Il padronato è andato completamente in tilt sullo sciopero di venerdì
scorso proclamato dai sindacati conflittuali. Con una compattezza senza
precedenti – segno inequivocabile della riuscita dell’iniziativa –
tutta la borghesia centrosinistra e centrodestra ha lanciato la sua
vandea anti-sindacale. Andando completamente nel pallone, nella stessa
pagina, negli stessi servizi al telegiornale, negli stessi commenti
politici, si dichiarava prima l’esigua minoranza delle sigle promotrici (che, a detta loro, non rappresentavano alcunché nel mondo del lavoro), subito dopo dichiarando il blocco generale delle metropoli.
Delle due l’una: o quei sindacati non rappresentano nulla, o i
lavoratori hanno aderito in blocco.
Ma la schizofrenia padronale ha
raggiunto il livello massimo nel tentativo di delegittimare le ragioni
stesse dello sciopero: non c’erano motivi comprensibili, dichiaravano all’unisono destra e sinistra, Repubblica e Corriere, Ichino e Camusso. In effetti lo sciopero verteva su due grandi questioni. La prima, la vertenza Alitalia, che vedrà il licenziamento di 2037 dipendenti
su circa 11.000 (senza contare il peggioramento delle condizioni per
chi rimarrà al lavoro). Undicimila dipendenti che sono il risultato di
un quindicennio di tagli, visto che nel 2000 i dipendenti erano 20.000.
Effettivamente, uno sciopero senza alcuna ragione. La seconda questione
dirimente è la privatizzazione del trasporto pubblico cittadino, in
particolare a Roma. Da mesi i radicali stanno raccogliendo le firme per
indire il referendum sulla privatizzazione dell’Atac.
Anche in questo caso, tutta la politica liberale, senza distinzione di
sorta, sta appoggiando la linea liberista senza dare spazio alle ragioni
di chi indica proprio nella privatizzazione il problema dei servizi
pubblici (romani in particolare). Conviene infatti ricordare che una
parte fondamentale del trasporto pubblico romano è già privatizzata (la
gestione delle linee periferiche è affidata alla società Roma Tpl), ed è
proprio il settore che vede i disagi più rilevanti dell’intero trasporto pubblico romano. Anche qui, in effetti, trattasi di “motivi incomprensibili”, secondo la lettura liberale.
A chiarire le posizioni sono intervenuti i sindacati confederali,
sempre in prima linea nel delegittimare la concorrenza sindacale di
base. Non tanto il sindacato giallo della Cisl, che per bocca di
Annamaria Furlan dichiarava che non è più possibile “abusare” del diritto di sciopero. Quanto della Cgil,
gongolante di fronte alla canea mediatica contro i sindacati
concorrenti e che in maniera sibillina chiede a gran voce una legge
sulla rappresentanza sindacale, strumento con cui stroncare la
rappresentanza per tutti quei sindacati che decidono di non firmare gli
accordi aziendali (in sintomatico accordo
col bolscevico Ichino). Una forma contorta per arrivare allo stesso
risultato, quello di espellere dai posti di lavoro il sindacalismo
concorrente (e di classe), proponendosi come partner aziendale con cui
concertare la produttività, ricalcando in questo il modello
a-conflittuale tedesco.
Il problema, in tutta questa vicenda, sono come sempre le adesioni.
Nonostante le crociate liberali contro il diritto di sciopero i
lavoratori continuano a togliersi volontariamente una giornata di paga
pur di lottare contro il processo di privatizzazione dell’economia
pubblica. Finché le adesioni saranno di questo livello sarà molto
complicato pacificare in senso liberista la rappresentanza sindacale.
Certo, senza sponde politiche questo livello di conflittualità
continuerà a rimanere afono rispetto alla forza politico-mediatica
padronale in grado di costruire e organizzare consenso contro il mondo
del lavoro. Ma una forma di resistenza persiste, in attesa di essere
valorizzata e divenire problema politico.
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