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05/08/2015

Guardiamoci dai facili comparativismi (tasse sulla casa e reddito di cittadinanza)

I giornali italiani, da circa un decennio, hanno scoperto l’uso delle comparazioni che usano a proposito ed a sproposito, in genere per sostenere una qualche tesi. Voglio schierarmi a difesa del matrimonio gay? Pubblico una cartina d’Europa (o magari di Europa e Nord America) dalla quale si evince, senza possibilità di errore, che ormai il matrimonio gay c’è nella grande maggioranza dei paesi e che è l’Italia il paese arretrato che ancora non lo fa. Al contrario: voglio osteggiare il matrimonio Gay? Pubblico una cartina del Mondo con cui dimostro il contrario, anzi, come siano in maggioranza i paesi in cui l’omosessualità è reato e, magari, distinguo fra paesi in cui il matrimonio gay è pienamente riconosciuto e paesi in cui ci sono solo “unioni civili” in modo da dimostrare come la tesi del matrimonio gay è in realtà la scelta di una piccola minoranza di paesi. E così via.

Nel merito sono personalmente favorevole alla prima tesi, ma non sulla base di questo argomento (“così fan tutti”) che mi sembra una fesseria, ma perché penso che questo rientri nella sfera dei diritti di libertà; qui l’esempio è scelto per dire come un uso disinvolto della comparazione consenta di dimostrare tutto ed il contrario di tutto.

Questo non vuol dire che la comparazione con gli altri paesi non serva, ma che è un metodo di indagine molto complesso che bisogna usare con grande cautela e non all’ingrosso, tanto per dare una pezza d’appoggio ad una tesi già decisa in partenza: non si comparano melanzane con scarpe e lampadine.

Veniamo a due esempi di questi giorni: le tasse sulla casa ed il reddito di cittadinanza.

Alcuni giornali hanno pubblicato cartine d’Europa con le quali dimostrano che la Tasi e l’Imu ci sono quasi dappertutto, per cui, abolirle in Italia sarebbe una assurdità, altri hanno pubblicato tabelle per dimostrare che inglesi e tedeschi pagano tasse sulla casa molto più di noi (circa il 5% contro il 2,5-3%). E’ proprio così?

Se vogliamo un quadro comparativo serio, che risponda, per quanto possibile a verità, dobbiamo tener presenti una serie di elementi che compongono il quadro.

In primissimo luogo occorre considerare quale sia il regime del diritto di superficie vigente in ciascun paese: nella tradizione romanistica questo era un diritto assoluto, per cui il possesso del suolo rendeva automaticamente proprietà del suo proprietario ogni cosa vi si fosse costruita sopra o sotto la superficie. Poi questo diritto ha avuto evoluzioni, per cui è stata riconosciuta la possibilità che il proprietario del suolo conceda ad altri – ovviamente in cambio di denaro o altra utilità – il diritto di edificare un proprio immobile, ma in genere per 99 anni.

Inghilterra e Norvegia hanno sviluppato un insieme di norme molto complesso in materia, in Germania le leggi cambiano anche sensibilmente da land a land e così via. Questo ovviamente incide sul valore catastale e, indirettamente, sull’entità del prelievo. E così il regime fiscale cambia anche in base al rapporto fra rendita catastale e valore di mercato che varia da paese a paese.

In secondo luogo, le imposte sulla casa andrebbero distinte dalla tariffa del servizio pubblico: ovviamente, la raccolta dei rifiuti – ad esempio – è un servizio che, come tale, deve essere pagato e, in questo senso si dovrebbe parlare più correttamente di tariffa più che di imposta, ci sono poi le opere di urbanizzazione, la manutenzione delle strade, il sistema fognario che di volta in volta vengono considerate l’una o l’altra cosa e poi ci sono le imposte vere e proprie che sono dovute per la semplice proprietà dell’immobile. Questo ha una conseguenza: in alcuni paesi si distingue fra imposte e tariffe con voci diverse, che a volte includono quelle voci relative a opere di urbanizzazione ecc, in altri vengono conglobate nella stessa voce. Quindi occorrerebbe avere a disposizione tutte queste voci e poi disaggregare analiticamente i vari sistemi per una comparazione effettiva.

Poi c’è da considerare i diversi regimi catastali, ad esempio, la rivalutazione del catasto che si profila in Italia potrebbe portare ad un apprezzamento maggiore degli immobili – e dunque delle tasse – che (in alcuni quartieri di alcune città) potrebbe superare anche del 200% i valori attuali.

Ma, alcuni paesi tassano solo le case di proprietà non abitate, mentre le case di abitazione sono esentate, altri esentano o riducono fortemente il prelievo per le sole prime case a prescindere se abitate o meno, altri ancora tassano essenzialmente il reddito derivante da un eventuale affitto. In alcuni paesi è considerata la fascia di reddito del proprietario, in altri no. E il tutto con valori molto diversi da caso a caso. Ed anche relativamente alla dichiarazione dei redditi muta il criterio con cui è considerata la proprietà immobiliare.

Ancora: muta da paese a paese il regime fiscale per l’acquisto della casa, che può essere molto contenuto in alcuni casi e decisamente maggiore in altri.

Poi, nel caso italiano, la polemica si è incentrata sulla questione degli immobili di lusso che, peraltro, sono già assoggettati ad un trattamento fiscale più rigoroso degli altri anche su voci diverse da Tasi e Imu, per cui, si possono tranquillamente abolire queste imposte eventualmente rivalutando le altre voci che riguardano le case di lusso e sempre che si capisca da quale livello una casa può essere considerata di lusso.

Potremmo continuare, ma ci fermiamo qui, avendo dimostrato come facili assimilazioni sono terribilmente fuorvianti: per uno studio serio, occorrerebbe valutare tutte queste voci, il che non si fa con una cartina o una tabella, ma con un saggio. Volendo dare un'informazione veloce, si possono comparare due altri dati: la percentuale complessiva della tassazione sulla casa sul gettito fiscale e sul Pil. Nel primo caso capiamo quanto pesi questa voce nella struttura del sistema fiscale di ciascun paese, nell’altro quale sia il peso effettivo della tassazione sulla casa relativamente alla ricchezza prodotta ogni anno. Sarebbe ancora una stima incompleta, ma almeno un po’ più precisa e meno depistante della prima.

Veniamo al reddito di cittadinanza. Anche qui l’argomento è il solito: ce l’ha tutta Europa, solo noi... Vediamo meglio.

In primo luogo facciamo un po’ di chiarezza; spesso si usano come sinonimi varie espressioni: salario minimo garantito, reddito di sopravvivenza, salario sociale, ecc ecc. come se si trattasse della stessa cosa, in realtà si tratta di cose con differenze anche rilevanti.

Apparentemente, tutti i paesi hanno qualcosa che potrebbe essere assimilato al reddito di cittadinanza, ma in realtà si tratta di cose abbastanza diverse per tipologia dei percettori (c’è chi lo riconosce solo ai propri cittadini e chi anche ai cittadini comunitari, chi anche agli extracomunitari, ma se regolarizzati e con precedente esperienza di lavoro; chi ai soli disoccupati, chi anche agli inoccupati; chi anche ai giovani in cerca di prima occupazione e che vivano in famiglia e chi invece ai giovani inoccupati ma che vivano soli), per durata (più o meno limitata nel tempo, oppure quasi illimitata salvo brevi intervalli lavorativi), per modalità di trattamento (c’è chi chiede prestazioni per lavori socialmente utili e chi no, chi lo fornisce come un reddito integrativo cumulabile con quello di lavoro, purché entro una certa somma, e chi invece lo concede solo in assenza di qualsiasi reddito; c’è chi lo collega ad attività di aggiornamento professionale e chi no), per cifra corrisposta (c’è chi lo considera individualmente, chi su base familiare con il problema delle convivenze) ecc ecc.

Soprattutto, va detto che ci sono paesi che affiancano forme di reddito sociale alla presenza di altri ammortizzatori sociali e altri che ritengono questa come unica forma di sostegno al reddito, sostitutiva di tutte le altre. Come si vede sotto la stessa denominazione indebitamente usata come equivalente generale, ci sono fattispecie molto diverse fra loro.

In questo senso, non è del tutto esatto dire che in Italia non esista nulla di simile. C’è la cassa integrazione guadagni (che, però, andrebbe riformata e seriamente), c’è l’indennità di disoccupazione o altre forme assicurative per i periodi di inoccupazione fra lavoro e lavoro (queste però, più di natura contrattuale che per legge, ad esempio l’edilizia). Ovviamente ogni modalità è pensata in funzione di particolari obiettivi, e, di volta in volta è opportuno dire cosa si intenda ottenere: il sostegno ai consumi? La stabilità di reddito dei lavoratori? L’avvio al lavoro dei giovani in cerca di prima occupazione? Il consenso sociale per evitare sgradite proteste? La riqualificazione professionale dei lavoratori in età critica? Contenere la dinamica salariale di chi un lavoro lo ha? Combattere o tollerare il lavoro nero?

Sarebbe bene, di volta in volta, chiarire bene il proprio progetto ed i proprio obiettivi, mentre il facile comparativismo che mette tutto in un sacco è solo propaganda che non aiuta a capire.

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