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06/08/2015

Renzi allo sbaraglio: promette le politiche fallimentari di Jeb Bush

A Matteo Renzi va dato atto di una cosa: all’assemblea nazionale del Pd a Milano ha parlato di economia (almeno di quello che lui pensa essere materia economica), mentre gli oppositori interni hanno parlato di schieramenti. Detto questo, il discorso economico alla nazione di Matteo Renzi a Milano è stato un autentico disastro. Sempre se si analizzano le politiche proposte da Renzi, non certo se si guarda al mainstream televisivo. Quest’ultimo infatti mette sempre i riflettori su chi annuncia meno tasse, benedicendo mediaticamente gli sfrondatori di aliquote e i mentori delle detassazioni. E, se è per quello, è di un buon effetto-annuncio che Renzi ha bisogno. I sondaggi lo vedono in calo, con circa 10 punti in meno rispetto al risultato “magico” del 2014, l’economia è stagnante (specie se i dati guardano alla struttura del paese quindi al netto del calo dell’euro e del prezzo del petrolio) e qualcosa bisogna pur raccontare per risalire l’audience. Vedremo se Renzi recupererà quel mezzo punto nei sondaggi grazie all’ennesimo annuncio sul taglio delle tasse che, da Berlusconi fino a Letta passando da Prodi e persino da Monti, non è mai mancato nel repertorio del marketing politico dalla fine della prima Repubblica. Si tratta di quel repertorio generalista che - insieme a quelli sulla microcriminalità o sull’immigrazione - si pensa che in qualche modo tocchi la maggior parte dell’elettorato.

Fare spettacolo su un taglio delle tasse, tra l’altro tutto da dimostrare, è anche governare il partito, o meglio quello che ne rimane, scosso dalle vicende romane e siciliane. E anche da quel lento processo di uscita di correnti e cordate (da Civati a Fassina) che, a partire dalle elezioni in Liguria fino alla pessima legge sulla scuola, ha attraversato il Pd. Assieme ad un calo record dei tesseramenti. Un bel Matteo Renzi show da Milano, in uno scenario blu soffuso fatto per regalare una sensazione di freschezza in periodo di canicola, era quindi quello che ci voleva. Sul piano dell’immagine e della messa tra parentesi del dibattito interno. Ma, questioni di sondaggi e di immagine a parte, il governo Renzi è davvero intenzionato a tagliare le tasse di 50 miliardi? E quale tipo di economia innescherebbe?

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: nel dibattito politico si sta parlando come se si trattasse degli anni ’80, ovvero con uno stato nazionale che prende decisioni da solo e poi le applica. Oggi invece è diverso: il two e il six pack, approvati da Roma negli anni scorsi, rendono il bilancio nazionale a revisione, con tanto di multe in caso di applicazione sbagliata, preventiva e consuntiva da parte di Bruxelles. Per cui, oltre ad assistere allo spettacolo di Renzi, i media, se vogliono capirci qualcosa sul taglio delle tasse, non dovrebbero far altro che intervistare la Merkel o Hollande. Ma ne soffrirebbe l’effetto annuncio, naturalmente. Il consigliere economico di Renzi, Yoram Gutgeld (scuderia McKinsey, che in Inghilterra gestisce direttamente la privatizzazione della sanità), cerca di delineare la politica del governo in materia di taglio delle tasse.

Gutgeld riporta che, oltre ai 35 miliardi di manovra necessari per il taglio delle tasse, servono anche 70 miliardi per impedire che scattino, nel 2016, gli aumenti automatici di Iva e accise sulla benzina. Una manovra quindi, salvo peggioramenti della congiuntura economica, di circa 110 miliardi in tre anni. Tutti dedicati a tagli delle tasse e della spesa pubblica. Ma quali sono, secondo Gutgeld, gli strumenti per arrivare a questa manovra?

1) Spending review di 10 miliardi, toccando anche nodi nevralgici della spesa sociale (sempre sotto il pretesto “sprechi”) deprimendo le economie locali;
2) Aumento del Pil imprevisto che genera maggiore tassazione;
3) Allargamento del rapporto deficit-pil di quasi due punti per generare risorse.

Mentre il secondo punto è quasi fantascientifico, visti i tassi di crescita continentali e globali, si capisce che Renzi farà pressione verso l’Europa per poter allargare il rapporto deficit-Pil. E’ il vero strumento che il governo ha, a meno di non tagliare la spesa sociale oltre l’inverosimile (e già farebbe danni la spending review alla Gutgeld). La scommessa di Renzi è quindi difficile quanto evidente: aspettarsi appoggio da Bruxelles, e da Berlino, per una riforma che piace molto oltreoceano. E che potrebbe tanto più piacere se l’inquilino della casa bianca nel 2016 fosse un tipo alla Jeb Bush che, di quel tipo di riforma delle tasse, è un alfiere convinto. D’altronde è cronaca giornalistica il fatto che Michael Ledeen, della destra repubblicana americana, è stato ospite della Leopolda. E che Yoram Gutgeld non è certo ostile alla destra repubblicana. Come è noto il fatto che sono proprio le politiche di forte taglio delle tasse, meglio una flat tax che favorisce i ceti più ricchi, che piacciono alle grandi corporation finanziarie. Il tentativo della riforma delle tasse renziano non è quindi altro che la riedizione delle Reaganomics, versione spaghetti. Taglio delle tasse da redditi da lavoro, da capitale, da proprietà, bassa inflazione, stato minimo (del resto tra abolizione delle province e del senato e il collasso delle partecipate, la direzione è quella. E con i tagli alla tassa sulla casa molti comuni potrebbero semplicemente chiudere. Le politiche municipali finirebbero in mano alla neo-filantroplia e ai privati).

Senza avventurarsi in analisi di politiche differenti nello spazio e nel tempo, come per il confronto Reaganomics e politiche renziane, facciamo notare un grafico. E’ lo storico dell’andamento del salario in un paese, come gli Usa, dove la disponibilità di capitali liberata, tramite le Reaganomics, è stata molto più alta di quella potenzialmente disponibile con le Renzinomics.

Si noti come dal 1981, per quasi 20 anni, il potere di acquisto del salario americano non cessa di scendere proprio a partire dalle reaganomics. Senza mai recuperare totalmente in potere d’acquisto. Neanche oggi, nel 2015. E questa politica sarebbe da attuarsi in un paese dove il potere di acquisto, nei primi dieci anni di entrata in vigore dell’euro, è stato di circa meno 11.000 euro a famiglia.

Viene davvero da pensare che Renzi voglia liberare capitali, che possono finire ovunque visto il mondo globalizzato, per favorire dinamiche di deflazione salariale tali da avvicinare il costo del lavoro italiano a quello polacco.

Come se non bastasse, e non basta, ecco un articolo di Bloomberg, che non è un sito neobolscevico ma un grosso gruppo mediale dell’informazione finanziaria americana.

Noah Smith riporta infatti che l’analisi dei paesi che hanno applicato, a casa propria, le reaganomics rivela che non c’è alcuna evidenza di reale miglioramento nelle loro economie. Anzi, in diverse prese ad esame, le economie con le reaganomics peggiorano. Eppure Renzi cerca di vendere politiche non solo vecchie di 35 anni ma anche che non mostrano, nell’analisi storica, miglioramenti reali. Oltre a mostrare, come nel caso USA che è quello pilota, calo del potere di acquisto.

Sia chiaro: in questo paese le tasse sono alte. E non servono certo per i servizi sociali. Ma le tasse alte non possono essere un pretesto per disintegrare il paese. Meglio guardare ai dibattiti economici che evitano ricette renziane pardon, reaganiane. Ce ne sono, basta cercare e innovare in materia.

Siccome è bello chiudere con i patetici, parliamo un attimo di Susanna Camusso. Dopo 10 mesi in cui assieme allo statuto dei lavoratori è saltata anche la scuola (e la legge sulla scuola è una riforma del salario al ribasso). La zombie woman della Cgil è riuscita a dire, delle politiche reaganiane di Renzi, che aspetta che il governo “dalla parole passi ai fatti”. Ovvero, dati e proiezioni alla mano, la Camusso ce l’ha fatta ad augurarsi il più duro attacco al potere di acquisto di sempre. L’inconsistenza del mito dei sindacalisti ragionevoli, con la testa sulle spalle, concreti perché “riformisti” vive serena in questo personaggio. E la sua segreteria, rigorosamente priva di qualsiasi qualità e procedendo da un basso profilo all’altro, è riuscita a svendere, senza traumi per l’organizzazione, i lavoratori in un modo che non si vedeva dalla svolta CGIL dell’EUR del 1978. Roba da stare nella Hall of Fame antioperaia assieme a Luciano Lama. Con una differenza: Susanna Camusso, finora, ha generato tanta indifferenza che non l’ha neanche rincorsa nessuno. Per farsi cacciare dai luoghi pubblici, fatto che ha giustamente sigillato la vita di Luciano Lama, bisogna perlomeno farsi notare.

Redazione - 2 agosto 2015

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