La vittoria di Jeremy Corbyn nella consultazione interna al Partito Laburista inglese è certamente una buona notizia che segnala come inizino ad esserci le premesse di una svolta a sinistra della socialdemocrazia europea, dopo la sbornia liberista dei vai Blair, Schroder e compagnia servente.
Anche se con lentezza, i morsi della crisi iniziano a produrre una incipiente radicalizzazione dello scontro politico. E’ finita la stagione in cui la sinistra “vincente” era quella che faceva le stesse cose della destra e ricomincia a profilarsi un’alternativa alle politiche liberiste. Detto questo, ora non è il caso di prendere la solita sbornia per il leader di sinistra che vince all’estero: Zapatero, Tsipras, ecc., tutte illusioni che durano lo spazio di qualche mese e lasciano l’amaro in bocca. E dunque, guardiamo a Londra con soddisfazione, ma anche con realismo.
Corbyn, per ora, presenta un programma che somiglia moltissimo a quello con il quale Foot affrontò le elezioni del 1983, contro la Tatcher, incassando la più sonora sconfitta dal 1945 ed, in assoluto, il risultato più basso del dopoguerra. Nel merito molte di quelle proposte sono assolutamente ragionevoli: nazionalizzazione di imprese strategiche e banche, tassazione fortemente progressiva sul reddito, rifiuto di avventure militari e, di conseguenza, taglio delle spese militari ecc. Nel merito di ciascuna proposta, non ho obiezioni, il punto è se una strategia così formulata sia in grado prima di vincere le elezioni e dopo, di poter essere effettivamente praticata una volta al governo. Certo, il 1983 era l’alba dell’ondata neo liberista ed oggi siamo in una crisi devastante che non accenna a passare (almeno dal punto di vista dell’economia reale). Questo non vuol dire che non si debba riflettere sul perché di quella lontana sconfitta rimuovendola come qualcosa che non ci riguarda più.
Alla base di quella dèbacle c’erano due fattori connessi: la composizione di classe del Regno Unito e l’insussistenza di spazi per la socialdemocrazia in un ordine neo liberista. Abbiamo già detto come nel mondo della globalizzazione finanziaria le politiche socialdemocratiche di cauto adattamento del capitalismo alle esigenze sociali non hanno nessuna realistica possibilità di affermarsi, sia perché la libertà di spostamento dei capitali sottrae la possibilità di tassare efficacemente i grandi capitali, sia perché le delocalizzazioni, esportando la manifattura, riducono il peso della tradizionale classe operaia che ha sempre costituito la base sociale della socialdemocrazia. Poi la fitta rete di accordi internazionali, garantiti dalla cupola della tecnostruttura sovranazionale, legano le mani a qualsiasi governo.
Per quanto riguarda la composizione sociale dell’UK, si tratta proprio della più riuscita affermazione delle politiche di delocalizzazione: l’intera economia inglese ruota intorno ai profitti delle City che sostiene il vasto indotto dei servizi, in larga parte composto da precari non sindacalizzati.
Una composizione sociale del genere non è esattamente la più accogliente per un programma classicamente socialdemocratico. Da questo punto di vista, la situazione è peggiorata rispetto a trenta anni fa: la classe operaia tradizionale è diminuita, i precari sono scarsamente interessati ad un programma del genere, il proletariato dei servizi ed i ceti medi è probabile che guardino con sospetto ad un programma di nazionalizzazioni. E la proposta di riaprire le miniere di carbone del Galles sembra non solo inefficace, ma anche controproducente.
Il tatcherismo non è stato una momentanea ventata di irrazionalità politica da rimuovere con un “heri dicebamus”: ha prodotto mutamenti sociali, culturali, politici di lunga durata che sono tuttora presenti. Il che non vuol dire che si debba proseguire nella politica suicida dei Blair, Renzi, Hollande e simili. Ma se si vuole davvero cambiare le cose e rovesciare l’ordine neoliberista con le sue rigidità ed ingiustizie sociali, serve a poco rispolverare le ricette di trenta anni fa. Molte di quelle proposte vanno bene, ma devono essere inserite in una strategia di più ampio respiro e con una forte carica innovativa. Da questa fossa non usciamo rimettendo indietro di trenta anni le lancette dell’orologio.
Veniamo al merito che, a mio avviso, ruota intorno a due punti: la dimensione internazionale dello scontro e la formazione di un blocco sociale vincente.
La libertà d’azione dei governi nazionali è limitata al limite della paralisi dalla serie di accordi che fondano l’ordine mondiale neo liberista, a partire dai famigerati accordi di Marrakech e proseguendo con quelli di Maastricht eccetera. Se vogliamo cambiare rotta dobbiamo imporre il rinegoziato di quegli accordi, a cominciare dalla libertà di movimento dei capitali e dalla correlata partita fiscale. Quello che richiede un movimento di lotta internazionale che allei le sinistre dei vari paesi ai movimenti neo populisti (ad esclusione di quelli dichiaratamente fascisti), ai movimenti giovanili e degli immigrati, e, se riesce, le carcasse degli apparati sindacali che, forse, possono ancora servire a qualcosa, oltre che mantenere quei mangiapane a tradimento dei funzionari sindacali.
In questi anni, non sono mancati incipienti movimenti di protesta come gli indignados, Occupy Wall Street, l’onda eccetera, ma si è trattato di brevi fiammate locali che non hanno trovato un punto di riferimento internazionale. Avrebbe potuto muoversi in questa prospettiva (quantomeno europea) Tsipras, che ha buttato via l’occasione per totale insipienza politica. Speriamo che Corbyn capisca la lezione e si muova sin d’ora in questa prospettiva: in fondo, l’Inghilterra non è la Grecia ed il Partito Laburista ha peso e relazioni adeguate a principiare un simile progetto.
In un quadro di conflittualità sociale internazionale ha senso che un governo rompa unilateralmente i patti incrinando il sistema liberista mondiale. Speriamo che Corbyn, ammesso che vinca le elezioni, non lo scopra, come Tsipras, quando non ci sarà più nulla da fare. D’altro canto, se il grande capitale si muove a livello mondiale, come pensiamo che le sinistre possano farcela a livello nazionale e senza avere le proprie Davos o i propri Bilderberg?
Il secondo punto è la costruzione di una coalizione sociale capace di portare alla vittoria i laburisti in Inghilterra. E qui mettiamoci tutti in testa che non ce la si fa con uno schema di partito di corporazione operaia o con il solo lavoro dipendente. Abbiamo bisogno di una vasta coalizione sociale anticapitalista che metta insieme lavoro dipendente, lavoro autonomo e lavoro precario e che si fondi su due battaglie: quelle per il fisco e quelle per l’autoimprenditoria ed autogestione. La giustizia fiscale e la lotta al grande capitale che elude le tasse è quello che può saldare lavoro dipendente e lavoro autonomo, mentre l’autoimprenditoria e l’autogestione è quello che può saldare lavoro dipendente e precariato.
Ovviamente questo esige tanto una scelta di lotta radicale quando una offensiva che scalzi l’egemonia culturale finanziaria e imponga quella del lavoro.
Questo non è tempo di riformismo, ma di scontro frontale che esige non piccole ma grandi idee.
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