Il primo è ovviamente economico. Se vi sarà una presenza militare inviata dall’Onu, i pozzi libici potrebbero ricominciare a funzionare e il primo Paese a trarne vantaggio sarebbe l’Italia. Il secondo concerne l’immigrazione. Insieme al corridoio turco, quello della Libia è il percorso preferito dai migranti provenienti dall’Africa e dal Levante. Insieme alla Grecia, l’Italia è la prima tappa per coloro che vogliono raggiungere l’Europa centrale e settentrionale. Una missione militare in Libia permetterebbe di controllare meglio il traffico degli scafisti, di creare le condizioni per accogliere e trattenere i migranti sul suolo libico, di separare quelli che hanno un potenziale diritto d’asilo dalla massa dell’emigrazione sociale.Non ci sarebbe molto da aggiungere per smantellare in un attimo tutte le frasi di circostanza che i media internazionali e nazionali sono pronti riversare nelle teste di telespettatori e lettori di quotidiani. Si “deve” andare lì, possibilmente in prima linea e con posti di responsabilità nella catena di comando, per conservare-guadagnare posizioni nell'estrazione-esportazione di petrolio, per rallentare-cancellare l'afflusso di migranti e recuperare un “ruolo internazionale” che nell'Unione Europea il dilettantesco governo Renzi non riesce proprio a giocare.
Il terzo interesse è politico. Nella gestione della crisi del debito greco (l’altro grande problema dell’Unione Europea in questo momento) l’Italia ha dovuto necessariamente limitarsi al ruolo dell’osservatore interessato. In Libia avrebbe una migliore occasione per dimostrare a Bruxelles che il Mediterraneo è la frontiera meridionale dell’Ue, che la sicurezza dell’Italia è la sicurezza di tutti.
Per questo i cinque paesi occidentali si pongono l'obiettivo di creare un "governo di concordia nazionale che, in cooperazione con la comunità internazionale, possa garantire la sicurezza al Paese contro i gruppi di estremisti violenti che cercano di destabilizzarlo". Espressione che sarebbe quasi ironica, se non ci fossero così tanti morti ammazzati nel corso degli ultimi quattro anni, due “governi” in guerra tra loro e milizie tribali o confessionali che combattono tutti contro tutti. Sforzarsi di identificare gli “estremisti violenti”, in questo calderone impazzito, è semplicemente stabilire un'alleanza con alcuni gruppi contro altri (esemplare la richiesta egiziana alla Lega Araba, di bombardare i nemici del “governo di Tobruk”, dipendente dal Cairo). Ma pronti a cambiare cavallo se le cose sul campo andassero diversamente dai piani. Basta guardare con quanta disinvoltura, sul teatro siriano-iracheno, questo stessi paesi sono passati dall'osannare la resistenza curda di Kobane – gli unici a battere l'Isis sul terreno – all'avallo dei bombardamenti turchi sugli stessi curdi.
È con questa conoscenza informata che bisognerebbe leggere – e irridere – le frasi commoventi dell'appello all'intervento: "Siamo profondamente preoccupati dalle notizie che parlano di bombardamenti indiscriminati su quartieri della città densamente popolati e atti di violenza commessi al fine di terrorizzare gli abitanti". Se bombardamenti del tutto simili avvengono nei confronti dei curdi (l'alleato Turchia) o dei palestinesi (alleato Israele), invece, la preoccupazione rimane nel cassetto.
Restano invece i problemi sul campo. Le varie fazioni continuano a combattersi. E senza un accordo vero, che delimiti con certezza chi è alleato e con chi, il rischio per i “volenterosi pacificatori” è di ritrovarsi nel bel mezzo del fuoco incrociato, o addirittura di una inedita alleanza “indipendentista contro gli invasori occidentali”.
E infatti il testo dell'”appello” sottolinea come "Gli avvenimenti terribili che stanno accadendo a Sirte sottolineano ancora quanto sia urgente che le varie fazioni libiche trovino un accordo".
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