gli spazi nei quali lo ricerchiamo (le nostre feste, i nostri luoghi, le nostre vacanze dove magari ascoltiamo gli stessi balli di gruppo del film), l’alienazione (gli autoscatti su Facebook per sé e i propri “amici”) il regolare uso di sostanze, il particolare ruolo della famiglia. 

Il tutto in una gabbia di sofferenza e dolore che resta sullo sfondo e poi all’improvviso riaffiora, con l’illusione che esistano delle “vibrazioni” che facciano da termometro rispetto a quel che proviamo mentre, comunque, non sappiamo spiegarci cosa sta accadendo. 

Jep Gambardella, pur facendo consapevolmente parte di quel mondo snob circondato dalle più grandi bellezze dello spazio/tempo mondiale, ideologie cristallizzate dall’arte, nonostante si barcameni tra una casa di fianco al Colosseo, belle donne e svaghi continui (tutti elementi che all’estero sono stati colti come emblema dell’”italianità”) si interroga sul senso sia del bello che del vivere. E lo fa da protagonista, in un continuo alternarsi di depressione e smarrimento, euforia e apparente felicità, razionalità e irrazionalità. La ricerca di un equilibrio impossibile, pur da privilegiato in questa società. Lo stesso equilibrio che, nella scala sociale, proviamo tutti a ricercare, anche in condizioni assolutamente diverse e più sfavorevoli. Quel che accomuna Servillo ad ogni essere umano è perciò la frustrazione nel non sapere come relazionarsi ad una società che, pur avendo ancora qualcosa da offrire (l’arte, i pur presenti legami sociali non ancora completamente dissolti, il cibo e il sesso) risulta direzionata verso la barbarie, individuale e collettiva. 

“Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un po’ in giro… o no?” 

Non a caso, a dicembre, avevamo scelto di proiettare questo film: per discutere attorno alla necessità di un’uscita collettiva da questa situazione, perché da soli non si arriva mai da nessuna parte. Pur contando su anni di storia e di esperienza, cosa che nelle immagini arriva in modo potente: Roma con i suoi 2 millenni di storia, la Chiesa cattolica e poi, più di recente, i richiami alle varie “anomalie italiane”; il partito (il PCI), il lungo ’68, il movimento femminista. Pur stando nel cosiddetto Belpaese, dal clima mite e dal buon cibo, anche qui non se ne esce: sofferenza per tutti, esattamente ciò che accade altrove. 

Prevalgono l’opportunismo, il moralismo, la mercificazione e le inutili convenzioni sociali della rispettiva classe dominante (o litigante, nel nostro caso), tutte mostrate con molteplici e a vario titolo macabri esempi nel film. 

Ogni cosiddetta patria, a partire anche dalle condizioni più apparentemente umane, riesce negli attuali rapporti sociali ad essere il fulcro dell’oppressione dell’uomo e a ridurlo a mero figurante di se stesso e della propria vita, frustrato e alienato rispetto ai suoi simili per non saper trovare un senso ad una vita che non ce l’ha. 

Un passaggio del film rende l’idea: un uomo a notte fonda confida al protagonista, parlando della figlia che lavora in un night club “ha sempre bisogno di soldi, ma che ci farà. Se fosse per droga magari… così avremmo una passione in comune. Che ti sembro un poveraccio Jep? Io quando parlo m’ascolto: oh, c’ho quasi 70 anni e so costretto a fa’ le sei di mattina tutti i giorni. 15 anni fa ho lasciato perdere la cocaina e so’ passato all’eroina, pensa che stronzo. Diventà eroinomane a 50 anni, ma se po’ essere più poveracci de me?”. 

E’ facile adattarsi a ciò, e allo stesso tempo impossibile. La Grande Bellezza coglie perfettamente la ricerca di salvezza che ogni comparsa del film incarna, come metafora della nostra condizione di privazione di libertà e costanti necessità materiali e immateriali. 

Il chirurgo plastico beatificato dai clienti come salvatore, il rapporto con la morte che si intreccia con le nostre vite quando meno ce lo aspettiamo, lasciandoci spiazzati perché abbiamo la presunzione di comprendere il funzionamento della società quando non capiamo le leggi della natura; la ricerca, anche spirituale, di una guida, un punto di riferimento (che nel film, chiaramente, risulta non esserci nemmeno col cardinal Bellucci, il quale preferisce discutere di ricette culinarie e darsi alle feste). 

Tutto questo, per noi che scriviamo, deve essere oggetto di profonda riflessione per chi ha un briciolo di sensibilità ma, contemporaneamente, non far illudere che il superamento degli attuali rapporti sociali possa di per sé risolvere qualcosa: se anche dal mainstream culturale al potere escono messaggi di un certo tipo, come quello del film e come molti altri, li dobbiamo sfruttare politicamente, certo. Ma, come evidenzia La Grande Bellezza, duemila anni di potere, storia e gestione dello spazio non si superano facilmente e soggettivamente. Possiamo quindi accontentarci di qualche incostante e sparuto sprazzo di bellezza in questa vita, a questo prezzo, oppure (elemento che ovviamente non c’è nel film) spingere facendo la nostra consapevole parte, sulla storia e le sue tendenze. Certi che, per passare dal regno della continua necessità a quello della libertà, serviranno diverse generazioni.


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