La riforma del Senato è diventata l'ostacolo su cui potrebbe inciampare il governo Renzi. Non crediamo che ciò accadrà, diciamo subito. Ma il modo in cui va maturando una riforma costituzionale – che decide degli assetti di lungo termine delle istituzioni e dei rapporti tra i poteri dello stato – merita qualche attenzione.
Siamo infatti abituati a considerare Renzi e i suoi robot-valletti come dei mentitori seriali, quindi indegni di attenzione a quanto vanno dicendo. È giusto, e proprio perché è giusto diventa necessario analizzare quel che fanno, non quel che dicono.
Sul merito della riforma del senato, c'è poco da aggiungere a quanto hanno già detto autorevoli costituzionalisti di diverse scuole (Zagrebelski, Villone, Ferrara, ecc). Fare del Senato un microcontenitore di nominati di secondo grado (presi dalle regioni e dai Comuni, più 5 di competenza del Presidente della Repubblica), senza più funzioni di controllo legislativo, è di fatto un'abolizione secca.
La legge elettorale chiamata “Italicum”, peraltro, svuota anche la Camera dei Deputati (così come aveva fatto il “Porcellum” calderolian-berlusconiano), confermandola come un contenitore di nominati dalle segreterie di partito (in realtà selezionati e imposti dalla consorterie organizzate in forma elettorale), quindi obbedienti in tutto e per tutto alla volontà dei capicorrente.
L'abnorme “premio di maggioranza” al partito che vince il secondo turno, infine, rende possibile un governo blindato, scelto magari solo dal 20% dei votanti (attualmente la metà degli aventi diritto). Se non è un golpe, insomma, poco ci manca.
Ma quello che vi invitiamo a considerare è anche il metodo, altrettanto immondo, in cui si “cerca la maggioranza” per far approvare la riforma del Senato allo stesso Senato.
Il Pd, ieri, si è formalmente spaccato sull'art. 2, ossia sulla non eleggibilità dei componenti il prossimo Senato. La bersaniana Denis Lo Moro ha abbandonato il tavolo di confronto interno ai piddini presenti in Commissione Affari Costituzionali, vista l'irremovibilità dei renziani a qualsiasi modifica.
A quel punto la presidente della Commissione, la renziana Anna Finocchiaro, ha deciso di “tirare dritto”, convocando per oggi la riunione dei capigruppo per portare in aula il testo senza modifiche. Così facendo ha naturalmente fatto saltare sulla sedia Pietro Grasso, presidente del Senato, che è per regolamento l'unico che ha il potere di convocare i capigruppo, anche se di norma lo fa su richiesta anche di singoli gruppi.
Una scortesia istituzionale in più, e volontaria, perché i renziani vogliono sapere se Grasso ammetterà o meno le migliaia o pochi emendamenti che mettono in discussione l'art. 2. Un pressing coatto rinforzato dalla decisione, presa dalla stessa Finocchiaro, di dichiarare “inammissibili” tutti gli emendamenti su questo punto.
Dal punto di vista regolamentare qualche ragione c'è. Un testo di legge già passato sia in Senato che alla Camera può essere modificato solo nelle parti che l'altro ramo del parlamento ha cambiato rispetto alla prima lettura. E nell'art. 2 c'è stato un solo cambiamento; l'uso della preposizione “dai” al posto di “nei”. Nulla, insomma, che possa interferire sull'eleggibilità dei senatori, stupidamente approvata in prima lettura anche dai bersaniani del Pd.
È chiaro, insomma, che dietro la spinta degli emendamenti a tutto campo, c'è un'intenzione politica non esplicitata che Renzi, a questo punto, preferisce far venire allo scoperto per decapitare definitivamente la minoranza interna. Ma così facendo deve mettere sul piatto la disponibilità a far cadere il suo stesso governo, se dovesse finire in minoranza su qualche emendamento decisivo, e accettare la sfida di nuove elezioni.
Il suo calcolo è quasi trasparente: se ci deve essere un rischio elezioni, meglio subito che tra un anno o due, quando saranno molto più visibili, socialmente, gli effetti delle sue più infami “riforme” (Jobs Act, scuola, sanità, ammortizzatori sociali, ecc). Per quanto in rapido calo, la sua immotivata popolarità (tutta dovuta a una precisa scelta dei proprietari del principali media mainstream) è ancora enormemente superiore a quella di qualsiasi possibile competitore. Unica eccezione i grillini, contro cui sarebbe in fondo facile chiamare all'”unità nazionale” di centrodestra e “democratici”.
Ma cadere, per quanto con molti salvagente, è sempre un rischio. Quindi va berlusconianamente cercando di comprarsi più senatori possibile, sia nella minoranza Pd che tra le opposizioni ufficiali (Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia, ecc).
Ed è qui che il metodo si trasforma in sostanza politica e costituzionale.
Per esempio: il leghista Calderoli avrebbe potuto decidere di ritirare gli emendamenti leghisti presentati in commissione. Un gesto di “cortesia” parlamentare intinto nel veleno, perché avrebbe costretto i renziani ad affrontare il voto in Commissione, dove non hanno i numeri. Sarebbe stato un punto a favore dell'opposizione di destra al governo. Ma Calderoli non l'ha fatto. E sembra logico dedurre che il motivo sta in uno scambio poco onorevole per tutti: oggi il Senato deve decidere se metterlo in stato d'accusa per le offese all’ex ministro Cecile Kyenge (che chiamò “orango”). Basta che il Pd decida di votare contro e lo scambio è fatto. Calderoli la passa liscia e qualche voto leghista a favore (o non contrario) del testo renziano si può trovare...
Stesse scene su altri fronti, dove la “strana coppia” di fiorentini in odor di loggia (Verdini, peraltro finito sotto inchiesta per la P4, e Luca Lotti, neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio), va sondando disponibilità individuali e/o di gruppo. Lo scambio, in questi altri casi, riguarda la possibilità di trovare posto nelle future liste blindate per la Camera oppure la certezza di venir rispescati magari a livello regionale.
Oppure c'è la possibilità di scansare una autorizzazione all'arresto. Come nel caso di Giovanni Biliardi, senatore Ncd. La Giunta per le autorizzazioni ha già dato il suo parere favorevole all'ingabbiamento, ma la relatrice Pezzopane non avrebbe ancora depositato la relazione "tecnica". Quindi, se l'arrestando darà il voto suo e di qualche amico a favore della riforma, il Pd potrebbe contraccambiare – come già fatto per Azzollini – votando in aula il “no” alle manette.
Pratiche ignobili certo non nuove nei corridoi parlamentari. Ma in ballo stavolta non c'è una leggina sul finanziamento di una fondazione che “interessa” un boss locale, né una sul finanziamento dei partiti. Si sta parlando di poteri costituzionali, di “equilibri” tra questi poteri. Che si possa procedere a maggioranza semplice (invece che “qualificata”, ovvero due terzi dei senatori) è già uno sfregio. Che lo si faccia contando su una manciata di corrotti, minacciati, “scambisti”, dà la cifra autentica della moralità di questa banda al governo.
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