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18/05/2015

Il Blues Boy di Beale Street

Una rissa tra ubriachi in un bar della periferia statunitense, causata da una ragazza. Un incendio conseguenza della rissa e una chitarra che stava per bruciare e ridursi in cenere. Il chitarrista riesce a salvare il suo strumento e decide di chiamare quella Gibson con il nome della ragazza che stava per rovinargli la vita. Lucille.

Quel chitarrista nasceva in una baracca di legno in una piantagione di cotone del Mississippi, a Itta Bena, quasi 90 anni fa. Era un bambino che non poteva giocare, doveva lavorare, come tutti gli ex schiavi delle piantagioni, quelli con i cognomi dati dai bianchi, quasi a prenderli in giro: White, Washington, Jefferson, House e King.

Aveva una fissa, il trattore! Voleva guidarlo, era attratto da questi bestioni con le ruote enormi; ci riuscì ma distrusse un capanno e il tubo di scappamento e successe un finimondo!
Poi, col tempo, si interessò alla musica, perché i canti e la musica servivano a faticare meno, o forse solo per illudersi di accorciare il tempo nel raccolto, quando ti tagliavi le mani e dovevi scrollare dai piedi il fango secco bruciato dal sole.
Divenne un buon chitarrista, a Memphis, dove era scappato col cugino Bukka, che lo affinava coi consigli su come si suona il blues.

Incominciò a collaborare con una radio, in qualità di DJ e ogni tanto suonava sugli spot radiofonici. Era The Blues Boy from Beale Street, poi accorciato in Blues Boy. Riley King nato a Itta Bena, cresciuto a Indianola, divenne a Memphis B.B. King, uno dei più grandi chitarristi e cantanti blues di sempre.
Oggi 15 maggio 2015, dai social apprendo che è morto, e con lui sparisce l'ultimo dei bluesman che hanno portato la voce nera ad alzarsi oltre le barricate del razzismo, influenzando chiunque sia venuto dopo, direttamente o indirettamente.
Muore, per me, il mio B.B. King, quello che ho visto suonare a quindici anni dopo avergli aperto la serata assieme a mio fratello Roberto e Rolando Cappanera, quello che con una singola nota spazzava via tutti i tecnicismi di quei chitarristi ultra veloci, quello che quando cantava Rock me baby o The thrill is gone ti rapiva.

Un mio amico mi ha appena detto che quando lo vide suonare pensò: "Ma perché la gente la domenica va a San Pietro a vedere il Papa?".
Perché poi B.B. King era fondamentalmente quello, un vicario in Terra, il rappresentante di tutto quel compendio ancestrale che ti fa battere il piede al ritmo del battito del cuore, la prosecuzione americana di quelle liturgie selvagge africane che abbiamo dentro tutti sopite e che lui, almeno per un istante, ti risvegliava e sentivi lo stomaco diverso e felice.

Ora se ne è andato, morto, "gone"; però ogni volta che senti o suoni un mi cantino attorno al dodicesimo tasto e più giù, che dura quella frazione di secondo in più di quanto chiunque altro lo avrebbe fatto durare ecco, lì lui è vivo, con Lucille su una spalla, appoggiata alla pancia, che suona appena uscito dal suo Tour Bus, che guidava personalmente, fissato com'era dei bestioni con le ruote immense.

per senzasoste.it Simone Luti

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