di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Tutti vogliono la pace in
Siria. Chi farà parte di questa pace, però, resta da capire. Lunedì il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha trovato un accordo sulla proposta
francese di transizione politica per il paese scosso da quattro anni e
mezzo di guerra civile. Sedici punti da implementare a partire da
settembre. Assad ne farà parte o no? L’unico a muovere dubbi in
proposito è stato il Venezuela che ha definito il comunicato Onu «un
precedente molto pericoloso» perché viola il diritto del popolo siriano
all’autodeterminazione. Il Palazzo di Vetro lo definisce invece
«storico» perché mai prima il Consiglio aveva espresso una posizione
comune, bloccata dai veti incrociati di Stati Uniti e Russia.
Cosa cambia ora? Seppur il ministro degli Esteri russo Lavrov abbia
ripetuto lunedì che l’esclusione del presidente Bashar al-Assad non va
considerata precondizione al dialogo, Mosca ha da qualche tempo
alleggerito il sostegno al governo e aperto alle voci di opposizioni e
paesi del Golfo, tra i manovratori della guerra civile in corso in
Siria.
Sul tavolo l’iniziativa di pace propone la creazione di 4
gruppi di lavoro che si occupino ognuno di un diverso bisogno: sicurezza
e protezione, contro-terrorismo, questioni politiche e legali e
ricostruzione. «Un processo politico guidato dai siriani che
porti ad una transizione politica che rispetti le legittime aspirazioni
del popolo», si legge nel comunicato del Consiglio di Sicurezza, dove
per transizione si intende «la creazione di un governo inclusivo con
pieni poteri esecutivi, formato sulla base del mutuo consenso e della
continuità delle istituzioni governative».
Una definizione che sembrerebbe aprire all’attuale esecutivo
di Damasco, seppur non venga mai nominato, una possibilità che si
scontra con la realtà dei fatti. Gli Stati Uniti sono irremovibili: per
Assad non c’è posto. E la migliore delle giustificazioni alla sua
esclusione è l’ultimo sanguinoso attacco compiuto dall’aviazione
governativa contro Douma, comunità roccaforte delle
opposizioni: 100 morti in sei raid contro un mercato domenica
pomeriggio, uno dei peggiori massacri dal 2011. Mentre i residenti
raccoglievano i corpi delle vittime, fatti a pezzi dai bombardamenti,
lunedì un altro raid ha colpito la stessa cittadina. L’obiettivo – ha
fatto sapere Damasco – era il gruppo di opposizione Esercito dell’Islam,
responsabile di una serie di attacchi contro aree controllate dal
governo nella zona (a soli 15 km di distanza dalla capitale) e dal fitto
lancio di missili contro Damasco la scorsa settimana.
La condanna del mondo è giunta subito. In prima fila Washington che
ha colto la palla al balzo per rifiutare le aperture mosse dall’Iran e
dallo stesso governo siriano per un accordo di cessate il fuoco e di
transizione politica pacifica: «Come abbiamo detto, Assad non ha
legittimità per governare il popolo siriano – ha detto il portavoce del
Dipartimento di Stato Usa, John Kirby – [Gli Stati uniti vogliono] una transizione politica lontana da Assad».
Stessa musica viene suonata dai francesi, promotori dell’iniziativa
di pace: il vice ambasciatore francese alle Nazioni Unite, Alexis Lamek,
ha precisato che «Assad non è il futuro della Siria». Posizioni
simili alle fallimentari conferenze di pace di Ginevra (boicottate
dalle opposizioni moderate della Coalizione Nazionale Siriana) ma
piuttosto vaghe: quanto dovrebbe durare il processo di transizione? Chi
dovrebbe farne parte? Assad dovrebbe scomparire dal palcoscenico prima,
durante o dopo? Ma soprattutto, non si comprende bene chi
dovrebbe guidare tale transizione, vista la scomparsa sul campo di
battaglia e su quello politico di coloro che sono stati considerati per
anni dall’Occidente gli unici rappresentanti del popolo siriano, ovvero i
gruppi membri della Coalizione Nazionale.
Perché sul terreno a poco serve il piano in pompa magna
lanciato dagli Stati Uniti tra Turchia e Giordania per addestrare e
armare la cosiddetta “Nuova Forza Siriana”. Serve a poco perché non
spaventa né l’Isis né al-Nusra e i suoi gruppi satellite. Di
ribelli ne sono stati rimandati in Siria 54, ricoperti di armi dal
valore di 41 milioni di dollari. Ma non basta: sono gli stessi miliziani
a criticare il modello Usa. «17mila siriani vorrebbero unirsi al
programma, ma l’addestramento è molto lento – ha raccontato alla Cnn uno
dei ribelli, Abu Iskander – Dobbiamo essere più veloci: 30 giorni
invece di 45 e più training. Non 85 come fatto in Giordania, ma 500 là e
500 in Turchia».
Perché, seppur le armi siano estremamente sofisticate, la Nuova Forza
è talmente piccola da essere diventata subito la preda di gruppi
islamisti rivali. Diciotto di loro sono stati già rapiti da al-Nusra e
il resto del gruppo si è affrettato a dire di non voler combattere i
qaedisti, ma solo Assad.
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