di Michele Giorgio – il Manifesto
Fatah e Hamas si scambiano
nuove accuse dopo l’attentato di martedì, senza conseguenze, avvenuto
all’ingresso di Gaza contro il convoglio del premier dell’Anp Rami
Hamdallah e il capo dell’intelligence Majd Faraj. Il presidente Abu Mazen attribuisce al movimento islamico, che controlla Gaza, tutta la responsabilità dell’accaduto. Hamas, per bocca di uno dei suoi fondatori, Mahmud Zahar, respinge l’accusa di coinvolgimento. «Se
Hamas fosse stato interessato all’assassino di Hamdallah allora il
primo ministro non sarebbe rimasto vivo», ha spiegato con lapidaria
sincerità Zahar, riferimento nella direzione politica del braccio armato
di Hamas. Le indagini sull’attentato continuano, assicura il
capo delle forze di sicurezza di Gaza Tawfiq Abu Naim. Per ora non si sa
nulla se non che sono stati fermati alcuni sospetti. Nessuno ha
rivendicato l’attacco.
Comunque sia andata la popolazione di Gaza in poche ore ha metabolizzato l’accaduto e ieri appariva di nuovo immersa nei suoi problemi.
Nessuna curiosità per il piccolo cratere aperto nell’asfalto
dall’esplosione dell’ordigno nascosto ai margini della strada tra il
valico di Erez e il capoluogo Gaza city. Sono troppi e sempre
più difficili da risolvere i problemi di questo piccolo pezzo di terra
palestinese causati soprattutto dal blocco attuato da oltre dieci anni
da Israele (e dall’Egitto). Non sorprende che dei 540 milioni
di dollari che le Nazioni Unite chiedono ai Paesi donatori per gli aiuti
umanitari nei Territori palestinesi occupati, il 75% sia destinato
proprio alla Striscia di Gaza.
Oggi a Roma è prevista una conferenza internazionale in
sostegno dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi
colpita dal taglio di 300 milioni di dollari nelle donazioni Usa.
«L’elettricità è scarsa, l’acqua è in gran parte non potabile,
l’economia è ferma, la disoccupazione sfiora il 50% tra gli adulti – ci
dice Basem Abu Jrai, un ricercatore del Al Mezan for Human Rights – e le
poche imprese che lavorano poi non riescono a vendere i loro prodotti
fuori da Gaza. Lo scorso anno le esportazioni sono state appena il 2%
rispetto al totale delle importazioni. Israele non lascia uscire nulla
dalla Striscia».
Ed è paradossale che per parlare di Gaza e dei suoi problemi
due giorni fa si siano incontrati alla Casa Bianca, su invito
dell’Amministrazione Trump, i rappresentanti di Israele, Bahrain,
Egitto, Oman, Qatar, Arabia Saudita e di vari Paesi europei in assenza
dei principali interessati: i palestinesi. L’Anp ha respinto
l’invito Usa non tanto, o non solo, per il riconoscimento di Gerusalemme
come capitale di Israele fatto da Trump, ma perché vi ha scorto il
tentativo di promuovere il “piano di pace” Usa che non prevede la
nascita dello Stato di Palestina. L’inviato americano per il
Medio Oriente Jason Greenblatt ha presentato una serie di misure per
Gaza senza affrontare il blocco israeliano, storica causa della crisi.
Alla fine l’iniziativa Usa si è rivelata per quello che era: un
pretesto per far incontrare i delegati israeliani con quelli dei Paesi
del blocco sunnita del Golfo.
A Washington nessuno ha affrontato le critiche che il Controllore
israeliano dello Stato ha rivolto all’Esercito e al governo Netanyahu
per come ha gestito l’ultima guerra contro Gaza. In particolare per la
cosiddetta direttiva “Annibale” che all’inizio di agosto 2014 vide le
forze armate israeliane bombardare massicciamente i quartieri orientali
di Rafah in reazione alla cattura di un ufficiale dello Stato ebraico da
parte di combattenti palestinesi. I civili uccisi furono oltre 100.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento