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10/08/2015

L’accorciamento della giornata lavorativa e l’incremento della produttività del lavoro

Un lavoratore non potrà prolungare neppure in via del tutto astratta la giornata lavorativa oltre le 24 ore. Limite che si accorcia ulteriormente se si tiene conto che per far funzionare il corpo umano, seppure solo come macchina da lavoro, sono necessarie determinate attività fisiologiche e biologiche senza le quali la sua stessa esistenza sarebbe impossibile.
Di più: l’introduzione nei processi produttivi di macchinari sempre più sofisticati, determinando una fortissima intensificazione [dei ritmi: velocità e intensità] del lavoro, a un certo punto dello sviluppo del sistema delle macchine e della grande industria, ha reso praticamente impossibile ogni ulteriore prolungamento della giornata lavorativa proprio perché era impossibile per l’operaio medio sostenere i nuovi ritmi produttivi per un numero di ore molto elevato.

A riguardo Marx scrive:

E’ ovvio che con il progresso del sistema meccanico e con l’esperienza accumulata da una classe particolare di operai meccanici aumenti spontaneamente la velocità e con essa l’intensità del lavoro. In tal modo durante mezzo secolo il prolungamento della giornata lavorativa procede in Inghilterra di pari passo con la crescente intensità del lavoro di fabbrica.

Ma si capisce che in un lavoro in cui non si tratta di parossismi passeggeri, ma di una uniformità regolare, ripetuta giorno per giorno, si deve giungere a un punto cruciale in cui l’estensione della giornata lavorativa e l’intensità del lavoro si escludano a vicenda cosicché il prolungamento della giornata lavorativa resta compatibile con un grado più debole d’intensità del lavoro e, viceversa, un grado accresciuto di intensità resta compatibile solo con un accorciamento della giornata lavorativa.

Appena la ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia, ebbe costretto lo Stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro e a imporre anzitutto una giornata lavorativa normale alla fabbrica propriamente detta, da quel momento dunque in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa fu precluso una volta per tutte, il capitale si gettò a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine.”

(Marx, Il capitale – Libro primo – capitolo 13- pag. 501).

E da allora è stata questa la risposta che più ha segnato e permeato di sé il modo di produzione capitalistico (…) e grazie anche alla ribellione della classe operaia negli ultimi 150 anni la giornata lavorativa si è perfino ridotta (seppure oggi tende a risalire).

In verità, dunque, l’intervento dello Stato, che ha limitato per legge la durata della giornata lavorativa, si è reso necessario perchè il prolungamento della giornata lavorativa oltre un certo limite minaccia l’integrità della stessa società borghese. E in tal senso esso può dirsi essere stato funzionale alla sopravvivenza stessa del sistema dello sfruttamento capitalistico. E in tal senso interpretabile come rivendicazione a lungo andare “ricevibile”, accoglibile e accolta, da parte della classe padronale, senza nulla voler togliere alla legittimità di tale rivendicazione, seppure meramente difensiva e dunque incapace di risolvere la questione dello sfruttamento.

Alla luce della situazione attuale, i famigerati ‘accordi di solidarietà” (lavorare tutti, o quasi, e meno ma… per guadagnare un salario da fame) – accolti dal padronato – ripropongono lo stesso apparente paradosso.

Il ricorso all’estrazione di plusvalore relativo (leggi: incremento della produttività dl lavoro, oggi e sempre tanto esaltata come massima virtù di un sistema economico efficiente) consente dunque alla classe padronale – rimanendosi nel capitalismo – di recuperare quote di pv e dunque di neutralizzare di fatto i benefici effetti risultanti ai lavoratori da una conquistata riduzione dell’orario di lavoro, specie se e quando una simile rivendicazione operaia non sia legata ad un aumento dei salari.

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