La via diplomatica che il presidente afghano Ghani sta lastricando da mesi verso due nemici storici sembra percorribile. I colloqui con varie componenti talebane (Shura di Quetta e l’inafferrabile mullah Omar, sempre che sia vivo) potrebbero iniziare entro un mese. Ad accompagnarlo nel percorso quello che fino a ieri era considerato un demone per la nazione afghana: l’establishment pakistano, che unisce velleità di supremazia regionale a non celati disegni destabilizzatori del problematizzato vicino proprio a opera della galassia talebana. Con essa, o meglio con alcune sue componenti, Islamabad è anche ai ferri corti se pensiamo alla guerra aperta coi miliziani Tehreek, autori dell’assalto alla scuola di Peshawar e le repressioni nella regione del Waziristan. Su quale sia l’aggressione e la ritorsione ogni attore racconta la propria verità. Eppure la tattica del capo delle Forze Armate pakistane Raheel Sharif alterna repressione e dialogo, ovvero le dispensa a soggetti diversi, puntando sulle loro contraddizioni. In tal senso l’Isi compie un lavoro d’informazione efficace, avendo individuato e relazionato sulle divergenze e spaccature in atto fra i clan talebani.
Ghani segue con convinzione questa linea e s’affida, raggiungendo quei colloqui il cui esito è incerto ma che, dopo l’input americano, anche Karzai praticò fra il 2009 e 2010 senza ottenere benefici e il Pentagono con lui. Stavolta potrebbe essere diverso, perché gli ulteriori anni d’insorgenza hanno logorato il Paese che è diviso nello stesso progetto di governance perseguito su pressione di Washington. L’attuale presidente afghano ha ultimamente consultato anche i vicepresidenti ex signori della guerra, uno è Dostum, e le eminenze grigie del jihadismo locale. Fra esse Sayyaf, che ha lanciato giorni fa parole durissime all’Isis, accusandolo di sporcare con la sua violenza cieca e gratuita lo spirito dell’Islam. Da questi soggetti intransigenti, oltre che dalla maggioranza pashtun e varie componenti tribali, Ghani ha ricevuto l’assenso per i colloqui coi Taliban e si sente perlomeno sicuro che il peso di quel combattentismo interno, ormai radicato in politica, approvi il suo piano diplomatico. Un piano che rilancia l’idea d’unità nazionale, esorcizzando le paure di guerra civile e di annessioni, facendosi condurre per via proprio dal diabolico stato pakistano.
Qualche osservatore ritiene la mossa presidenziale azzardata ma acuta, probabilmente l’unica possibile in un panorama che durante le elezioni di primavera aveva portato alle stelle le divisioni interne. Un panorama che vede gli Stati Uniti ridisegnare il proprio impegno militare nel Paese, dove continuano a operare almeno 13.000 soldati di altissima specializzazione, compresi reparti mercenari d’incursione, e mostra una frammentazione del fronte talebano e i tentativi d’espansione del progetto Daesh anche a est (vedi). Se l’iniziativa del tavolo di trattative sarà condotta in maniera trasparente e troverà interlocutori interessati a perseguire la pace, Ghani guadagnerà credito anche fra i fondamentalisti di casa, oltre che fra le nazioni del business del sottosuolo afghano, Cina in testa, che trovano negli attacchi dell’insorgenza uno degli intralci soprattutto al trasporto dei preziosi prodotti estratti. Non a caso Pechino compare fra le sedi degli incontri assieme a Kabul, Islamabad e Dubai. La retorica politica è già all’azione, l’avversario-amico Abdullah, da mesi primo ministro afghano, ha dichiarato: “Il programma di pace offrirà dignità al popolo”. A rischiare dignità e diritti potrebbero essere soprattutto le donne, la cui libertà dal 2001 ha comunque ricevuto solo minimi spiragli.
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