di Chiara Cruciati
La fuga da Ghouta
est è iniziata: ad un mese dalla ripresa dell’offensiva governativa sul
sobborgo di Damasco, ieri 12mila civili sono usciti dalle cittadine di
Hammouriyeh e Jisreen. A bordo di aiuto e motorini, a piedi,
con coperte e qualche valigia, hanno attraversato il corridoio
individuato dal governo. La tv ne ha mostrato i volti: donne, bambini,
anziani accompagnati fuori dopo una notte di azioni aeree sulla zona.
Civili in uscita, i primi dopo i 150 feriti evacuati nei giorni scorsi dalla Mezzaluna rossa, e
aiuti in entrata: 25 camion di cibo e medicine Onu hanno raggiunto
26mila persone nell’enclave sotto assedio interno ed esterno, dove
restano bloccati 400mila civili. Ma gli scontri non cessano: l’aviazione siriana ha proseguito nei raid e gli islamisti nel lancio di missili; 50 i morti ieri, secondo le opposizioni, un numero che farebbe salire il bilancio a 1.500 in un mese.
E con il governo che ha ripreso il 60% della Ghouta orientale, si fa avanti la Turchia, sponsor delle milizie di opposizione: ieri il portavoce del presidente Erdogan ha detto che i servizi segreti stanno lavorando all’evacuazione di al-Nusra dal sobborgo, stimando mille miliziani qaedisti.
Dall’altra parte del Paese, trentamila persone sono fuggite in 48 ore da Afrin.
«I bombardamenti e i colpi di artiglieria non si sono fermati mai»,
denuncia il portavoce delle unità di difesa popolare Ypg, Birusk Hasaka:
le bombe dell’aviazione turca piovono senza sosta da giorni sul centro
della principale città del cantone curdo-siriano nel nord-ovest del
paese, decine le vittime. Solo mercoledì, riporta l’agenzia cuda Anf,
sono morte 13 persone di cui sette bambini, ieri tre bambini e due
donne.
Secondo il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin,
«il controllo di più del 70% di Afrin è stato assicurato, il cerchio si è
completamente chiuso intorno ai terroristi e prevediamo che il centro
della città sarà a breve ripulito».
Gli sfollati stanno raggiungendo le zone controllate dal governo di Damasco, a sud-est di Afrin, nella direttrice per Aleppo. Fuggono
a bordo di furgoncini e pick-up verso la sola via di fuga possibile da
una città ormai quasi priva di acqua e cibo: l’esercito turco ha
tagliato l’acqua da giorni e i prodotti alimentari dal resto di Rojava
non entrano. Ankara sta prendendo la popolazione per fame, una
comunità che finora ha resistito a due mesi di operazioni aeree e di
offensiva via terra di 20mila miliziani islamisti al soldo del
presidente Erdogan.
Che non fa passare giorno senza lanciare dichiarazioni di guerra alla
regione curdo-siriana, considerata una minaccia nonostante non abbiano
mai rivolto le armi contro il territorio turco. A far paura è il
progetto politico realizzato da Rojava, quel confederalismo democratico
che ha permesso l’autogestione delle comunità curde, arabe, turkmene e
che viene letta da Ankara come il primo passo di un contagio politico
del suo sud-est, curdo.
Da qui la necessità di ribadire la minaccia: «Abbandonate le vostre
speranze – ha detto ieri Erdogan – Non lasceremo Afrin fino a quando il
nostro lavoro non sarà completato». Il mittente è il Parlamento europeo,
sola istituzione dell’Unione a essersi espressa sul massacro in corso
nel cantone: ieri con 372 voti a favore ha approvato una mozione che
chiede alla Turchia di ritirarsi da Afrin.
«Ehi, Parlamento europeo, che stai facendo? – ha tuonato il
presidente turco, che due giorni fa ha incassato tre miliardi dalla
Commissione Ue per tenersi tre milioni di profughi siriani – Il
Parlamento europeo non può dirci di fare niente. La tua dichiarazione
entra da un orecchio ed esce dall’altro». E cita proprio quei tre
milioni di profughi, facendosi scudo dietro i loro corpi: dopotutto è ad
Afrin che Ankara intende trasferire centinaia di migliaia di
siriani, stravolgendo la demografia della zona e trasformandola in un
feudo turco protetto dagli uomini dell’Esercito Libero Siriano,
opposizione ad Assad.
I rumor su un passaggio di Afrin al governo di Damasco che
circolavano ieri, infatti, sono stati smentiti dall’ufficio della
presidenza che conferma invece l’accordo raggiunto con gli Stati Uniti
sull’evacuazione dalla vicina Manbij delle Ypg/Ypj.
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