Un lavoratore non potrà prolungare
neppure in via del tutto astratta la giornata lavorativa oltre le 24
ore. Limite che si accorcia ulteriormente se si tiene conto che per far
funzionare il corpo umano, seppure solo come macchina da lavoro, sono
necessarie determinate attività fisiologiche e biologiche senza le quali
la sua stessa esistenza sarebbe impossibile.
Di più: l’introduzione nei processi produttivi di macchinari sempre più
sofisticati, determinando una fortissima intensificazione [dei ritmi:
velocità e intensità] del lavoro, a un certo punto dello sviluppo del
sistema delle macchine e della grande industria, ha reso praticamente impossibile
ogni ulteriore prolungamento della giornata lavorativa proprio perché
era impossibile per l’operaio medio sostenere i nuovi ritmi produttivi
per un numero di ore molto elevato.
A riguardo Marx scrive:
“E’ ovvio che con il progresso del
sistema meccanico e con l’esperienza accumulata da una classe
particolare di operai meccanici aumenti spontaneamente la velocità e con
essa l’intensità del lavoro. In tal modo durante mezzo secolo il
prolungamento della giornata lavorativa procede in Inghilterra di pari
passo con la crescente intensità del lavoro di fabbrica.
Ma si capisce che in un lavoro in
cui non si tratta di parossismi passeggeri, ma di una uniformità
regolare, ripetuta giorno per giorno, si deve giungere a un punto
cruciale in cui l’estensione della giornata lavorativa e l’intensità del
lavoro si escludano a vicenda cosicché il prolungamento della giornata
lavorativa resta compatibile con un grado più debole d’intensità del
lavoro e, viceversa, un grado accresciuto di intensità resta compatibile
solo con un accorciamento della giornata lavorativa.
Appena la ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia, ebbe costretto lo Stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro e a imporre anzitutto una giornata lavorativa normale alla fabbrica propriamente detta, da quel momento dunque in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa fu precluso una volta per tutte, il capitale si gettò a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine.”
(Marx, Il capitale – Libro primo – capitolo 13- pag. 501).
E da allora è stata questa la risposta
che più ha segnato e permeato di sé il modo di produzione capitalistico
(…) e grazie anche alla ribellione della classe operaia negli ultimi 150
anni la giornata lavorativa si è perfino ridotta (seppure oggi tende a
risalire).
In verità, dunque, l’intervento dello
Stato, che ha limitato per legge la durata della giornata lavorativa, si
è reso necessario perchè il prolungamento della giornata lavorativa
oltre un certo limite minaccia l’integrità della stessa società
borghese. E in tal senso esso può dirsi essere stato funzionale alla
sopravvivenza stessa del sistema dello sfruttamento capitalistico. E in
tal senso interpretabile come rivendicazione a lungo andare
“ricevibile”, accoglibile e accolta, da parte della classe padronale,
senza nulla voler togliere alla legittimità di tale rivendicazione,
seppure meramente difensiva e dunque incapace di risolvere la questione
dello sfruttamento.
Alla luce della situazione attuale, i famigerati ‘accordi di solidarietà” (lavorare tutti, o quasi, e meno ma… per guadagnare un salario da fame) – accolti dal padronato – ripropongono lo stesso apparente paradosso.
Il ricorso all’estrazione di plusvalore
relativo (leggi: incremento della produttività dl lavoro, oggi e sempre
tanto esaltata come massima virtù di un sistema economico efficiente)
consente dunque alla classe padronale – rimanendosi nel capitalismo – di
recuperare quote di pv e dunque di neutralizzare di fatto i benefici
effetti risultanti ai lavoratori da una conquistata riduzione
dell’orario di lavoro, specie se e quando una simile rivendicazione
operaia non sia legata ad un aumento dei salari.
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