Ci sono voluti due anni per trovare le parole. E altri due per liberarle. Angelique si è rifugiata dietro le sue parole. Per sette anni l’altro genocidio l’inseguiva. Nella foresta tropicale dello Zaire fino alla salvezza nell’altra repubblica. Quella Centrafricana oggi preda degli stessi demoni. Lei, fuggita con la madre, la sorella e il fratello più piccolo. L’ennesimo genocidio del Rwanda che nel ‘94 aveva causato la morte di migliaia di persone in pochi mesi. Chi era ucciso e chi doveva rifugiarsi per evitare le rappresaglie. Hutu e Tutsi e viceversa. Migliaia di persone che, come Angelique, hanno toccato l’inferno ogni giorno, per sette anni. Lei ha scritto per liberare le parole. Sono loro che l’hanno liberata dalla prigione della paura e dell’odio. Parole rifugiate di bambina.
Seduta in casa racconta che l’Angelica, autrice del libro e l’altra che ora parla non sono più le stesse. La prima è scomparsa tra le parole rifugiate nel libro, le punteggiature, le date e i nomi degli scomparsi. Il titolo del suo scritto, presentato in vari paesi d’Europa e d’Africa, recita ‘ I bambini del Rwanda’. Quelli che sono morti nelle foreste e quelli sulle spiaggie. La foresta nasconde, copre, inghiotte, proprio come il mare. Nessuna foto da pubblicare. Sono i bambini del Rwanda, ostaggi delle guerre dei grandi, vittime a loro volta di altri. Dopo i massacri ogni persona Hutu era ormai una vittima dei Tutsi che nel frattempo avevano preso il potere. Gli Hutu si erano rifugiati nel vicino Zaire, in campi profughi minacciati dai militari Tutsi. Lo Zaire era in guerra civile.
Angelique passerà qualche mese a Niamey. Lavora con l’Unione Europea ed è già stata inviata in missione in Centrafrica coi rifugiati, dove era stata salvata. Consulente per i diritti umani, Angelica adesso ospita le parole rifugiate di altre donne. Come con lei le parole sono schiave del dolore del passato. E’ stata accolta come rifugiata nel 2001 in Danimarca. L’aereo, preso per la prima volta, l’aveva condotta prima in Cameroun e poi in Svizzera. Ha imparato la lingua, finiti gli studi e trovato un lavoro. In Danimarca erano attese, per la prima volta, da qualcuno. La morte capita quando non c’è nessuno ad aspettare. E lo sguardo è come una parola muta che nessuno più custodisce. Angelique aveva tredici anni quando ha cominciato il viaggio nelle foreste dello Zaire.
Ha attraversato fiumi in piena, soldati sbandati e altre migliaia di rifugiati. Molti sono morti in cammino e la terra da sola li ha sepolti per solidarietà. Per sette anni di fila sei terra e torni alla terra. Angelique parte bambina e arriva come rifugiata che ha scordato la vita. Allora scrive, ricorda, racconta, piange, danza e conta i suoi morti. Libera si trova oggi, come una donna che le parole hanno salvato. Erano le cinque di mattina del 18 agosto del 1994 quando lei, la madre e il resto della famiglia si sono messi in marcia. Lo Zaire si trovava a cinquanta kilometri. Questione di tre giorni di marcia, diceva la madre. Ci sono voluti anni per attraversare quella foresta.
Solo la missione di salvare la vita al fratellino le ha dato la forza di non fermarsi. Di morire è stata tentata più volte, diceva, e non lo ha fatto per lui, Adrien, il fratellino, ora laureato in economia nel Kenya. L’altra sorella, Goretti, è infermiera e lavora in un ospedale norvegese. Angelique non ha più visto sua madre, era stanca di camminare e si sono salutate con un cenno di mano.
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