di Chiara Cruciati
Le due super potenze
hanno rispettato il copione previsto: Russia e Stati Uniti riavvieranno
il dialogo sulla questione siriana. Lo ha fatto sapere il Pentagono,
dopo le chiusure dei giorni scorsi. Mosca aveva chiesto alla Casa Bianca
di coordinare le attività militari anti-Isis “altrimenti il problema
non si risolverà”.
Il Pentagono ha fatto sapere che l’incontro tra russi e
statunitensi potrebbe tenersi addirittura questo fine settimana, dopo
l’ok da parte del Cremlino alla proposta mossa dagli Usa. Il
vice ministro della Difesa ruso, Anatoly Antonov, ha detto che i punti
previsti dagli Stati Uniti sono stati accettati in via di principio.
L’annuncio della ripresa del dialogo non è semplicemente
legato al timore che aerei da guerra delle due parti possano scontrarsi o
intralciarsi nei cieli siriani, visto anche che tendono ad operare in zone diverse. Dietro,
stanno considerazioni di realpolitik: la Russia sta gestendo in
solitaria la lotta al terrorismo, sta rafforzando il presidente Assad permettendogli di lanciare controffensive via terra e si sta allargando anche all’Iraq.
Da parte loro gli Stati Uniti sono costretti ad inseguire e a
ripiegare sulla cancellazione del programma di addestramento da 500
milioni di dollari, destinato a formare 15mila miliziani anti-Assad ma
che ne ha sfornati meno di un centinaio. Da qui la decisione,
presa definitivamente nei giorni scorsi, di chiudere il fallimentare
programma e avviarne uno nuovo di zecca: stavolta ad essere armati
saranno 25mila combattenti già presenti sul campo di battaglia, di cui
probabilmente 20mila kurdi siriani, tra i più efficienti nella reagire
all’offensiva dello Stato Islamico.
Una possibilità che fa tremare la Turchia che del soffocamento del
movimento per l’autodeterminazione del popolo kurdo ha fatto la sua
bandiera: prima aiutando indirettamente gli islamisti che tentavano di
prendere Kobane e la Rojava nel nord della Siria; poi lanciando una vera
e propria operazione militare contro il Pkk in Iraq e nel sud della
Turchia. Ankara ha perso la sua guerra: l’intervento russo
distrugge il sogno di creare una zona cuscinetto al confine con la
Siria, che Erdogan era riuscito a strappare agli Usa dopo due anni di
pressioni, e gli Usa aprono ai nemici kurdi. La reazione è
isterica: da giorni il presidente turco minaccia Mosca di interrompere
l’acquisto di gas naturale (la Turchia ne compra il 60% del suo
fabbisogno dalla Russia) e la costruzione del primo impianto nucleare
del paese, affidato alla compagnia russa Rosatom.
Tant’è, le necessità delle due super potenze vengono molto prima di
quelle degli alleati minori, spesso sfruttati a proprio piacere. Come ha
fatto la Nato nei giorni scorsi, quando in risposta ai raid russi e
all’ingresso di aerei di Mosca nello spazio aereo turco, minacciava
Mosca di dispiegare le proprie truppe a sud, in Turchia. Ma la
guerra, in questo momento, non serve a nessuno e gli Usa necessitano di
rientrare in campo, vista anche l’ultima mossa di Baghdad: l’Iraq ha
paventato la possibilità di chiedere alla Russia un intervento anti-Isis
nel paese, che sostituisca quello poco efficace della coalizione
guidata dagli statunitensi.
A tale situazione si aggiunge la presenza ancora radicata in Siria,
nonostante i bombardamenti Usa e quelli russi, dello Stato Islamico che
ieri – secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, gruppo basato
a Londra e legato alle opposizioni anti-Assad – avrebbe occupato alcuni
villaggi nel nord di Aleppo, strappandoli ai rivali del Fronte al-Nusra
e alle poche sacche ancora presenti di Esercito Libero Siriano.
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